L’asino ed il bue

L’asino ed il bue

Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella stalla.
Per primo, naturalmente, si presentò il leone:
“Solo un re è degno di servire il Re del mondo!” ruggì, “Io mi piazzerò all’entrata e sbranerò tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!”

“Sei troppo violento!” disse l’angelo.

Subito dopo si avvicinò la volpe.
Con aria furba e innocente, insinuò:
“Io sono l’animale più adatto.
Per il figlio di Dio ruberò tutte le mattine il miele migliore e il latte più profumato.
Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!”
“Sei troppo disonesta!” esclamò l’angelo.
A testa alta e con il petto in fuori, splendente, arrivò il pavone.

Sciorinò la sua magnifica ruota color dell’iride:

“Io trasformerò quella povera stalla in una reggia più bella dei palazzo di Salomone!”
“Sei troppo vanitoso!” disse l’angelo.
Passarono, uno dopo l’altro, tanti animali ciascuno magnificando il suo dono.
Invano.
L’angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene.
Vide però che l’asino e il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un contadino, nei pressi della grotta.

L’angelo li chiamò:

“E voi non avete niente da offrire?”
“Niente!” rispose l’asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie, “Noi non abbiamo imparato niente oltre all’umiltà e alla pazienza.
Tutto il resto significa solo un supplemento di bastonate!”
Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse:
“Però potremmo di tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code!”
L’angelo finalmente sorrise:
“Voi siete quelli giusti!”

Brano senza Autore.

La candela che non voleva bruciare

La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto:
una candela che rifiuta di accendersi.
Tutte le candele dell’armadio inorridirono.
Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita!
Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all’idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti.
Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente:

“No e poi no!

Io non voglio bruciare.
Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo.
Io voglio rimanere così come sono:
elegante, bella e soprattutto intera!”
“Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta!” replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali, “Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente.
Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice.”

“No, grazie tante,”

rispose la candela rossa, “ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia.”
“La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro,” continuò il cero, “solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso.
Se lasci che la solitudine, il buio e il freddo avanzino, avvolgeranno il mondo!”
“Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?” chiese la candela.
“Certo,” ribadì il cero, “ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati.
Siamo i cavalieri della luce.”
“Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore?”

domandò ancora la candela.

“Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo!” concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere.
Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo.
La cera e lo stoppino si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

Brano di Bruno Ferrero

La pecora nera

La pecora nera

C’era una volta una pecora nera.
Tutte le altre pecore del gregge erano bianche.
Detestavano la povera pecora nera e la coprivano di insulti.
Ogni volta che la vedevano belavano rabbiose:
“Stai lontana da noi!
Sei uno scherzo della natura, non sei normale!”
Erano malignamente felici quando riuscivano a farla piangere.
Soprattutto Belinda, una grossa pecora bianca la trattava in modo perfido e crudele.
Era la Capo gregge.

Tutte le altre andavano sempre dietro di lei.

Tutte facevano quello che faceva lei.
La pecora nera era triste.
Le sarebbe piaciuto tanto essere come le altre.
Ma non poteva cambiare il colore nero del suo mantello.
Qualche volta tentava di scappare e si nascondeva.
Ma poi tornava perché non sapeva cavarsela da sola.
Belinda era robusta e presuntuosa.
Decise di fare un viaggio per conoscere il mondo.
Raggiunse in poco tempo pascoli nuovi.
Quando trovava un gregge sconosciuto, si metteva in mezzo e si vantava:
“Nel mio gregge io sono il capo.
Tutte mi ubbidiscono.
Sono io che decido come devono andare le cose…”
Un giorno, Belinda incontrò un grosso gregge molto particolare.

Tutte le pecore erano nere.

Quando Belinda se ne accorse si fermò interdetta; poi si mise a ridacchiare.
E, ancheggiando come una indossatrice, si diresse verso il gregge sicura della sua bellezza e del suo splendido vello bianco.
Tutto il gregge scoppiò invece in una sonora risata di scherno.
Prima che Belinda potesse emettere un belato di sorpresa, una pecora nera, grossa e robusta quanto lei, si fece avanti e in tono quanto mai minaccioso disse:
“Avete mai visto niente di più ridicolo?
Ti strapperemo quella orribile pellaccia e così vedremo di che colore sei veramente!”
Tutto il gregge sghignazzò.
Belinda fece il più rapido dietro front della sua vita e scappò a rotta di collo inseguita dalle risate e dallo scherno delle pecore nere.
Mise un bel po’ di distanza tra sé e il pascolo delle pecore nere, finché arrivò ad un grande recinto dove vide un gregge molto numeroso.
Non ne aveva mai visto uno simile.
Era composto da pecore bianche, pecore nere, pecore rossicce, pecore chiazzate e perfino pecore metà bianche e metà nere.
Aveva perso molta della sua baldanzosa sicurezza, perciò si fermò interdetta e guardinga, pensando: “Chissà come mi trattano qui…”

