Soyen Shaku, il primo insegnante di Zen ad andare in America, disse:
“Il mio cuore brucia come il fuoco ma i miei occhi sono freddi come ceneri morte.”
Egli stabilì le seguenti norme, che mise in pratica ogni giorno della sua vita:
La mattina, prima di vestirti, brucia dell’incenso e medita.
Coricati sempre alla stessa ora.
Nutriti a intervalli regolari.
Mangia con moderazione e mai a sazietà.
Ricevi un ospite con lo stesso atteggiamento che hai quando sei solo.
Da solo, conserva lo stesso atteggiamento che hai nel ricevere ospiti.
Bada a quello che dici, e qualunque cosa tu dica, mettila in pratica.
Quando si presenta un’occasione non lasciartela scappare, ma prima di agire pensaci due volte.
Non rimpiangere il passato.
Guarda al futuro.
Abbi l’atteggiamento intrepido di un eroe e il cuore tenero di un bambino.
Non appena vai a letto, dormi come se quello fosse il tuo ultimo sonno.
Non appena ti svegli, lascia subito il letto dietro di te come se avessi gettato via un paio di scarpe vecchie.
Storia Zen Brano tratto dal libro “101 Storie Zen.”
Anticamente, quando i genitori volevano inculcare nei figli l’idea che l’uomo, fin dall’infanzia, deve battere le vie della santità, senza lasciare le questioni della religione per la vecchiaia, erano soliti raccontare loro delle storie, come questa.
Il giovane Rodolfo, uomo forte e sano, di bell’aspetto, non immaginava che sarebbe un giorno morto o, per lo meno, pensava questo gli sarebbe accaduto dopo molti e molti anni.
In un freddo pomeriggio di ottobre del 1321, egli si inoltrò in una folta foresta, durante una passeggiata.
Ormai all’imbrunire, avvistò tra gli alberi qualcosa che gli sembrava una parete.
Stanco, si avvicinò e vide che era un’antica cappella abbandonata.
Entrò.
Tutto era in rovina:
vetrate rotte, banchi capovolti, polvere accumulata, pipistrelli, ecc.
Per lo meno, pensò, ci sono le pareti ed un tetto, è meglio che niente.
Unendo alcuni banchi, improvvisò dunque un letto e, esausto com’era, si addormentò in un baleno.
A notte fonda fu svegliato da un suono di campane.
Estremamente sorpreso, si sfregò bene gli occhi, non riuscendo a credere a quello che vedeva:
la piccola cappella era illuminata e piena di fedeli.
Sull’altare, un sacerdote stava celebrando la Messa.
Vicino al presbiterio, c’era una bara.
Era dunque una Messa funebre, concluse.
“Mi scusi, signora, ma in memoria di chi è celebrata questa Messa?” chiese.
“Allora non sa chi è morto?
È uno che si è perso in questa foresta, mentre faceva una passeggiata ed è stato trovato morto oggi…
Rodolfo ebbe un sussulto.
Con uno strano presentimento, volle sapere chi fosse quel giovane.
Si avvicinò alla bara, sollevò il velo che copriva il volto del defunto e… sentì un terribile brivido lungo la schiena.
Il morto era lui!
Era ormai invecchiato, certamente, ma non c’era alcun dubbio che era proprio lui quello che si trovava nella bara.
Lanciò un grido di spavento e… si svegliò.
Comprese allora che quel terribile sogno era un avvertimento del cielo: egli sarebbe morto esattamente di lì a 50 anni.
Uscì dalla chiesa e ritornò nella bella casa della sua agiata famiglia, dove era in corso una magnifica festa.
In mezzo all’allegria e ai divertimenti, pensò:
“50 anni è molto tempo.
Vuoi sapere una cosa?
Farò una ripartizione intelligente:
nei primi 25 anni, mi godrò la vita e nei 25 seguenti mi preparerò seriamente alla morte.
Trascorse così 25 anni in divertimenti, viaggi, feste, gite e continua allegria.
Ma… passarono molto rapidamente!
Allora, il Conte decise:
“Guarda, guarda, 25 anni è troppo tempo per prepararsi alla morte, così, i prossimi 15 anni saranno un prolungamento dei 25 anni che sono già passati.
Quando ne mancheranno solo 10, allora sì, mi preparerò seriamente!”
E così accadde… furono altri 15 anni di piaceri, che trascorsero più rapidamente dei 25 anni precedenti.
Ad ogni scadenza, il Conte faceva una nuova “ripartizione intelligente” del tempo restante, giungendo in questo modo, al suo ultimo mese di vita.
Un mese soltanto!
Era, dunque, necessario congedarsi da parenti e amici.
Mandò una lettera a tutti gli amici, invitandoli ad una grande festa.
Dopo 25 giorni, erano tutti riuniti nella sua villa.
Furono tre giorni d’intensa commemorazione.
Gli restavano ora soltanto due giorni!
“Non posso lasciar partire i miei ospiti senza un banchetto di commiato!” pensò il Conte fissando un monumentale pranzo per il 25 ottobre, suo ultimo giorno di vita!
Dopo la festicciola, sentì la necessità di riposare un poco, per poter allora fare una buona confessione.
Mentre era a letto, sentì le prime avvisaglie della morte imminente, chiamò un domestico e, con voce da oltre tomba, lo mandò a chiamare in gran fretta un prete.
Il fedele servitore corse al villaggio vicino, alla ricerca del Parroco.
