Il contadino avido

Il contadino avido

Un contadino possedeva un misero campicello, nel quale produceva un raccolto magro e stentato!
Non c’era giorno che, moglie e figli, non gli rinfacciassero la sua pochezza.
Un giorno, finalmente, ebbe un insperato colpo di fortuna.
Mentre era intento a sgobbare nel suo campicello, vide sulla strada un cavallo imbizzarrito che stava per rovesciare il calesse di un gran possidente della zona e, coraggiosamente, lo bloccò.

Il ricco proprietario terriero, per sdebitarsi, gli disse:

“Ti regalerò tutta la terra che riuscirai a contornare camminando dall’alba al tramonto!
L’unica condizione è che ti dovrai trovare al tramonto nel punto esatto da cui eri partito al mattino!”
Il contadino fu sopraffatto della gioia:
“Ho chiuso con i giorni degli stenti e della miseria!
Avrò tanta terra e sarò ricco!”
Il mattino dopo fissò il punto di partenza sull’alto di una collinetta verde e cominciò a camminare allegramente, senza fretta, con un passo tranquillo.

“Qui costruirò la mia fattoria.

Quello è il posto adatto ad una stalla.
In questa bella piana coltiverò frumento e laggiù seminerò legumi e patate!”
Camminando però, gli venne in mente che quella era la sua unica occasione e cominciò a correre.
Il sole stava rapidamente percorrendo il suo cammino in cielo.
Più terra avrebbe inglobato nel suo possedimento più sarebbe stato ricco.
Era al limite della resistenza ma c’erano ancora un laghetto, un prato verde e un bosco folto.
Il sole declinava sull’orizzonte.
Accelerò il ritmo della corsa.
Sudato, ansante e allo stremo delle forze giunse al traguardo.

Crollò esausto!

Il suo cuore cessò di battere per lo sforzo eccessivo nell’istante in cui il sole tramontava.
Ora possiede tutto il terreno che gli serve:
il piccolo lembo di terra in cui è sepolto!

Brano senza Autore

Il fiume ed il deserto

Il fiume ed il deserto

Un fiume, durante la sua tranquilla corsa verso il mare, giunse a un deserto e si fermò.
Davanti ora aveva solo rocce disseminate di anfratti e caverne nascoste, dune di sabbia che si perdevano nell’orizzonte.

Il fiume fu attanagliato dalla paura.

“È la mia fine.
Non riuscirò ad attraversare questo deserto.
La sabbia assorbirà la mia acqua ed io sparirò.
Non arriverò mai al mare.
Ho fallito tutto!” si disperò.
Lentamente, le sue acque cominciarono a intorpidirsi.
Il fiume stava diventando una palude e stava morendo.
Ma il vento aveva ascoltato i suoi lamenti e decise di salvargli la vita.
“Lasciati scaldare dal sole, salirai in cielo sotto forma di vapore acqueo.
Al resto penserò io!” gli suggerì.

Il fiume ebbe ancor più paura:

“Io sono fatto per scorrere fra due rive di terra, liquido, pacifico e maestoso.
Non sono fatto per volare per aria!”
Il vento rispose:

“Non aver paura.

Quando salirai nel cielo sotto forma di vapore acqueo, diventerai una nuvola.
Io ti trasporterò di là del deserto e tu potrai cadere di nuovo sulla terra sotto forma di pioggia, e ritornerai fiume e arriverai al mare!”
Ma il fiume aveva troppa paura e, alla fine, fu divorato dal deserto.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il colore dell’orizzonte

Il colore dell’orizzonte

Un bambino che abitava in pianura era affascinato dalla linea delle montagne che si stagliava lontano all’orizzonte.
Azzurrine, leggere, compatte, gli apparivano come un luogo di paradiso.

Così diverso dalla terra aspra e grigia dove viveva.

Un giorno, ormai cresciuto, cedette al richiamo dell’orizzonte e decise di raggiungere quel posto incantato.
Il viaggio durò a lungo, attraverso pianure e colline.
Stremato, arrivò infine sulla vetta delle montagne, ma dovette constatare con profonda delusione che le montagne non erano più azzurrine ma grigie e caotiche, sassose, aride ed aspre.
Proprio come il paese che aveva lasciato.
Ma all’orizzonte, davanti a lui, si delineavano altre montagne, azzurre, violette, alonate di luce dorata.