Le pecore si erano accorte di lei e, cordialmente, le chiesero:

“Da dove vieni?”
“Dall’altra parte della montagna.” rispose.
Una pecora nera le venne incontro.
Belinda fece per scappare, ma la pecora nera disse:
“Non aver paura!
Resta qui con noi finché ti pare.
L’erba è buona e abbondante.
Da noi sono tutti benvenuti!”
Belinda rimase in quello strano gregge per due giorni.
Poi decise di tornare a casa.
Prima dell’addio disse:
“Siete il miglior gregge del mondo.
Accettate e rispettate le pecore di tutti i colori.
Da noi, abbiamo solo una pecora nera…”

Brano tratto dal libro “Racconti di Natale.” di Giuseppe D’Ambrosio Angelillo

Elena, la gentilezza ed il sorriso

Elena, la gentilezza ed il sorriso

Un giorno Elena uscì da casa talmente di fretta che si dimenticò di prendere con se la gentilezza, la cosa che invece prese fu il sorriso; quindi andò a lavoro e sorrise per tutto il giorno, ma il sorriso non le impedì di essere poco gentile con la cliente che le chiese un consiglio per un regalo alla nonna.
Elena: “Se è per sua nonna può regalarle un profumo di una fragranza qualsiasi, sono certa che non farà alcuna differenza.”
E il sorriso non le impedì di prendere l’unico posto libero sull’autobus mentre restava in piedi una donna con in braccio il suo bambino.
E ancora, sempre con il sorriso, ignorò una signora anziana in coda dopo di lei al supermercato che doveva pagare solo il latte,

mentre lei aveva una spesa chilometrica.

Il giorno dopo uscendo sempre di corsa, prese per prima la gentilezza, ma non fece in tempo a prendere il sorriso per paura di perdere l’autobus.
Arrivata a lavoro si trovò davanti una signora di una certa età, che la guardava corrucciata.
Vicino a lei c’era la nipote che il giorno prima era venuta a comprarle un regalo.
Signora: “Volevo farle sapere, cara la mia “commessa del mese”, che non mi piacciono tutte le fragranze, ma solo quelle a base di agrumi e siamo venute per cambiare il regalo.”
Elena divenne rossa e si sentì dispiaciutissima, ma oggi aveva la gentilezza ed era certa che in qualche modo avrebbe rimediato.
Elena: “Mi dispiace moltissimo, sono stata davvero maleducata ieri.

Non ho davvero scuse.

Le faccio vedere subito tutte le nuove fragranze a base di agrumi che ci sono arrivate nell’ultimo mese.”
La Signora corrucciata, improvvisamente cambiò espressione e sorrise.
A sua volta Elena sorrise.
Ma come poteva essere se aveva lasciato il sorriso a casa?
Tornando a casa, in autobus aveva ceduto il posto a un signore con il bastone il quale le aveva sorriso ringraziandola e lei aveva risposto con un sorriso, ancora una volta.
Poi andò al supermercato perché il giorno prima aveva dimenticato di comprare il lievito per fare una torta e mentre era in fila, il Signore davanti a lei, con una spesa chilometrica, le disse che, qualora avesse voluto, sarebbe potuta passare avanti, e sorrise ancora.

Quel giorno Elena imparò che il sorriso da solo non bastava.

Non basta se non è sincero e se non c’è in esso gentilezza.
Invece la gentilezza da sola può far nascere il sorriso.
Se ci pensate bene anche la gentilezza può essere contagiosa, ma bisogna fare il primo passo, se facessimo tutti così il mondo forse potrebbe essere migliore.
Il mondo siamo noi.
Elena, oggi, lo sa.

Brano di Patrizia Sgura

Lo sai che hai due stupendi occhi verdi?

Lo sai che hai due stupendi occhi verdi?

“Non stia lì a perdere tempo con me.
Sono una poco di buono, faccio schifo a tutti e faccio schifo anche a me!”

Era una giovane arrabbiata.

Incrociò il parroco che l’aveva invitata a frequentare il gruppo dei giovani e con astio e amarezza snocciolò tutte le cose che non le piacevano di se stessa:
“Sono piatta e insignificante, ho un carattere insopportabile, ci provo con tutti, ma… nessuno mi vuole veramente, sono invidiosa delle mie amiche e in famiglia do sui nervi a tutti.
Che ci sto a fare in questo mondo?”
Il parroco la guardò e, dopo un momento di silenzio, le disse:

“Lo sai che hai due stupendi occhi verdi?”

