L’abbraccio

L’abbraccio

Da piccolo, Mordecai era una vera peste.
Così i genitori lo portarono da un sant’uomo a cui tutti ricorrevano per chiedere consigli nei casi più difficili.

“Lasciatemelo qui un quarto d’ora.” disse il sant’uomo.

Quando i genitori furono usciti, l’anziano chiuse la porta.
Mordecai sentì un po’ di timore.
Il sant’uomo si avvicinò al bambino e,

in silenzio, lo abbracciò.

Quel giorno, Mordecai imparò come si convertono gli uomini.

Brano di Bruno Ferrero

Amiche del cuore

Amiche del cuore

“Per piacere, resta!” imploravo.
Ann era la mia migliore amica, l’unica ragazzina del vicinato, e non volevo che andasse via.
Stava seduta sul mio letto, con gli occhi blu privi di espressione.
“Mi annoio!” disse arrotolandosi gli spessi riccioli rossi intorno a un dito.
Era venuta a giocare solo mezz’ ora prima.
“Per piacere, non andare!” chiesi supplichevole, “Tua mamma ha detto che potevi restare per un’ ora!”
Ann fece per alzarsi, poi vide un paio di mocassini indiani in miniatura sul mio comodino.
Con le loro perline dai colori vivaci sulla morbida pelle, quei mocassini erano la cosa che mi era più preziosa.
“Rimarrò se me li dai!” disse Ann.

Aggrottai le sopracciglia.

Non potevo immaginare di separarmi da quei mocassini.
“Ma me li ha dati la zia Reba!” protestai.
Mia zia era stata una donna bella e gentile, e io l’adoravo.
Non era mai troppo occupata per dedicarmi un po’ di tempo.
Ci inventavamo storie buffe e ridevamo tanto.
Il giorno in cui era morta, avevo pianto per ore sotto una coperta, incapace di credere che non l’avrei più rivista.
In quel momento, mentre tenevo con cura i mocassini nella mano, ero invasa dal dolce ricordo di zia Reba.
“Andiamo.” incitava Ann, “Sono la tua migliore amica!”
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo!
Non so che cosa mi prese, ma desideravo più di ogni altra cosa avere qualcuno che giocasse con me.
Lo volevo così tanto che porsi i mocassini ad Ann!
Dopo che li ebbe riposti in tasca, andammo in bicicletta sul vialetto per diverse volte e presto fu tempo per lei di tornare a casa.
Sconvolta per quello che avevo fatto, non avevo comunque voglia di giocare.

Quella sera sostenni di non avere fame e andai a letto senza cena.

Una volta nella mia stanza, iniziai davvero a sentire la mancanza dei mocassini!
Dopo che la mamma mi ebbe rimboccato le coperte e spento la luce, mi chiese cosa ci fosse che non andasse.
Le raccontai tra le lacrime di come avessi tradito la memoria di zia Reba e di quanto mi sentissi in colpa.
La mamma mi abbracciò con calore, ma tutto quello che mi disse fu:
“Bene, immagino che dovrai decidere cosa fare.”
Le sue parole non mi furono d’aiuto.
Sola nel buio, cercai di chiarirmi le idee.
“La legge dei bambini dice che non devi dare una cosa e poi riprendertela.” mi dicevo, “Ma è stato un affare conveniente?
Perché ho permesso ad Ann di giocare con i miei sentimenti?
Ma soprattutto, Ann è davvero la mia migliore amica?”
Decisi che cosa avrei fatto.
Mi agitai e mi rivoltai per tutta la notte, non vedendo l’ora che si facesse giorno.
A scuola, il giorno seguente, affrontai Ann.
Trassi un profondo respiro e le chiesi di rendermi i mocassini.

Sbarrò gli occhi e mi guardò a lungo.

“Per piacere!” pensavo, “Per piacere!”
“Okay.” disse infine, tirando fuori dalla tasca i mocassini, “Tanto non mi piacevano.”
Fui sopraffatta da una sensazione di sollievo.
Dopo qualche tempo io e Ann smettemmo di giocare insieme.
Scoprii nei dintorni dei bambini che non erano niente male, e spesso mi invitavano a giocare a softball.
Mi feci anche nuove amiche in altri quartieri.
Nel corso degli anni, ho avuto altre amiche del cuore.
Ma non ho più supplicato per la loro compagnia.
Sono arrivata a capire che gli amici sono persone che vogliono trascorrere il tempo con te, senza chiedere niente in cambio.

