Festa di compleanno al castello

Festa di compleanno al castello

Il villaggio ai piedi del castello fu svegliato dalla voce dell’araldo del castellano che leggeva un proclama nella piazza:
“Il nostro signore beneamato invita tutti i suoi buoni e fedeli sudditi a partecipare alla festa del suo compleanno.
Ognuno riceverà una piacevole sorpresa.

Domanda a tutti però un piccolo favore:

chi partecipa alla festa abbia la gentilezza di portare un po’ d’acqua per riempire la riserva del castello che è vuota…”
L’araldo ripeté più volte il proclama, poi fece dietrofront e scortato dalle guardie ritornò al castello.
Nel villaggio scoppiarono i commenti più diversi.
“Bah!
È il solito tiranno!
Ha abbastanza servitori per farsi riempire il serbatoio…
Io porterò un bicchiere d’acqua, e sarà abbastanza!” disse un suddito.

“Ma no!

È sempre stato buono e generoso!
Io ne porterò un barile!” rispose un altro suddito.
“Io un… ditale!” replicò un altro ancora.
“Io una botte!” esclamò un suddito devoto.
Il mattino della festa, si vide uno strano corteo salire al castello.
Alcuni spingevano con tutte le loro forze dei grossi barili o ansimavano portando grossi secchi colmi d’acqua.
Altri, sbeffeggiando i compagni di strada, portavano piccole caraffe o un bicchierino su un vassoio.
La processione entrò nel cortile del castello.
Ognuno vuotava il proprio recipiente nella grande vasca, lo posava in un angolo e poi si avviava pieno di gioia verso la sala del banchetto.
Arrosti e vino, danze e canti si succedettero, finché verso sera il signore del castello ringraziò tutti con parole gentili e si ritirò nei suoi appartamenti.
“E la sorpresa promessa?” brontolarono alcuni con disappunto e delusione.

Altri dimostravano una gioia soddisfatta:

“Il nostro signore ci ha regalato la più magnifica delle feste!”
Ciascuno, prima di ripartire, passò a riprendersi il recipiente.
Esplosero allora delle grida che si intensificarono rapidamente.
Esclamazioni di gioia e di rabbia.
I recipienti erano stati riempiti fino all’orlo di monete d’oro!
“Ah! Se avessi portato più acqua…”

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Sean e la mucca

Sean e la mucca

In un piccolo pesino dell’Irlanda vivevano una volta un figlio e una madre molto poveri.
Sean che era ancora un ragazzetto, non solo doveva lavorare tutto il giorno ma per arrotondare faceva anche delle scope che poi vendeva al mercato.
Ogni giorno portava a pascolare l’unica mucca che possedevano, e questa dava ogni giorno latte fresco.
Una bella mattina, Sean decise di raccogliere erica per intrecciare e fabbricare nuove scope, e così seguito dalla mucca si spinse oltre il bosco.
Ad un certo punto sentendosi stanco decise di riposarsi in una piccola valletta.
Si sdraiò e d’improvviso vide che tutto il prato era pieno di folletti che cantavano e che giocavano allegramente:

“Beati voi come siete contenti.

Io invece devo lavorare tutto il giorno e non ho mai tempo per giocare.”
“Vieni, vieni a giocare e ci divertiremo.” risposero i folletti.
“Oh grazie,” rispose Sean, “e a che cosa giochiamo?”
“A calcio,” rispose uno dei folletti, “tu stai in porta.”
E così cominciarono a giocare.
Tutto andò per il meglio finché arrivò una pallonata giusto in faccia al ragazzo e per cinque minuti non poté vedere niente.
Tutti gli elfi ridevano a crepapelle, e se ne andarono correndo per il prato.
Quando Sean recuperò la vista, non trovò più la sua mucca e subito pensò che si era persa nel bosco.

Tornò a casa e raccontò quanto era successo alla madre.