… La ragazza tacque interdetta.
Il primo passo era fatto.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il gelso, il bruco e la farfalla

Il gelso, il bruco e la farfalla

C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.

Per noi la vita è così breve.

Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.

Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.

“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.

È la fine.

Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”

“Ciao Giovanni!

Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”

Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!

Brano di Bruno Ferrero

La leggenda del minestrone di Fagioli di Levada

La leggenda del minestrone di Fagioli di Levada

Tanti secoli orsono, un potente re bandì un editto in cui asseriva che avrebbe concesso la mano di sua figlia a chi avesse portato a corte il piatto più rappresentativo del suo regno.
Il regno era composto da diverse contee, ognuna delle quali vantava eccellenze culinarie.
Ci fu una gara serrata e tanti giovani portarono piatti con prodotti e ricette tipiche,

ma nessuno di questi incontrò i favori del re.

In quel regno era emigrato un giovane veneto per lavoro, il quale era perdutamente innamorato della principessa.
Sapeva però che, come emigrato, non aveva tipicità da portare, ma si ricordò il piatto povero della sua terra; fece un minestrone con un po’ di ortaggi del regno ed abbondò con i fagioli portati dalla sua terra natia.

Il re ne sentì da lontano il profumo ed entusiasta chiese:

“Da dove arriva questo ottimo odore?”
Il giovane rispose:
“È il piatto della mia terra di origine e si chiama minestrone di fagioli;
rende forti come i leoni ed è profumatissimo, nasce da un pentolone,

è un mangiare da poveri ma da re vale un regno.”

Il re entusiasta decretò il minestrone di fagioli piatto tipico delle sue terre e concesse al giovane la mano della figlia.
Da quel momento, i fagioli di Levada divennero, grazie al re, famosi ed ambiti in tutto il mondo.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Vivi il momento presente

Vivi il momento presente

C’era una volta un re che aveva passato tutta la vita a far guerre e ad ingrandire il suo regno.
A sessant’anni si rese conto che non aveva imparato molto sulla vita e sul senso dell’esistenza.
Convocò tutti i suoi ministri e consiglieri ed ordinò loro:
“Prendete tutto il denaro dei miei forzieri e andate ai quattro angoli del mondo alla ricerca dei libri di sapienza; vorrei finalmente conoscere la vera saggezza della vita.”
I consiglieri presero diversi sacchi d’oro e si spostarono verso tutte le direzioni della terra.
Tornarono dopo sette anni spingendo quaranta cammelli carichi di ogni sorta di libri grandi e piccoli.
Una vera montagna di libri rari.

Vedendoli, il re esclamò:

“Ho sessantasette anni, non avrò mai il tempo di leggere tutti questi libri.
Fatemi un riassunto di tutto!”
Furono convocati i più abili letterati del mondo che si misero al lavoro e dopo sette anni consegnarono un ottimo riassunto di tutto quel tesoro di sapienza.
Ma il riassunto equivaleva ancora al carico di sette cammelli.
“Ho già settantaquattro anni!” disse il re, “Non ho il tempo di leggere tutto.

Riassumete ancora!”

Si fece il riassunto del riassunto.
Ci vollero altri sette anni, al termine dei quali i saggi si ritrovarono con il carico di un solo cammello.
“Ho passato gli ottanta anni!” disse il re, sempre più debole, “I miei occhi sono molto stanchi.
Non riuscirei mai a leggere questi libri.
Riassumete ancora!”
I saggi si rimisero a lavoro e per sette anni ancora lavorarono giorno e notte.
Il risultato fu un solo libro.
Un libro che conteneva tutta la saggezza della terra.

In quel momento, un valletto si precipitò dai saggi:

“Presto, portate il libro al re.
Sta morendo!”
Il re aveva ormai ottantotto anni e agonizzava nel suo letto.
Il più dotto dei saggi avvicinò il suo volto a quello del re che in un debole soffio gli mormorò:
“Per favore, riassumi in una sola frase tutto il sapere, tutta la saggezza del mondo…”
Eccola, sire:
“Vivi il momento presente.”

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’amore, il discepolo ed il saggio

L’amore, il discepolo ed il saggio

Un giovane discepolo andò da un saggio e gli disse:
“Maestro ditemi una parola.
Quando un uomo ama è sa di essere amato è la persona più felice di questo mondo.

Ma come si fa ad imparare ad amare?”