Brano di Mary Beth Olson

Il ragazzino e la barca a vela

Il ragazzino e la barca a vela

C’era una volta un ragazzino che aveva costruito una barca a vela.
Ne aveva scavato con cura lo scafo nel legno, l’aveva smerigliato con estrema attenzione dipingendolo infine con ogni possibile delicatezza, poi aveva ritagliato la vela dalla più candida delle stoffe.
Una volta terminato, non vedeva l’ora di varare la sua barchetta e così la portò subito al lago.
Trovò uno spiazzo d’erba vicino alla riva e, inginocchiatosi, depose con cautela il piccolo vascello sul pelo dell’acqua.
Soffiò un pochino nella vela e si mise ad aspettare.
Ma la barca non si muoveva e così il ragazzo soffiò più forte, finché il vento colmò la piccola vela e la barchetta prese il largo.
“Si muove! Si muove!” gridava, battendo le mani e saltando sulla riva del lago.

All’improvviso il ragazzo si fermò.

Si era reso conto di non aver assicurato la barchetta con uno spago.
Vide la sua creatura spingersi sempre più lontano finché non sparì del tutto dalla sua vista.
Il ragazzino era felice e triste nello stesso tempo:
orgoglioso che la sua barca veleggiasse bene, ma triste di averla perduta.
Corse a casa in lacrime.
Qualche tempo dopo, girovagando per il paese, per caso passò davanti da una bottega che vendeva giocattoli vecchi e nuovi.
E in vetrina c’era la sua barca.
Era in estasi.

Corse dentro e disse entusiasta al negoziante:

“Quella è la mia barca.
La mia.”
L’uomo squadrò il ragazzino e rispose:
“Ti sbagli.
L’ho comprata.
Adesso è in vendita!”
“Ma è la mia barca!” gridò il piccolo, “L’ho fatta io.
L’ho varata e poi l’ho persa.
È mia!”
“Ti sbagli!” ripeté il negoziante, “Se la vuoi te la devi comperare.”
“Quanto costa?” chiese il ragazzo.
Quando ebbe sentito il prezzo ebbe un tuffo al cuore.
Nella sua piccola cassaforte, a casa, c’era soltanto qualche spicciolo.
A capo chino se ne uscì dal negozio.
Ma il ragazzino era un tipo deciso.
Tornato a casa, andò nella sua stanza e contò i suoi averi fino all’ultima monetina per scoprire quanto denaro gli mancava per potersi ricomprare la sua preziosa barca.

Fece qualche lavoretto e risparmiò:

adesso aveva i soldi.
Corse di nuovo al negozio, sperando che la barca fosse ancora lì.
Sorrise:
eccola in mezzo alla vetrina al solito posto.
Entrò nel negozio, rovesciò le tasche e depose tutto il suo denaro vicino alla cassa.
“Voglio comprare la mia barca!” esclamò.
Il negoziante prese la barca dalla vetrina e la mise nelle mani del ragazzino, eccitatissimo.
Il piccolo strinse la barchetta al petto e corse a casa dicendosi pieno di orgoglio:
“Tu sei la mia barca.
La mia!
Sei due volte mia!
Mia perché ti ho fatto, e mia perché ti ho riconquistato!”

Brano senza Autore.

Il pulcino Calimero

Il pulcino Calimero

Diversi anni fa andai con un mio amico, in treno, alla fiera internazionale di agricoltura a Verona.
L’esperienza di una fiera tematica è unica e soddisfa i gusti più esigenti, con tante novità, dai macchinari agli animali, circondati di tanta bella gente.
Il mio amico andò al settimo cielo quando poté acquistare dei pulcini, sponsorizzati come razza super rustica.
Lo invitai a desistere, visto che portare in treno 22 pulcini era una impresa ardua e avremmo attirato troppo l’attenzione.
Come se non bastasse, aveva anche acquistato e indossato un capello a larghe falde.

Contadini sì, ma non macchiette.

Non mi ascoltò, e con la scatola forata ed il certificato in mano, salimmo sul treno del ritorno all’ora di punta, con molta difficoltà per gli spintoni e per la calca.
Prevedibilmente, la scatola si ruppe in maniera irreparabile ed i pulcini si sparsero per il vagone, causando ilarità tra i passeggeri.
In quello stesso vagone erano presenti anche dei bambini con le loro insegnanti.

Fecero a gara per catturarli in mezzo alle gambe dei passeggeri.

