Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

La sosta in una tavola calda

La sosta in una tavola calda

Di ritorno da un viaggio, un uomo raccontò di un’esperienza che gli era parsa una parabola sulla vita.
Durante una breve sosta egli entrò in una tavola calda dall’aspetto pulito e ordinato.
C’erano minestre deliziose, spezzatini caldi e ogni genere di piatti invitanti.

Ordinò una minestra.

“Lei viaggia con quell’autobus?” gli domandò la proprietaria che era al banco.
L’uomo annuì.
“Allora niente minestra!” esclamò la proprietaria.
“Uno spezzatino ben caldo con riso bollito?” domandò l’uomo perplesso.

“No, se è di quell’autobus.

Posso darle un sandwich.
Ci ho messo tutta la mattina a preparare quei piatti e lei ha soltanto dieci minuti per mangiarli.
Non le permetterò di mangiare cibo che non ha il tempo di gustare!” spiegò la proprietaria.

Brano senza Autore

Attraversare il fiume

Attraversare il fiume

Tre persone si trovarono un giorno davanti ad un fiume dalle acque rapide e minacciose.
Tutte e tre dovevano passare dall’altra parte.

Era molto importante per loro.

Il primo, un mercante scaltro e gran trafficante, abile nel gestire uomini e cose, si inginocchiò e rivolse un pensiero a Dio:
“Signore, dammi il coraggio di buttarmi in queste acque minacciose e di attraversare il fiume.
Dall’altra parte mi attendono affari importanti.
Raddoppierò i miei guadagni, ma devo fare in fretta…”
Si alzò e, dopo un attimo di esitazione si tuffò nell’acqua.

Ma l’acqua lo trascinò a valle.

Il secondo, un soldato noto per l’integrità e la forza d’animo, si mise sull’attenti e pregò:
“Signore, dammi la forza di superare questo ostacolo.
Io vincerò il fiume, perché lottare per la vittoria è il mio motto!”
Si buttò senza tentennare, ma la corrente era più forte di lui e lo portò via.
La terza persona era una donna.

A casa l’attendevano marito e figli.

Anche lei si inginocchiò e pregò:
“Signore, aiutami, dammi il consiglio e la saggezza per attraversare questo fiume minaccioso!”
Si alzò e si accorse che poco lontano un pastore sorvegliava il gregge al pascolo.
“C’è un mezzo per attraversare questo fiume?” gli chiese la donna.
“A dieci minuti di qui, dietro quella duna, c’è un ponte!” rispose il pastore.

Brano di Bruno Ferrero

Se sapessi che oggi è l’ultima volta

Se sapessi che oggi è l’ultima volta

Se sapessi che oggi è l’ultima volta che ti guardo mentre ti addormenti, ti abbraccerei fortemente e pregherei il Signore per poter essere il guardiano della tua anima.
Se sapessi che oggi è l’ultima volta che ti vedo uscire dalla porta, ti abbraccerei, ti darei un bacio e ti chiamerei di nuovo per dartene altri.

Se sapessi che oggi è l’ultima volta

che sento la tua voce, registrerei ogni tua parola per poterle ascoltare una e più volte ancora.
Se sapessi che questi sono gli ultimi minuti che ti vedo, direi “ti amo” e non darei scioccamente per scontato che già lo sai.
Sempre c’è un domani e la vita ci dà un’altra possibilità per fare le cose bene, ma se mi sbagliassi e oggi fosse tutto ciò che ci rimane, mi piacerebbe dirti quanto ti amo,

che mai ti dimenticherò.

Il domani non è assicurato per nessuno, giovane o vecchio.
Oggi può essere l’ultima volta che vedi chi ami.
Perciò non aspettare oltre, fallo oggi, perché se il domani non arrivasse, sicuramente compiangeresti il giorno che non hai avuto tempo per un sorriso, un abbraccio,

un bacio e che eri troppo occupato per regalare un ultimo desiderio.

Tieni chi ami vicino a te, digli quanto bisogno hai di loro, amali e trattali bene, trova il tempo per dirgli “mi spiace”, “perdonami”, “per favore”, “grazie” e tutte le parole d’amore che conosci.

Brano tratto dall’opera “La marioneta.” di Johnny Welch

Crescendo impari

Crescendo impari

Crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose.
Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi!
La felicità non è quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente!
Non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari!
La felicità non è quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.

Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose…

… ed impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentirti una felicità lieve.
Impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi,
Impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

Ed impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate,

di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, ed impari che il tempo si dilata e che quei cinque minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore!
Ed impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.
Impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.
Impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

Ed impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità.

Impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami!
Impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.
Ed impari che nonostante le tue difese, nonostante il tuo volere o il tuo destino, in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande Jonathan Livingston.
Ed impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

Brano tratto dal libro “Il gabbiano Jonathan Livingston.” di Richard Bach

Perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Da oggi in poi, tutti i giorni, quando mi sveglio, dirò:
Oggi io sono felice!
Mi ricorderò di ringraziare il sole, per il suo caldo e la sua luminosità.
Sentirò che sto vivendo, respirando.

Potrò sfruttare tutte le risorse della natura, gratuitamente.

Non avrò bisogno di comperare il canto degli uccelli, neanche il mormorio della riva del mare.
Ricorderò di sentire la bellezza degli alberi e dei fiori nelle sublimi ore della mattina.
Sorriderò sempre quando è possibile.
Cercherò di coltivare più amicizie e neutralizzare le inimicizie.
Non giudicherò gli altri, i compagni e gli amici.
Ricorderò di telefonare ad un amico per fargli capire che sento la sua nostalgia, riserverò minuti di silenzio per avere l’opportunità di ascoltare.

Non mi lamenterò!

Avrò sempre in mente che un minuto trascorso non ritorna più!
Approfitterò meglio di tutti i minuti della vita.
Non soffrirò in anticipo, pensando al futuro incerto, o ricordando le cose passate.
Non penserò a ciò che non ho e mi piacerebbe avere.
Come posso essere felice con quello che ho?

Il dono più grande è la propria vita.

Voglio ricordare di leggere una poesia e dedicarla a qualcuno/a.
Non mi aspetto niente in cambio, soltanto il piacere vedere il sorriso di un amico.
Voglio ricordare che esiste qualcuno che mi vuole bene.
E, quando la notte arriva, guarderò il cielo, le stelle e la luna, e ringrazierò gli angeli e Dio perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ancora cinque minuti papà!

Ancora cinque minuti papà!

Una donna si avvicinò ad un uomo seduto sulla panchina di un parco giochi.
“Quel bambino con la maglietta rossa sullo scivolo è mio figlio.” disse lei.
“È un bravo bambino.
Mia figlia invece è quella bambina in bicicletta, con il vestito bianco.” rispose l’uomo.
Poco dopo, guardando l’orologio, il padre della piccola si alzò per andare via:

“Che ne dici Melissa, ce ne andiamo?”

La figlia rispose pregandolo di rimanere ancora altri cinque minuti al parco.
Senza dire altro, l’uomo annuì tornando a sedersi sulla panchina.
I cinque minuti chiesti dalla bambina passarono in fretta e puntuale l’uomo le chiese nuovamente: “Andiamo?”
“Ancora cinque minuti papà, solo cinque minuti!” disse la bambina.
Il papà sorridendo rispose “Okay!”

La donna, stupita della calma dell’uomo gli disse:

“Caspita, lei è davvero un padre molto paziente!”
A quel punto l’uomo sorrise ancora…
“Il fratello di Melissa è stato ucciso da un automobilista ubriaco l’anno scorso.
Non abbiamo trascorso molto tempo insieme, e adesso darei qualunque cosa pur di stare cinque minuti con lui.
Ho promesso a me stesso che non avrei ripetuto quel terribile errore con Melissa…

… Lei crede che le vengano concessi altri cinque minuti per giocare…

La verità è che sono io a concedermi altri cinque minuti per vederla giocare!”

Con poche parole l’uomo è riuscito ad affrontare una questione molto importante:
nella vita non ci si deve mai lasciar sopraffare dagli impegni lavorativi e dalla carriera, a scapito degli affetti e di tutto ciò che è veramente importante.
Spesso non si ha una seconda possibilità!

Brano senza Autore

Peter e il filo magico

Peter e il filo magico

C’era una volta Peter, un ragazzino molto vivace a cui tutti volevano bene: la sua famiglia, i suoi maestri e i suoi amici…
Ma Peter aveva un piccolo, grande problema.
Peter non riusciva a vivere il presente.
Non aveva imparato a godere della vita.
Quando era a scuola, sognava di essere fuori a giocare.
Quando giocava, sognava di essere già in vacanza.
Peter sognava sempre ad occhi aperti, non godendosi mai il presente che la vita gli offriva.
Un mattino, Peter stava camminando nel bosco vicino a casa.
Siccome si sentiva stanco, decise di fermarsi in una radura e di fare un pisolino.
Si addormentò come un sasso, ma dopo qualche minuto, si sentì chiamare per nome:
“Peter, Peter!” ripeteva una voce stridula.

Quando aprì gli occhi… sorpresa!