“Beh,” rispose il saggio, “potresti iniziare a mettere in pratica queste regole:

  1. Non dare mai un’immagine falsa di se stessi.
  2. Dire sempre di sì, quando è sì, e no, quando è no.
  3. Mantenere la parola data, anche e soprattutto se costa.
  4. Guardare gli altri ad occhi aperti, cercando di conoscere i pregi e i difetti.
  5. Accogliere degli altri non solo i pregi ma anche i difetti e viceversa.
  6. Esercitarsi a perdonare.
  7. Dare agli altri il meglio di se stessi, senza nascondere loro i propri difetti.
  8. Riprendere il rapporto con gli altri anche dopo delusioni e tradimenti.
  9. Imparare a chiedere scusa, quando ci si accorge di aver sbagliato.
  10. Condividere gli amici, vincendo la gelosia.
  11. Evitare amicizie possessive e chiuse.
  12. Dare agli altri anche quando gli altri non possono darci niente.”
Il discepolo con uno sguardo perplesso disse:

“Sono regole belle ma difficili da vivere!”
“Perché, chi ti ha detto che amare è facile?” rispose il saggio, “Non esiste l’amore facile, non esiste l’amore a buon mercato.
Non esiste la felicità facile, non esiste la felicità comprata a prezzi di saldo.
Tutti cercano l’amore ma pochi sono disposti a pagare il prezzo per ottenerlo: il sacrificio!
Imparare ad amare richiede un lungo cammino e un lungo tirocinio.

È difficile, ma non impossibile!”

“Quando potrò dire a me stesso di aver imparato ad amare?” disse il discepolo.
“Mai. Perché la misura dell’amore è amare senza misura.” esclamò il saggio.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La leggenda dell’Arcobaleno (La leggenda dei colori)

La leggenda dell’Arcobaleno
(La leggenda dei colori)

Un giorno i colori decisero di riunirsi per stabilire chi tra loro fosse il più importante.
Il verde si propose subito come meritevole di ricevere il primato, dicendo:
“Guardatevi intorno, contemplate la natura, osservate le colline, le foreste e le montagne e vi renderete conto come, senza di me, non esista vita.
Io sono il colore dell’erba, degli alberi, delle praterie sconfinate.
Io rappresento la primavera e la speranza.”

Il blu si fece avanti commentando:

“Tu sei troppo occupato a guardare la terra, sei troppo preso dalla realtà che ti circonda.
Alza un po’ gli occhi verso il cielo, contempla la vastità e la profondità dei mari e lì scoprirai la mia presenza.
Io sono il colore della profondità, che abbraccia l’universo.
Io rappresento la pace e la serenità.”
Non appena il blu ebbe finito il suo commento, intervenne il giallo:
“Ma voi siete colori troppo seri!
Il mondo ha bisogno di luce e di gioia.
Io sono il colore che porta il sorriso nel mondo.
Del mio colore si vestono il frumento e i girasoli, le stelle della notte e il sole che illumina ogni cosa.

Io rappresento l’energia e la gioia.”

Timidamente si fece avanti l’arancione dicendo:
“Io sono il colore che annuncia il giorno e poi lascio tracce della mia presenza all’orizzonte, all’ora del tramonto.
Del mio colore si vestono le carote, i mango ed i papaya perché, dove sono presente, assicuro vitamine e una vita sana.
Io rappresento il calore e la salute.”
Il rosso, a voce alta, non diede il tempo di terminare all’arancione, e sicuro di se disse:
“Ma voi, state ancora discutendo su chi sia il più importante?

Ma non vi accorgete che io rappresento la vita?

Sono il colore del sangue, della passione, dei martiri e degli eroi.
Di me si vestono i papaveri ed i gelsomini; dove sono presente sono il centro dell’attenzione perché rappresento l’intensità e l’amore!”
Mentre il rosso stava ancora difendendo il suo caso, solenne e regale avanzò il viola:
“Io non ho bisogno di parlare, di propormi o di difendermi.
Il mondo mi conosce e quando passo si inchina.
Io rappresento la regalità:
del mio colore si vestono i re, i principi e gli uomini di chiesa.
Io rappresento l’autorità, ciò che è sacro e misterioso!”
Si presentarono altri colori, ognuno con le proprie ragioni, e si accese un animato dibattito riguardo a chi spettasse il primato.
All’improvviso si udì un tuono seguito da diversi fulmini e da una pioggia scrosciante.
I colori intimoriti fuggirono, si aggrapparono l’uno all’altro e, improvvisamente, sentirono la voce della pioggia:

“Quanto siete sciocchi!

Perché vi preoccupate di chi tra voi è il più importante?
Non vi accorgete che Dio vi ha creati diversi perché ciascuno possa onorarlo attraverso la propria specificità e bellezza?
Orsù, venite con me!”
Detto questo, prese i colori e si diresse verso l’orizzonte e con un ampio gesto tracciò un arcobaleno nel cielo, dicendo:
“Il vostro scopo non è di primeggiare, ma di armonizzare i vostri colori formando arcobaleni!”

Brano tratto dal libro “Sii un girasole accanto ai salici piangenti.” di Arnaldo Pangrazzi. Edizione Camilliane.