E ripartì.

Gli ci volle molto tempo per raggiungerle.
Ma anche là, man mano che si avvicinava, l’azzurro e il viola scomparivano per lasciare spazio al grigio delle rocce e al giallo stopposo dell’erba bruciata.
Ma davanti l’orizzonte era azzurro e rosa.
E lui si rimetteva in cammino.

Era sempre una delusione:

al suo arrivo anche le nuove terre si rivelavano ruvide e brulle.
Un giorno, ormai vecchio, vista vana la sua ricerca, decise di tornare indietro.
Ed ecco, tutti i paesi che aveva lasciato erano azzurrini, leggeri, immersi in una incantevole luce dorata.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il sole all’orizzonte

Il sole all’orizzonte

Era finito nella rete, il piccolo pesce azzurro, e si dibatteva per trovare una via d’uscita e ritornare al mare.
Inutilmente.

Poi s’accorse di un piccolo buco:

una maniglia allentata nella rete.
Provò a uscire ma il foro era troppo piccolo.
Tuttavia gli permetteva di guardare meglio oltre la barca del pescatore e di quelle terribili reti.
Allora vide il mare con la sua immensa distesa di libertà.
E pensò alle profondità marine da cui proveniva, alla luce che filtrava dalle onde sui coralli della scogliera sommersa.
E agli altri pesci suoi amici, che nuotavano liberi tra le rocce di fondali coperte di alghe.

Quelle alghe che danzavano al ritmo delle correnti…

Era il suo mondo perduto.
Tuttavia, la nuova situazione offriva qualche vantaggio.
Ora poteva guardare il mare da un altro punto di vista e scoprire cose nuove.
Per esempio, l’orizzonte lontano:
era così vasto; e il cielo che copriva il mare con le ultime stelle del mattino:
una visione fantastica!

All’improvviso apparve uno splendore mai visto:

“Ecco,” gridò il piccolo pesce azzurro, fuori di sé per lo stupore, “ecco da dove viene la luce che illumina le profondità del mare!”
Sul filo dell’orizzonte stava sorgendo il sole.

Brano senza Autore

Il regno dei fagioli

Il regno dei fagioli

Un re di un potente e prospero regno doveva la sua fortuna alla corona che portava in testa.
La indossava esclusivamente nelle cerimonie ufficiali.
I sudditi non avevano mai saputo da dove provenisse la corona e, per questa ragione, fantasticavano sulle origini della stessa.
La leggenda maggiormente tramandata era riferita ad un ordine cavalleresco, il quale aveva forgiato la corona con tutti i metalli della terra, provenienti dai quattro poli e, per questo, carica di magnetismo.

Questa leggenda era, inoltre,

alimentata da due differenti tabù, quello di non essere mai stata toccata dalle mani del volgo e quello di essere sempre tenuta ben dritta in capo dal regnante, pena la decadenza dei suoi effetti taumaturgici.
Avvenne che le cose del regno non andassero bene, con guerra e carestia all’orizzonte.
I dignitari di corte intuirono che era colpa del re che, ormai vecchio, non portava la corona in modo coretto; o troppo a destra o a sinistra del capo.
Per via degli atavici tabù e della superstizione, il re non tollerava alcuna illazione verbale su di essa, né che la corona venisse toccata da altre mani diverse dalle sue, essendone morbosamente legato.
Per questa ragione nessuno aveva il coraggio di segnalare e correggere l’anomalia di come venisse portata.

Neppure il giullare di corte osava tanto,

nonostante scherzasse pubblicamente sull’obesità del re.
I dignitari allarmati fecero un consiglio segreto per trovare una soluzione, ma non ne vennero a capo.
Decisero, quindi, di consultare l’ortolano di corte, nonché speziale, considerato uomo saggio e avveduto, chiedendogli se avesse qualche rimedio.
Questi propose, come unico espediente capace di raddrizzare la postura del re, di fargli mangiare in abbondanza fagioli alla vigilia delle cerimonie.
Una difficoltà era rappresentata dal fatto che i legumi non fossero previsti nella cucina reale, siccome da poco presenti nelle coltivazioni di quel regno.
Nonostante ciò, al re piacquero tantissimo i nuovi piatti a base di fagioli.
Non intuì mai che la flatulenza che sopraggiungeva in seguito ai pasti consumati era causata dagli zuccheri nobili contenuti in essi, noti per provocare fastidiosi gas intestinali con l’imbarazzante effetto collaterale del soffio dei peti.