Il giorno dopo madre e figlio andarono subito alla ricerca della mucca e solo dopo lunghe ore di ricerca la trovarono morta in un dirupo.
La madre si disperò molto, e si sentiva perduta senza quella mucca che almeno le dava il latte.
Passò del tempo…
Una bella mattina Sean stava intrecciando dell’erica per le scope quand’ecco che scorse due elfi che pascolavano una mucca.
La guardò e la riguardò e ben presto si accorse che quella era la sua mucca.
Si avvicinò le saltò in groppa e la mucca indispettita cominciò a dimenarsi e a correre giù per il prato con i due elfi attaccati alla coda.
E la mucca correva e correva e arrivò nei pressi del lago, e sempre più vicino alla riva, e sempre più vicino all’acqua… finché non si immersero nell’acqua!
Il ragazzo stava dicendo le sue ultime preghiere quando scorse nel fondo del mare un palazzo di cristallo.
Entrarono e scorsero moltissime dame e cavalieri che erano nella sala principale.
Subito gli venne incontro il re.
“Lei si è impossessato della mia mucca!” disse il ragazzo.
“No caro ragazzo questa è la mia mucca, l’ho comprata da due elfi.” rispose il re.
Il ragazzo allora raccontò tutta la storia, ed il re che era un uomo buono propose al ragazzo un borsa piene di monete d’oro in cambio della sua mucca che faceva un ottimo latte.
“Niente affatto,” continuò il ragazzo, “io sono per le cose giuste, quindi rendetemi la mucca di mia madre e io toglierò il disturbo.”

Il re sbalordito per questo rifiuto disse:

“Come puoi rifiutare un’offerta del genere, la mucca è indispensabile qui a corte.
Con il suo latte macchiamo sempre il te delle sei.”
“E a me sicuramente servirà di più, perché noi lassù siamo molto poveri.” esclamò il ragazzo.
Il re commosso da tanta onestà gli concedette la mucca e gli regalò un sacchetto pieno di monete d’oro.
Ma il ragazzo rifiutò: “Penseranno tutti che li ho rubati.
Teneteli pure!”
“Mi sento in torto nei tue confronti ragazzo per cui ti faccio una proposta:
ogni giorno verso le cinque porterai in riva al lago un secchio pieno di latte di mucca e noi lo pagheremo per quanto per noi vale.” concluse il re.
Contento e soddisfatto Sean ritornò a casa e raccontò quello che era successo alla madre che credeva che suo figlio fosse diventato pazzo.
Così il ragazzo la dovette portare in riva al lago e quando vide due folletti uscire dal lago con due pacchettini pieni di monete d’oro restò molto meravigliata.
Così finisce questa storia, Sean si guadagnò sempre onestamente da vivere e visse ancora per molti anni con la sua mamma.

Favola Irlandese.
Brano senza Autore, tratto dal Web

Signore, lasciami prendere il tuo posto

Signore, lasciami prendere il tuo posto

Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina.
In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevuto il significativo titolo di “Cristo delle Grazie.”
Arrivava gente da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.
Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiedere anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all’immagine, pregò:
“Signore, lasciami prendere il tuo posto.
Voglio soffrire con te.
Voglio stare io sulla croce.”
Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.

Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse:

“Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione:
qualunque cosa succeda, qualunque cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio!”
“Te lo prometto, Signore.” rispose Sebastiano.
Avvenne lo scambio.
Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c’era Sebastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell’eremita.
I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva.
Finché un giorno…
Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenticò sul gradino la sua borsa piena di monete d’oro.

Sebastiano vide, ma conservò il silenzio.

Non parlò neppure un’ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne andò.
Né aprì bocca quando davanti a lui si inginocchiò un giovane che chiedeva la sua protezione prima di intraprendere un lungo viaggio per mare.
Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l’uomo ricco che, credendo che fosse stato il giovane a derubarlo della borsa di monete d’oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.
Si udì allora un grido:
“Fermi!”
Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare.
Sebastiano spiegò come erano andate le cose.
Il ricco corse allora a cercare il povero.
Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio.
Quando nel santuario non rimase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò:

“Scendi dalla croce.

