La passeggiata più bella

La passeggiata più bella

Ognuno di noi, durante la propria vita, percorre una infinità di chilometri (o di miglia), passo dopo passo.
In pochi si soffermano a riflettere su quale sia stata la passeggiata più bella della propria vita.

Ricordo, come fosse oggi, la mia preferita.

Andavo a piedi dall’asilo delle suore del mio borgo di Levada a quello più grande di Onigo.
Si sgambettava per una strada sterrata di campagna chiamata “Alta”, dato che risultava essere leggermente sopraelevata rispetto al percorso romano della “Claudia Augusta Altinate”, che congiungeva il mare alle Alpi.
Questa strada veniva percorsa senza essere accompagnati da adulti.
Venivamo seguiti, esclusivamente, dai nostri fedeli amici a quattro zampe.
In piena libertà e con la gioiosa partecipazione di tanti altri bambini.

Lungo la strada scoprivamo cose nuove, godevamo dei campi in fiore o degli alberi innevati.

I nostri occhi luccicavano quando dalle siepi sbucavano lepri, uccelli, rettili, anfibi, ma anche qualche gattino abbandonato, che veniva coccolato con le nostre merendine.
Capitava di trovarci vicini ad un gregge o di salire su un carro trainato da buoi, incitando in coro gli animali affinché aumentassero il passo.
Inoltre, si potevano anche trovare piccoli oggetti per strada.
Io, ad esempio, trovai una coroncina del rosario e, quanto ritornai a casa, mia nonna mi consigliò di conservarla, poiché secondo lei valeva un tesoro e apriva le porte del paradiso.
Sembrava di toccarlo il paradiso quando, a causa della pioggia o della neve, venivamo avvolti nella mantellina nera di mio padre, che ci accompagnava a destinazione in bicicletta.
Io, che ero il più grande, ero seduto sul ferro tubolare, mio fratello nel seggiolino del manubrio e mia sorella nel porta pacchi dietro.
Era bellissimo stare riparati e sentire la pioggia cadere su di noi, al buio, sotto il mantello di mio padre, che profumava del suo tabacco, di terra fresca, di fieno e di unità famigliare.

Erano fragranze che non ho più sentito in seguito, nemmeno usando i profumi più costosi.

Si era poveri allora, ma allo stesso si era ricchi:
potevamo fare nuove esperienze, avevamo libertà ed eravamo circondati di amore.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La ragazza ed il parasole

La ragazza ed il parasole

Min-Hi era una graziosa e simpatica cinesina di dodici anni che viveva con la mamma e il papà in un villaggio al margine della foresta.
Il compleanno di Min-Hi coincideva con la stagione calda, quando il sole scottava e la gente andava in cerca di ombra.
Perciò, per il suo compleanno, ricevette in regalo un bel parasole.
“Posso andare a fare una passeggiata col mio nuovo parasole?” chiese alla mamma.
“Va bene, stai attenta però, e torna presto!” rispose la mamma.
Min-Hi stava camminando sul ciglio di una risaia, quando vide un enorme gorilla dondolarsi su un albero con le braccia penzoloni.
“Povera me!
Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi!” pensò Min-Hi.
E, tremando tutta, si rincantucciò dietro il parasole.

Ma non accadde niente… proprio niente!

Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c’era traccia del gorilla!
Non aveva fatto molta strada, quando intravide una grande ombra aggirarsi minacciosa fra i cespugli.
Era un’enorme tigre che puntava silenziosamente verso di lei.
“Oh, povera me!
Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi!” pensò sgomenta.
E, tremando tutta, si accoccolò dietro il parasole.
Ma non successe nulla… decisamente nulla.
Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c’era traccia di tigre.
Non era andata molto più lontano quando un’ombra nera sulla sua testa la fece guardare in alto.
Su di lei stava calando un grosso uccello dalle enormi ali spiegate, con un becco adunco e gli unghioni affilati.

“Oh, povera me!

Non mi resta che nascondermi sotto il mio parasole e aspettare che mi acchiappi!” pensò terrorizzata.
E tremando tutta si fece piccola sotto il parasole.
Ma non successe nulla… assolutamente nulla.
Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c’era traccia dell’aquila.
Tornata a casa, Min-Hi raccontò alla mamma le sue tremende avventure.
“Ma hai guardato cosa c’è sul tuo parasole?” le chiese la mamma.
Min-Hi lo aprì e fece un salto per lo spavento!
Dipinto sopra il parasole c’era un drago coloratissimo e terrificante, con enormi artigli e narici fiammeggianti.
“Hai visto?” le disse la mamma, “Contro il potentissimo drago non c’è gorilla, tigre o rapace che tenga!”