I fagioli venivano fatti consumare al grasso re prima delle cerimonie ufficiali che,

trovandosi puntualmente in imbarazzo durante le stesse, era costretto ad assumere una posizione confacente al suo ruolo sul trono, raddrizzando la postura del corpo ed evitando così la caduta della corona, sistemata tempestivamente da lui stesso.
Fortuna e prosperità tornarono in quel regno, nel quale i fagioli divennero pietanza ufficiale apprezzata a corte e dai sudditi, tanto da chiamarsi in seguito “Fagiolandia”.
Il fastidioso disturbo dei legumi fu chiamato per scaramanzia “aria di festa”, dato che, in quel momento di difficoltà, i fagioli salvarono il regno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La leggenda dell’Arcobaleno (La leggenda dei colori)

La leggenda dell’Arcobaleno
(La leggenda dei colori)

Un giorno i colori decisero di riunirsi per stabilire chi tra loro fosse il più importante.
Il verde si propose subito come meritevole di ricevere il primato, dicendo:
“Guardatevi intorno, contemplate la natura, osservate le colline, le foreste e le montagne e vi renderete conto come, senza di me, non esista vita.
Io sono il colore dell’erba, degli alberi, delle praterie sconfinate.
Io rappresento la primavera e la speranza.”

Il blu si fece avanti commentando:

“Tu sei troppo occupato a guardare la terra, sei troppo preso dalla realtà che ti circonda.
Alza un po’ gli occhi verso il cielo, contempla la vastità e la profondità dei mari e lì scoprirai la mia presenza.
Io sono il colore della profondità, che abbraccia l’universo.
Io rappresento la pace e la serenità.”
Non appena il blu ebbe finito il suo commento, intervenne il giallo:
“Ma voi siete colori troppo seri!
Il mondo ha bisogno di luce e di gioia.
Io sono il colore che porta il sorriso nel mondo.
Del mio colore si vestono il frumento e i girasoli, le stelle della notte e il sole che illumina ogni cosa.

Io rappresento l’energia e la gioia.”

Timidamente si fece avanti l’arancione dicendo:
“Io sono il colore che annuncia il giorno e poi lascio tracce della mia presenza all’orizzonte, all’ora del tramonto.
Del mio colore si vestono le carote, i mango ed i papaya perché, dove sono presente, assicuro vitamine e una vita sana.
Io rappresento il calore e la salute.”
Il rosso, a voce alta, non diede il tempo di terminare all’arancione, e sicuro di se disse:
“Ma voi, state ancora discutendo su chi sia il più importante?

Ma non vi accorgete che io rappresento la vita?

Sono il colore del sangue, della passione, dei martiri e degli eroi.
Di me si vestono i papaveri ed i gelsomini; dove sono presente sono il centro dell’attenzione perché rappresento l’intensità e l’amore!”
Mentre il rosso stava ancora difendendo il suo caso, solenne e regale avanzò il viola:
“Io non ho bisogno di parlare, di propormi o di difendermi.
Il mondo mi conosce e quando passo si inchina.
Io rappresento la regalità:
del mio colore si vestono i re, i principi e gli uomini di chiesa.
Io rappresento l’autorità, ciò che è sacro e misterioso!”
Si presentarono altri colori, ognuno con le proprie ragioni, e si accese un animato dibattito riguardo a chi spettasse il primato.
All’improvviso si udì un tuono seguito da diversi fulmini e da una pioggia scrosciante.
I colori intimoriti fuggirono, si aggrapparono l’uno all’altro e, improvvisamente, sentirono la voce della pioggia:

“Quanto siete sciocchi!

Perché vi preoccupate di chi tra voi è il più importante?
Non vi accorgete che Dio vi ha creati diversi perché ciascuno possa onorarlo attraverso la propria specificità e bellezza?
Orsù, venite con me!”
Detto questo, prese i colori e si diresse verso l’orizzonte e con un ampio gesto tracciò un arcobaleno nel cielo, dicendo:
“Il vostro scopo non è di primeggiare, ma di armonizzare i vostri colori formando arcobaleni!”

Brano tratto dal libro “Sii un girasole accanto ai salici piangenti.” di Arnaldo Pangrazzi. Edizione Camilliane.