Si ritrovò dinnanzi una donna vecchia di almeno cent’anni, con i capelli candidi che le ricadevano sulle spalle come matasse di lana arruffata.
Nella mano rugosa aveva una pallina magica, con un foro nel centro da cui pendeva un lungo filo dorato.
“Peter,” disse la vecchia, “questo è il filo della vita.
Se lo tiri piano piano, in pochi secondi passerà un’ora, se tiri più forte, in pochi minuti passeranno giorni interi.
Se tiri con tutta la tua forza, in pochi giorni passeranno dei mesi o addirittura degli anni!”
Peter era eccitato dalla scoperta.
“Oh, mi piacerebbe tanto averlo!” esclamò smanioso.
Allora la vecchietta si chinò e gli diede la pallina con il filo magico.
Il giorno dopo, Peter era seduto nel suo banco a scuola, e si sentiva annoiato e irrequieto. Improvvisamente si ricordò del suo nuovo giocattolo.

Tirò il filo pian piano e si trovò subito a casa, a giocare nel suo giardino.

Rendendosi conto dei poteri del filo magico, Peter presto si stancò di andare a scuola e desiderò essere un ragazzo più grande, alla scoperta della vita.
Allora tirò il filo un po’ più forte e si ritrovò adolescente, con una ragazza di nome Elise.
Ma Peter non era ancora soddisfatto.
Egli non era in grado di cogliere la bellezza di ogni istante e di esplorare le semplici meraviglie offerte dalle diverse fasi della vita.
Sognava invece di essere già adulto, e così tirò di nuovo il filo, sicché gli anni passarono in un lampo.
Si ritrovò allora trasformato in un uomo maturo.
Elise era diventata sua moglie e Peter era circondato da tanti bambini.
Ma notò un’altra cosa:
i suoi capelli neri avevano iniziato a diventare grigi, e la sua dolce e adorata mamma era diventata vecchia e debole.

Eppure, Peter ancora non riusciva a vivere il presente.

Perciò, tirò un’altra volta il filo d’oro e attese la nuova trasformazione.
Adesso aveva novant’anni.
Ormai i suoi folti capelli scuri erano diventati bianchi come la neve e la moglie, un tempo bellissima, era morta già da qualche anno.
I suoi deliziosi bambini erano cresciuti ed erano usciti di casa per vivere la loro vita.
Così, a un tratto, Peter si rese conto di non essersi mai fermato a godere di nulla.
Non era mai andato a pescare con suo figlio, non aveva mai fatto una passeggiata al chiaro di luna con sua moglie, non aveva mai piantato un albero… e non aveva mai nemmeno trovato il tempo di leggere quei bellissimi libri che tanto piacevano a sua madre.
Era sempre andato di corsa, senza fermarsi a guardare le bellezze che adornavano il suo cammino.

Questa scoperta rattristò molto Peter.

Allora, per riordinare le idee e rasserenarsi un po’, decise di andare a fare un giro nel bosco dove era solito giocare da bambino.
Entrò nel bosco, si accorse che gli alberelli della sua infanzia erano diventati querce gigantesche; era stupendo, sembrava di trovarsi in un Paradiso Terrestre.
Allora si distese sull’erba di una radura e si addormentò profondamente.
Dopo qualche minuto, qualcuno lo chiamò: “Peter, Peter!”
Aprì gli occhi e con suo grande stupore rivide la vecchia che gli aveva regalato la pallina molti anni prima.
“Ti è piaciuto il mio regalo?” chiesa la vecchia.
“All’inizio è stato divertente, ma ora lo odio a morte.” disse Peter, “Tutta la vita mi è passata davanti agli occhi senza che potessi goderne un solo istante.
Certo, ci saranno anche stati dei momenti molto belli e altri molto tristi, ma non ho avuto la possibilità di coglierli.

Ora mi sento vuoto, mi manca il dono della vita!”

“Sei davvero un ingrato!” disse la vecchietta, “Ma ti concederò di esprimere un ultimo desiderio.”
Peter ci pensò un istante e poi rispose fulmineamente:
“Vorrei ridiventare bambino e riprovare a vivere daccapo!”
Poi si riaddormentò.
A un tratto sentì di nuovo che qualcuno lo chiamava, e si risvegliò.
“Chi sarà questa volta?” si chiese.
Quando aprì gli occhi, scoprì con gioia che era sua madre che lo stava chiamando, e che era tornata giovane, sana e forte.
Allora Peter si rese conto che la vecchietta aveva mantenuto la promessa e che l’aveva riportato all’infanzia.
“Su, Peter, dormiglione!
Se non ti sbrighi ad alzarti farai tardi a scuola!” lo ammoniva sua madre.
Naturalmente Peter scattò su dal letto e da quel momento incominciò a vivere come aveva sperato: una vita piena, ricca di gioie, soddisfazioni e successi…
Ma tutto ebbe inizio quando smise di sacrificare il presente per il futuro e si rese conto di dovere vivere nell’oggi.

Brano tratto dal libro “Il monaco che vendette la sua Ferrari.” di Robin Sharma