Ed aggiunse:

“Il tuo parasole, farai bene a portarlo sempre con te!”
E, da quel giorno, Min-Hi non se lo fece certo dire due volte.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il segreto del cacciatore

Il segreto del cacciatore

In un villaggio dell’Africa, c’era una volta un giovane cacciatore.
Un giorno s’inoltrò nella foresta.
Seguiva ormai da molte ore le tracce di un leone.
Camminava guardingo, pronto a scagliare la lancia:
doveva essere un leone enorme, a giudicare dalle impronte che lasciava.
Improvvisamente udì uno schianto secco di rami, mentre risuonava un rabbioso ruggito.
La giungla piombò in un silenzio terrorizzato.

Il giovane attendeva, fermo…

Ma dal fitto della giungla uscì una bellissima fanciulla.
Il giovane, come emergendo da un incubo, sorrise.
Tra i due fiorì subito una grande simpatia.
Il giovane, però, non sapeva una cosa importante:
quella ragazza non era altri che il più feroce leone della foresta, il re dei leoni, che aveva il potere di trasformarsi in quello che voleva.
Qualche giorno dopo la ragazza andò al villaggio a trovare il giovane.
Conversarono allegramente, come avessero tante cose da dirsi.
A un tratto, facendosi seria, la ragazza si interruppe e chiese:
“Come fai a dare la caccia ai leoni, senza aver paura di venire sbranato?”
Lui sorrise, poi le confidò che era un segreto, proprio un segreto che lui aveva:
poteva trasformarsi in albero, in fiore, in roccia, in a…
In quel momento s’affacciò all’uscio della capanna sua madre, che gli fece un cenno, come per dirgli:

“Non dire tutto a chi non conosci bene!”

Il sole era vicino al tramonto e il giovane cacciatore si offrì di accompagnare a casa la sua nuova amica.
La strada lasciava il villaggio e si inoltrava subito nella foresta.
Dopo un po’ la ragazza chiese:
“Conosci questo posto?”
“Oh sì, ci venivo a giocare da bambino!” rispose il ragazzo.
Camminarono ancora per un lungo tratto.
“Conosci questo posto?” chiese di nuovo la ragazza.
“Vedi quel gruppo di banani laggiù?
Vengo spesso fin qui!” replicò lui.
Proseguirono in silenzio.
“E questo posto lo conosci?” domandò ancora la ragazza.
“Sì, mi pare di sì.
Ci sono venuto con mio padre!” spiegò il ragazzo.
Ripresero a camminare.
Il sole ormai era quasi al tramonto e la foresta diventava sempre più nera.

“E questo lo conosci?” lo interrogò lei.

Il giovane si guardò attorno a lungo, poi si volse verso la ragazza per dire che no, quel posto non lo conosceva…
Ma di fronte a lui c’era un leone enorme pronto a saltargli addosso e stritolarlo con le possenti zanne.
Immediatamente il giovane si trasformò in albero; ma anche il leone si trasformò in albero.
Divenne un fiore; anche il leone si mutò in fiore.
Allora divenne roccia; il leone a sua volta si trasformò in roccia.
Il giovane divenne a…
Il leone si fermò.
Non vedeva più il cacciatore.
Non capiva.
Non sapeva più nulla del segreto del cacciatore.
Ebbe paura.
A grandi balzi, ruggendo di rabbia, scomparve nella foresta.
Il giovane ritornò a casa di corsa e, ancora ansimando, raccontò tutto a sua madre.
“Hai visto?” disse la madre, “Non si racconta tutto a chi non si conosce!”

Brano di Bruno Ferrrero

La luce nella caverna

La luce nella caverna

San Pacomio voleva conoscere il significato della vita e meditava ogni giorno le parole sacre e quelle dei sapienti per scoprirne il segreto.
Una notte il Signore lo accontentò e gli mandò un sogno.

Pacomio vide che il mondo era una immensa caverna nera e buia.

In essa gli esseri umani si aggiravano a tentoni, urtandosi, talvolta ferendosi, incespicando, sempre più sfiduciati e depressi perché non riuscivano a trovare una via d’uscita.
Poi, improvvisamente, un uomo (o una donna) accese una luce.
Una luce minuscola, ma non esiste tenebra così profonda da non poter essere vinta da una luce anche piccolissima.
Con una luce si può sempre trovare una via di scampo, così tutti si misero dietro alla persona che aveva il lumino.
Dapprima si accalcarono, ostacolandosi a vicenda, poi cercarono di mettersi in fila indiana.