Lo schiamazzo attirò l’attenzione del capotreno che ci disse:
“Voi contadini avete forse preso il mio treno per un pollaio ?”
Risposi alla provocazione e replicai:
“Sarà anche un pollaio, ma credo che lei non abbia mai visto ragazzini così felici per aver potuto tenere in mano un pulcino vivo, per la prima volta nella loro vita!”

Il capotreno non replicò.

Dopo questo simpatico dibattito, il mio amico decise di donare alla scolaresca i pulcini con mille raccomandazioni, suggerendo ai bambini di dare a ciascun pulcino anche un nome.
Quando, ad un certo punto, il più piccolo lo tirò per la giacca e gli disse:
“Signor contadino, potrei avere assieme a questo pulcino giallo anche quello nero, chiamato Calimero, per regalarlo a mia sorella che è allergica ai peluche?”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Partita a scacchi con il preside

Partita a scacchi con il preside

Nell’ora di ricreazione, un ragazzino negro se ne stava appartato in un angolo del giardino della sua scuola, mentre i compagni, poco più in là, giocavano allegramente col pallone.
Passò il direttore e lo scorse.
“Perché te ne stai qui solitario?” gli chiese.
“I miei compagni non vogliono che io giochi con loro, signore!” rispose il bimbo intimidito.

“Perché?” domandò l’uomo irritato.

“Dicono che sono un lurido negro e che debbo stare alla larga da loro!” balbettò il ragazzo.
Il direttore restò un attimo perplesso, poi gl’intimò di seguirlo.
Si avviarono verso gli uffici della direzione.
Al negretto, il cuore batteva forte in gola.

“Ho osato troppo?” si chiese.

Entrato nel suo ufficio, il preside si sedette alla scrivania, poi fece accomodare il ragazzino di fronte a lui e, presa una grande scacchiera dal cassetto, disse:
“D’ora in poi, all’intervallo, giocheremo tu ed io insieme.”
Gli insegnò le complesse regole del gioco e subito il fanciullo divenne padrone di ogni mossa.
Muoveva pedoni e alfieri con straordinario acume e sbalorditiva prontezza.
L’indomani, al loro secondo incontro, per rispetto al suo illustre avversario, il ragazzino lasciò che fosse il suo superiore a scegliere gli scacchi del colore che preferiva.
“Bianchi o neri?” gli chiese con deferenza.
“Fa lo stesso!” fu la cordiale risposta del direttore che aggiunse:

“Non hanno entrambi le medesime opportunità?

Non si può forse vincere o perdere in uguale misura, sia con gli uni che con gli altri?
Cosa importa il colore?
Quel che conta è giocare, ma giocare bene, rispettando le regole, sia da una parte che dall’altra.”
Finita la partita, il negretto corse giù in giardino.
Intrepido si aprì un varco nella cerchia dei compagni e, a testa alta, s’impose al gruppo affinché accettassero anche lui nei loro giochi.

Brano di Silvia Guglielminetti incluso nel libro “Il secondo libro degli esempi. Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Piero Gribaudi Editore.

Le cose che ho imparato nella vita

Le cose che ho imparato nella vita

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

  • Non importa quanto buona sia una persona, ogni tanto ti ferirà.
    E per questo bisognerà che tu la perdoni.
  • Ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
  • Non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
  • Le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
  • Dovrai essere tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
  • Gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
  • La pazienza richiede molta pratica.
  • Ci sono persone che ci amano profondamente, ma semplicemente non sanno come dimostrarlo.
  • A volte la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
  • Solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
  • Non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
  • Non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno.
    Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
  • Non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma aspettando che tu lo ripari.
  • Forse Dio vuole che incontriamo un po’ di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così, quando finalmente la incontreremo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
  • Quando la porta della felicità si chiude, un’altra si apre,

    ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

  • La miglior specie d’amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se sia stata la miglior conversazione mai avuta.
  • È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
  • Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un’ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
  • Non cercare le apparenze: possono ingannare.
    Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
  • Cerca qualcuno che ti faccia sorridere, perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante una giornataccia.
  • Trova la persona che faccia sorridere il tuo cuore.
  • Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
  • Sogna ciò che ti va, vai dove vuoi, sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
  • Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
  • Mettiti sempre nei panni degli altri.
    Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
  • Le più felici delle persone non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
  • L’amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un the.
  • Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
  • Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano.
    Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange.
Brano di Paulo Coelho

Ora so perché dovevi farlo

Ora so perché dovevi farlo

C’era una volta un uomo che considerava il Natale una favola incomprensibile.
Era una persona gentile e discreta, amorevole con la sua famiglia, onesta in tutti i suoi rapporti con gli altri uomini.
Ma non riusciva a credere all’Incarnazione.
Ed era troppo onesto per fingere di crederci.
La vigilia di Natale la moglie e i figli andarono in chiesa per la Messa di mezzanotte.
“Mi dispiace, ma non vengo.” disse lui, “Non riesco a capire l’affermazione che Dio si fa uomo.