Non sei degno di occupare il mio posto.
Non hai saputo stare zitto!”
“Ma, Signore!” protestò, confuso, Sebastiano, “Dovevo permettere quell’ingiustizia?”
“Tu non sai,” rispose il Signore, “che al ricco conveniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un’ingiustizia.
Il povero, al contrario, aveva un gran bisogno di quel denaro.
Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l’imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La storiella di una monetina d’argento

La storiella di una monetina d’argento

In una grande città di un lontano Paese esisteva una fabbrica di monete: una zecca.
Un giorno da quella zecca uscì una piccola moneta d’argento che subito cominciò a saltare e, tintinnando, disse:
“Voglio andare per il mondo, voglio vedere tutto ciò che succede nel mondo, lontano da qui!”
E ci andò veramente.
Passò dalle calde manine dei bambini alle fredde e viscide mani degli avari; i vecchi la tenevano stretta stretta, mentre i giovani la rimettevano subito in circolazione, spendendola presto e senza riflettere.
Per caso, un giorno, in un paese straniero, un signore se la trovò fra le mani ed esclamò:
“Toh! Una moneta d’argento del mio paese!” e la rimise nel borsellino insieme alle altre monete.
Lontana dal suo paese, la monetina si sentì estranea in mezzo alle altre e un giorno che il borsellino era aperto, scivolò per vedere cosa succedeva fuori; cadde a terra senza che nessuno si accorgesse di lei.
Dopo qualche ora passò un uomo che la vide, la prese e disse:

“Ma che razza di moneta è mai questa?

Non è delle nostre! È falsa!” e si affrettò a sbarazzarsene.
Incominciò così la sua odissea.
Quelle parole fecero tanto male alla monetina.
Essa sapeva di essere di puro argento e perfetta come conio.
Quelle persone si sbagliavano; non dovevano parlare male di lei e dire che era falsa e non valeva niente.
Un tale che l’aveva avuta per sbaglio disse:
“Appena è buio bisogna che cerchi di darla via.”
E così fece.
Qualcun altro la prese e, di nascosto, riuscì a spacciarla.
Passò di mano in mano.
Un giorno una povera donna che l’aveva avuta in compenso, dopo aver faticato a pulire una casa, non riuscì a darla via e fu per lei una vera disgrazia.

Pensò a come fare:

“Non posso tenere una moneta che non vale niente, la darò al fornaio che saprà come disfarsene.”
Ma il fornaio furbo si accorse che era una moneta fuori corso e non volle accettarla.
La poveretta la riprese e la riportò a casa:
la osservò con gentile delicatezza e disse:
“No! Non voglio più truffare nessuno.
Ma se ci penso bene questa monetina potrebbe essere un portafortuna.
La bambina prese la monetina insieme alla catenina e l’appese al collo.
Il portafortuna riposò tranquillo sopra il petto di una piccola innocente.
La mattina dopo, la madre della piccina la prese in mano e la osservò; staccò la catenina esclamando:
“Che razza di portafortuna: ora vedremo!”

Tuffata nell’aceto la moneta diventò verde.

Allora la donna chiuse il buco con del mastice, la lucidò un po’ e, giunta la sera, col buio, andò a comperare un biglietto della lotteria che, secondo lei, avrebbe dovuto portarle fortuna.
Siccome davanti al botteghino c’era molta gente che comperava i biglietti, quando toccò alla donna, il venditore prese la moneta e la gettò (senza osservarla) insieme alle altre.
Però il giorno dopo, accortosi che era falsa, riuscì a darla via.
Passò molto tempo e la moneta continuò a passare da uno all’altro, sempre malvista:
nessuno si fidava di tenerla.
Dopo tanto vagare senza alcuna meta, capitò fra le mani di un viaggiatore straniero che, prendendola per moneta corrente, volle darla via, ma anche lui si sentì dire:
“Non vale nulla! È falsa!”.
Allora la osservò bene e disse:
“Ma questa è una moneta d’argento del mio Paese, un’onesta moneta nostra. Toh!
Le hanno fatto il buco perché credevano che fosse falsa!
Voglio tenerla ed importarla in patria!”
Finalmente la moneta si sentì dire che era buona e onesta e finalmente sarebbe ritornata a casa!

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il Re che non sapeva ascoltare

Il Re che non sapeva ascoltare

C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo!
Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure:
“Basta, basta, non ti credo!
Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.

I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.

Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente:
“Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava:
“Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere:
“Dove vanno quelli che muoiono?” il regale papà lo zittiva dicendo:

“Piantala con queste stupidaggini!”

Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione:
“Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno?
Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla!
Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.

Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.

Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.

Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.

Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di “terra” capiva “guerra”, se dicevano “doni” pensava ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.

Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.

Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto.

Il re annuì.