Ma erano tanti e il buio era profondo e la luce appena percettibile.

Alla fine trovarono la soluzione adeguata:
si presero tutti per mano.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

L’aiuto missionario

L’aiuto missionario

Mentre il Padreterno è intento a leggere la posta del mattino, qualcuno bussa energicamente alla porta del suo studio.
Sono Gesù, lo Spirito Santo e la Madonna con tanti bambini.

“Perché piangete?” chiede il Padreterno.

“Padre Santo,” risponde Maria, “molti bambini che tu hai mandato sulla terra un mese fa, sono ritornati perché sono stati rifiutati!”
Il Padreterno diventa triste e domanda a Gesù:
“È ritornato anche Arturo, il futuro scienziato a cui avevo consegnato la cura del cancro?”

“Si, Padre mio, anche lui!” rispose Gesù.

“La piccola Matilde, è ritornata anche lei?” domandò ancora il Padreterno.
“Si,” risponde lo Spirito Santo, “i genitori a cui l’avevi affidata non volevano una bimba down!”
Mentre il Padreterno si asciuga le lacrime dice:

“Il mio piccolo Kimbi, la mia perla nera, è rientrato anche lui?”

“No,” risponde felicemente la Santa Vergine, “lui è rimasto in Africa, l’aiuto e l’impegno missionario di Rino e dei suoi amici, hanno permesso alla sua mamma di poterlo accogliere anche se molto povera.
Il Padreterno, rincuorato da questa bella notizia, si alza in piedi e dice:
“Da questo momento, tutti i bambini che sono rientrati saranno gli angeli protettori di Rino e di tutti coloro che difendono la vita!”

Brano senza Autore.

Il brodo della gallina

Il brodo della gallina

La famiglia è sempre stata il pilastro della società, anche se in questo momento storico è sottoposta a tante, troppe, disgregazioni.
E, sfortunatamente, oggi assistiamo a tanti odiosi e criminali femminicidi.
Le problematiche di un tempo erano diverse, ma la società non era immune da difficoltà.
I problemi erano celati e soppressi dalla società patriarcale,

che si basava su rigide regole in gran parte sfavorevoli alle donne.

Fiorella viveva all’interno di una di queste ed era, come le donne bibliche, criticata e compatita, dato che non riusciva ad avere figli.
Riuscì comunque a rimanere incinta, prima di iniziare ad invecchiare, ed a partorire una bellissima bambina.
Secondo la tradizione veneta, i parenti più stretti dovevano regalare alla neo mamma una gallina, rigorosamente nera, affinché la mangiasse, in modo da riprendersi il più in fretta possibile dalle fatiche del parto per tornare celermente a lavorare nei campi.
Una sua cognata, invece,

ne portò una volutamente bianca e disse alla puerpera:

“Cognata cara, noi ci conosciamo bene e da tanto tempo.
So che tu sei fin troppo moderna e trasgressiva.
Quindi immagino che non ti offenderai di certo per il colore della mia gallina!”
Fiorella intuì il significato ambiguo e capì di essere stata scoperta.
La bambina, che aveva partorito, non era di suo marito.
Questa non si turbò e replicò:
“Io accetto la tua gallina bianca in deroga alla tradizione solamente se tu, fra qualche giorno, verrai a condividere con me una scodella del suo brodo!”
Quando Fiorella, al tempo stabilito, porse la scodella di brodo fumante alla cognata, questa si lamentò siccome, all’interno della stessa, non erano presenti i classici grandi occhi di grasso, tipici della gallina.

La spiegazione che ne seguì fu sarcastica:

“Hai perfettamente ragione, cognata mia cara, perché ho aggiunto volutamente acqua calda alla tua scodella!
So che tu sei fin troppo tradizionalista nel vedere le cose a modo tuo.
In questo caso, però, meno “occhi” indagatori ci sono, meglio è per il cheto vivere di tutti!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La pecora nera

La pecora nera

C’era una volta una pecora nera.
Tutte le altre pecore del gregge erano bianche.
Detestavano la povera pecora nera e la coprivano di insulti.
Ogni volta che la vedevano belavano rabbiose:
“Stai lontana da noi!
Sei uno scherzo della natura, non sei normale!”
Erano malignamente felici quando riuscivano a farla piangere.
Soprattutto Belinda, una grossa pecora bianca la trattava in modo perfido e crudele.
Era la Capo gregge.

Tutte le altre andavano sempre dietro di lei.