Preferisco stare a casa.

Vi aspetterò per prendere qualcosa di caldo insieme.”
La sua famiglia si allontanò in auto, la neve cominciò a cadere.
L’uomo andò alla finestra e guardò le folate sempre più fitte e pesanti.
“Un vero Natale con i fiocchi!” pensò.
Tornò alla sua poltrona vicino al fuoco e cominciò a leggere il suo libro.
Pochi minuti dopo fu sorpreso da un tonfo sordo, subito seguito da un altro, poi da un altro ancora.
Pensò che qualcuno si divertisse a tirare palle di neve alla finestra del suo soggiorno.
Quando andò alla porta d’ingresso per indagare vide uno stormo di uccelli che svolazzavano nella tempesta alla disperata ricerca di un riparo e attirati dalla luce della sua finestra andavano a sbattere contro i vetri.

Molti finivano a terra tramortiti.

“Non posso permettere che queste povere creature giacciano lì a congelare!” pensò, “Ma come posso aiutarli?”
Si ricordò della rimessa che non usava più:
avrebbe potuto fornire un riparo caldo.
Indossò il cappotto e gli scarponi e con passo pesante attraverso la neve si diresse alla rimessa.
Spalancò l’ampia porta e accese la luce.
Ma gli uccelli non entravano.
“Un po’ di cibo li attirerà!” pensò.
Così si affrettò a tornare a casa per le briciole di pane, che sparse sulla neve per fare un percorso verso la rimessa.
Ma gli uccelli ignoravano le briciole di pane e continuavano a svolazzare sempre più intorpiditi nella tormenta.
L’uomo si mise ad agitare le braccia, ma quelli, spaventati, si disperdevano in ogni direzione, invece di rifugiarsi nel deposito caldo e illuminato.
“Mi vedono come una creatura strana e terrificante.” si disse, “Li ho solo terrorizzati di più.
Come faccio a comunicare loro che possono fidarsi di me?”

Uno strano pensiero lo colpì:

“Se solo potessi essere un uccello io stesso per qualche minuto, forse potrei guidarli verso la salvezza!”
Proprio in quel momento le campane della chiesa cominciarono a suonare.
Rimase in silenzio per un po’, ascoltando le campane.
Poi cadde in ginocchio nella neve.
“Adesso capisco.” sussurrò, “Ora so perché dovevi farlo!”

Brano di Bruno Ferrero

L’orologio del contadino

L’orologio del contadino

Un’insegnante della scuola primaria era molto preoccupata perché i suoi alunni, nonostante i continui richiami, arrivavano a lezione o troppo presto o in ritardo.
L’unico ad essere puntuale era il figlio di un contadino.
Pensò a cosa potesse fare per risolvere il problema e

decise di affidare ai suoi alunni un compito per casa.

Il compito consisteva nel disegnare l’orologio di un genitore con indicata l’ora di inizio delle lezioni.
Tutti disegnarono l’orologio come da consegna,

tranne il figlio del contadino che disegnò un gallo, un sole, un campanile ed un treno.

La maestra chiese delucidazioni e l’alunno spiegò:
“Mio padre si alza con il canto del gallo, si regola con il sole, con i tocchi del campanile e con il passaggio del treno, che lo fa arrabbiare perché, molte volte, fa cinque minuti di ritardo!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I rintocchi del pendolo

I rintocchi del pendolo

Un saggio teneva nel suo studio un enorme orologio a pendolo che ad ogni ora suonava con solenne lentezza,

ma anche con gran rimbombo.

“Ma non la disturba?” chiese uno studente.
“No!” rispose il saggio,

“Perché così ad ogni ora sono costretto a chiedermi:

che cosa ho fatto dell’ora appena trascorsa?”

E tu, che cosa hai fatto dell’ora appena trascorsa?

Brano di Bruno Ferrero

Ti Auguro Tempo

Ti Auguro Tempo

Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,

non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.

Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti

e non soltanto per guardarlo sull’orologio.

Ti auguro tempo per contare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.

Ti auguro tempo per trovare te stesso,

per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita.

Poesia tratta dal libro “Dedicato a te.” di Elli Michler