“E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero:
“Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

Brano di Bruno Ferrero

Il sultano e il contabile

Il sultano e il contabile

C’era un Sultano a cui era morto il fedele contabile, e quindi dopo aver preso consiglio dai ministri, mandò i banditori in giro per cercare un nuovo amministratore della sua ricchezza.
Si presentarono diverse persone, e furono condotte alla presenza del Sultano, il quale li condusse alla camera del tesoro, e li lasciò per qualche minuto da soli.

Successivamente, il Sultano richiamò gli aspiranti, e dopo aver battuto le mani, fece venire i musicisti, quindi disse a loro:

“Su, ballate!”
Tutti gli aspiranti ballavano male, con le braccia strette al petto, e lentamente:
solo uno di essi saltava e danzava con vigore e piacere di ciò che faceva.

Visto ciò, il Sultano chiamò i ministri e le guardie, e disse a quello che ballava:

“Tu sarai il mio nuovo contabile, in quanto a loro,” indicando gli altri aspiranti “vengano decapitati!”
Il vizir del Sultano chiese allora: “Come mai è questa la vostra scelta, mio Sultano?” ed egli rispose:
“Vedi, mio fedele vizir, questi uomini hanno rubato l’oro dalla camera dove li ho lasciati, e così quando ballavano avevano paura che le monete nascoste cadessero,”

poi indicando il nuovo contabile,

“ma quest’uomo invece è stato fedele ed onesto, e non ha rubato: infatti lui ballava sciolto, poiché non aveva niente che lo impedisse!”
Così andò che quell’uomo divenne il nuovo contabile del Sultano, e visse sempre onorato e benvoluto.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il club del novantanove

Il club del novantanove

C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto.
“Paggio,” gli chiese un giorno il re, “qual è il segreto della tua allegria?”
“Non ho nessun segreto.
Signore, non ho motivo di essere triste.
Sono felice di servirvi.
Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte.
Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto.”
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri:
“Voglio il segreto della felicità del paggio!”
“Non puoi capire il segreto della sua felicità.
Ma se vuoi, puoi sottrargliela!” esclamò il saggio.

“Come?” chiese il re.

“Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove.” rispose il saggio.
“Che cosa significa?” domandò il sovrano.
“Fa’ quello che ti dico…” concluse il saggio
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva:
“Questo tesoro è tuo.
Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato!”
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante.

“Sono stato derubato!” gridò, “Sono stato derubato! Maledetti!”

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili…
Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro.
Soltanto novantanove.
“Novantanove monete.
Sono tanti soldi,” pensò, “ma mi manca una moneta.
Novantanove non è un numero completo!” pensava, “Cento è un numero completo, novantanove no!”

La faccia del paggio non era più la stessa.

Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi.
Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli.
Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove…
Non passò molto tempo che il re lo licenziò.
Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

Se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro?
E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati.
Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

Il saggio e la verità


Il saggio e la verità

Una volta, un imperatore sognò di aver perso tutti i denti.
Si svegliò spaventato e fece chiamare un saggio in grado di interpretare il suo sogno.
“Signore, che disgrazia!” esclamò il saggio.
“Ciascuno dei denti caduti rappresenta la perdita di un familiare caro a Vostra Maestà.”

“Ma che insolente!” gridò l’imperatore.

“Come si permette di dire tale fesseria?”
Chiamò le guardie ordinando loro di frustarlo.
Chiese in seguito che cercassero un altro saggio.
L’altro saggio arrivò e disse:
“Signore, vi attende una grande felicità!
Il sogno rivela che lei vivrà più a lungo di tutti i suoi parenti.”

Il volto dell’imperatore si illuminò.

Chiese che venissero consegnate cento monete d’oro a quel saggio.
Quando costui lasciò il palazzo, un suddito domandò:
“Com’è possibile?
L’interpretazione data da lei fu la stessa del suo collega.
Tuttavia lui prese delle frustate mentre lei ebbe delle monete d’oro!”
“Mio amico.” rispose il saggio “Tutto dipende da come si vedono le cose…

Questa è la grande sfida dell’umanità.