Tutte facevano quello che faceva lei.
La pecora nera era triste.
Le sarebbe piaciuto tanto essere come le altre.
Ma non poteva cambiare il colore nero del suo mantello.
Qualche volta tentava di scappare e si nascondeva.
Ma poi tornava perché non sapeva cavarsela da sola.
Belinda era robusta e presuntuosa.
Decise di fare un viaggio per conoscere il mondo.
Raggiunse in poco tempo pascoli nuovi.
Quando trovava un gregge sconosciuto, si metteva in mezzo e si vantava:
“Nel mio gregge io sono il capo.
Tutte mi ubbidiscono.
Sono io che decido come devono andare le cose…”
Un giorno, Belinda incontrò un grosso gregge molto particolare.

Tutte le pecore erano nere.

Quando Belinda se ne accorse si fermò interdetta; poi si mise a ridacchiare.
E, ancheggiando come una indossatrice, si diresse verso il gregge sicura della sua bellezza e del suo splendido vello bianco.
Tutto il gregge scoppiò invece in una sonora risata di scherno.
Prima che Belinda potesse emettere un belato di sorpresa, una pecora nera, grossa e robusta quanto lei, si fece avanti e in tono quanto mai minaccioso disse:
“Avete mai visto niente di più ridicolo?
Ti strapperemo quella orribile pellaccia e così vedremo di che colore sei veramente!”
Tutto il gregge sghignazzò.
Belinda fece il più rapido dietro front della sua vita e scappò a rotta di collo inseguita dalle risate e dallo scherno delle pecore nere.
Mise un bel po’ di distanza tra sé e il pascolo delle pecore nere, finché arrivò ad un grande recinto dove vide un gregge molto numeroso.
Non ne aveva mai visto uno simile.
Era composto da pecore bianche, pecore nere, pecore rossicce, pecore chiazzate e perfino pecore metà bianche e metà nere.
Aveva perso molta della sua baldanzosa sicurezza, perciò si fermò interdetta e guardinga, pensando: “Chissà come mi trattano qui…”

Le pecore si erano accorte di lei e, cordialmente, le chiesero:

“Da dove vieni?”
“Dall’altra parte della montagna.” rispose.
Una pecora nera le venne incontro.
Belinda fece per scappare, ma la pecora nera disse:
“Non aver paura!
Resta qui con noi finché ti pare.
L’erba è buona e abbondante.
Da noi sono tutti benvenuti!”
Belinda rimase in quello strano gregge per due giorni.
Poi decise di tornare a casa.
Prima dell’addio disse:
“Siete il miglior gregge del mondo.
Accettate e rispettate le pecore di tutti i colori.
Da noi, abbiamo solo una pecora nera…”

Brano tratto dal libro “Racconti di Natale.” di Giuseppe D’Ambrosio Angelillo

Il ragazzo, la cesta e l’acqua

Il ragazzo, la cesta e l’acqua

C’era una volta un ragazzo che viveva con suo nonno in una fattoria.
Ogni mattina il nonno, che era cristiano, si alzava presto e dedicava del tempo a leggere le Scritture.
Il nipote cercava di imitarlo in qualche modo, ma un giorno chiese:
“Nonno, io cerco di leggere la Bibbia ma anche le poche volte che riesco a capirci qualcosa, la dimentico quasi subito.
Allora a cosa serve?

Tanto vale che non la legga più!”

Il nonno terminò tranquillamente di mettere nella stufa il carbone che stava in una cesta, poi disse al nipote:
“Vai al fiume, e portami una cesta d’acqua!”
Il ragazzo andò, ma ovviamente quando tornò non era rimasta acqua nella cesta.
Il nonno ridacchiò e disse:
“Beh, devi essere un po’ più rapido.
Dai riprova, muoviti, torna al fiume e prendi l’acqua!”

Anche questo secondo tentativo, naturalmente, fallì.

Il nipote, senza fiato, si lamentò dicendo che era una cosa impossibile, e si mise a cercare un secchio.
Ma il nonno insistette:
“Non ti ho chiesto un secchio d’acqua, ma una cesta d’acqua.
Torna al fiume!”
A quel punto il giovane sapeva che non ce l’avrebbe fatta, ma andò ugualmente per dimostrare all’anziano nonno che era inutile.
Per quanto fosse svelto l’acqua filtrava dai buchi della cesta.

Così tornò al fiume e portò la cesta vuota al nonno, dicendo:

“Vedi? Non serve a niente!”
“Sei sicuro?” disse il nonno, “Guarda un po’ la cesta!”
Il ragazzo guardò con attenzione:
la cesta, che prima era tutta nera di carbone, adesso era perfettamente pulita!

Brano senza Autore, tratto dal Web