Da ciò deriva la felicità o l’infelicità, la pace o la guerra.
La verità va sempre detta, non c’è alcun dubbio, ma il modo come la si dice…
È quello che fa la differenza.
La verità deve essere comparata ad una pietra preziosa.
Se la rinfacciamo a qualcuno, può ferire, provocando rivolta.
Ma se l’avvolgiamo in una delicata confezione e la offriamo con tenerezza, sarà sicuramente accettata con più felicità.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il bambino e il cucciolo zoppo


Il bambino e il cucciolo zoppo

Il padrone di un negozio stava esponendo sulla porta un cartello con la scritta:
“Si vendono cuccioli.”
Questo genere di annuncio attira sempre i bambini e difatti di lì a poco un ragazzino si presentò nel negozio chiedendo:
“Quanto costano i cagnolini?”
Il padrone rispose:
“Tra i 30 e i 50 Euro.”
Il bambino mise la mano in tasca ed estrasse alcune monete:
“Ho solo 2,37 Euro.

Posso vederli?”

L’uomo sorrise e fece un fischio.
Dal retrobottega entrò correndo il suo cane seguito da cinque cuccioli.
Uno di questi però era rimasto molto indietro rispetto agli altri.
Il ragazzino subito indicò il cagnolino rimasto indietro che stava zoppicando:
“Cosa gli è successo?” domandò.
L’uomo gli spiegò che quando era nato il veterinario gli aveva detto che quel cucciolo aveva un’anca difettosa e che sarebbe rimasto zoppo per sempre.
Il bambino si commosse a quelle parole ed esclamò:
“Questo è il cagnolino che voglio comprare!”

Ma l’uomo gli rispose:

“No, non comprarlo!
Se lo vuoi veramente, te lo regalo!”
Il bambino rimase molto male e guardando l’uomo diritto negli occhi gli disse:
“Non voglio che lei me lo regali: vale tanto come gli altri cagnolini e io le pagherò il prezzo intero.
Se è d’accordo, le darò subito i miei 2,37 Euro e un po’ ogni mese fino a quando lo avrò pagato completamente.”

L’uomo rispose:

“Non vorrai davvero comprare questo cagnolino, ragazzo.
Non sarà mai in grado di correre, di saltare e di giocare come gli altri cagnolini!”
Allora il bambino si piegò ed estrasse dai pantaloncini la sua gamba sinistra, malformata e imprigionata in un pesante apparecchio metallico.
Guardò di nuovo l’uomo e gli disse:
“Questo non importa: anch’io non posso correre e il cagnolino avrà bisogno di qualcuno che lo capisca.”
L’uomo si stava mordendo le labbra e i suoi occhi si riempivano di lacrime, sorrise e disse:
“Ragazzo, io mi auguro e lo spero davvero che ciascuno di questi cuccioli trovi un padrone come te.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Pioggia di stelle


Pioggia di stelle

C’era una volta un’orfanella povera e sola.
Nessuno l’aveva voluta con sé.
Possedeva solo gli abiti che indossava e un pezzetto di pane.
Un giorno s’incamminò per la campagna pensando:
“Qualcuno mi aiuterà!”
Incontrò un uomo.
“Ho tanta fame!” le disse.
“Dammi qualcosa, per carità!”
La bimba gli diede il suo pezzo di pane.
Poco dopo incontrò un bambino.
“Ho la testa ghiacciata.
Dammi qualcosa per coprirmela!” la supplicò.

L’orfanella si sfilò la cuffia e gliela diede.

Più in là incontrò un altro bambino.
Era senza giubbetto e tremava per il freddo.
Si sfilò la mantella e gliela diede.
Ancora avanti incontrò una bambina mezza assiderata.
Si sfilò la gonnellina e gliela porse.
Ormai non le era rimasto addosso nient’altro che la camicia.
Cammina, cammina arrivò in un bosco. Intanto si era fatto buio.
“Dammi la tua camicia.
Non ho niente da mettermi!” la supplicò un’altra bambina.

L’orfanella pensò:

“Ormai è notte, qui nel bosco nessuno mi vedrà.
Posso dargliela!”
Se la sfilò e gliela porse.
Subito dopo, cominciò a cadere una pioggia di stelle, che cadendo si trasformavano in monete d’oro lucenti.
Nello stesso tempo la bimba si ritrovò vestita di tutto punto e con abiti di stoffa finissimi.
Alzò i bordi del gonnellino e raccolse le monete finché ce ne poterono stare.
Così la buona orfanella non ebbe più a temere la miseria per il resto della sua vita.

Favola dei Fratelli J. e W. Grimm