Nel frattempo Rodolfo, che aveva sprecato i 50 anni di tempo che aveva per prepararsi, cominciò a vedere figure che si muovevano intorno al suo letto, come fossero in attesa del momento di condurlo all’aldilà.
Ansimante, osservava l’ampollina del tempo che stava ormai esaurendosi.
Mancavano appena cinque minuti alla mezzanotte, ed egli udì il rumore del carro che si approssimava, con il prete.
Troppo tardi!
Prima che entrasse il sacerdote, scoccò il primo rintocco delle campane, che annunciavano il nuovo giorno!
Disperato, Rodolfo emise un terribile urlo e… si svegliò veramente.
Con grande sollievo, si rese conto di trovarsi davanti al crocifisso arrugginito della cappella in rovina nel mezzo della foresta, dov’era entrato a riposare poche ore prima.
Non si era trattato che di un sogno.
Ma non di un semplice sogno, no!
Perché il giovane Rodolfo prese sul serio il misericordioso avvertimento.
Da quel momento in poi, seguì con determinazione il cammino della virtù.
Facendo un esame di coscienza quotidiano e la confessione frequente, si mantenne sempre preparato per l’ultimo e più importante giorno della sua vita:
quello del suo incontro con Dio.
Sulle pagine di un vecchio libro della biblioteca del monastero, due monaci avevano letto che esiste un luogo, ai confini del mondo, dove cielo e terra si toccano.
Decisero di partire per cercarlo e promisero a se stessi di non tornare indietro finché non lo avessero trovato.
Attraversarono il mondo intero, scamparono a innumerevoli pericoli, sopportarono tutte le terribili privazioni e sacrifici che comporta un pellegrinaggio in tutti gli angoli dell’immensa terra.
Non mancarono neppure le mille seducenti tentazioni che possono distogliere un uomo dal raggiungere la sua meta.
Le superarono tutte.
Sapevano che nel luogo che cercavano avrebbero trovato una porta:
bastava bussare e si sarebbero trovati faccia a faccia con Dio.
Trovarono la porta.
Senza perdere tempo, con il cuore in gola, bussarono.
Lentamente la porta si spalancò.
Trepidanti i due monaci entrarono e…
si trovarono nella loro cella, nel loro monastero.
Un giorno che ricevette degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo:
“Dove abita Dio?”
Quelli risero di lui:
“Ma che ti prende?
Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”.
Il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda:
“Dio abita dove lo si lascia entrare!”
Ecco ciò che conta più di tutto:
lasciar entrare Dio.
Ma lo si può lasciar entrare solo la dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica.
“Io sto alla porta e busso.” dice Dio nella Bibbia.
Brano tratto dal libro “L’importante è la rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.
Nel 1984 mi trovai senza lavoro per il fallimento della fabbrica dove ero stato assunto.
Il riposo forzato durò solo otto giorni dato che degli amici universitari mi invitarono ad andare con loro a Cortina, visto che dovettero andare a cercare lavoro per la seguente stagione estiva.
Mentre attendevo il loro ritorno in macchina, improvvisamente mi vennero a chiamare.
In quell’albergo erano alla ricerca di un giardiniere tuttofare, ed insistettero affinché mi proponessi.
Alla fine venni assunto.
Il nuovo lavoro consisteva nel curare un piccolo giardino e nell’innaffiarlo.
Sfortunatamente l’estate piovosa rendeva tutto inutile, ma venivo comunque lodato per la bellezza momentanea del giardino.
Dovevo altresì aiutare il facchino a portare le valigie quando era oberato di lavoro, compito che svolgevo volentieri.
Siccome mi vergognavo, mi dileguavo subito dopo aver portato le valigie, senza attendere la mancia.
Gli ospiti quando mi incontravano, in un secondo momento,
insistevano affinché la accettassi.
La mancia era quasi sempre il doppio di quella del facchino che, diversamente da me, tendeva la mano.
Diventò geloso di quello che stava accadendo e mi chiamava sempre di meno.
Abituato al lavoro duro e costante della fabbrica, chiesi al direttore di farmi lavorare di più perché mi annoiavo.
Questi mi disse di mettermi nella hall dell’albergo e di stare con le mani dietro la schiena con la mia bella divisa per fare scena, compito che risultò essere di una sofferenza inaudita per me.
Allora decisi di inventarmi il lavoro, da solo.
Andavo in qualche stanza a svitare le lampadine e aspettavo che mi chiamassero per risolvere il problema; per la direzione divenni un bravo elettricista.
Un’altra invenzione che ebbe successo fu quella di appendere nell’ascensore, dopo averlo battuto a macchina, l’oroscopo del giorno, che copiavo con larga licenza da vecchi giornali, scrivendo solo belle parole per tutti i segni.
In alcuni momenti pensavo di essere anch’io un ospite del rinomato albergo e mi stupivo del fatto che mi pagassero.
Alla scadenza del mese, non ci crederete, mi licenziai, visto che mi facevano lavorare troppo poco, ed anche perché facevo le “notti piccole”, coinvolto nelle serate della mitica e tentacolare Cortina.
Nelle mie zone, qualche anno fa, viveva una eccentrica signora, molto singolare e leggera nel suo stile di vita, che assaporava senza remore bacco, tabacco e “venere”, avendo esercitato, in passato, il più antico mestiere del mondo in un bordello di periferia.
Tornata in paese per la chiusura delle case chiuse per effetto della legge Merlin e con la pensione,
la signora attraversava continuamente il paese con i suoi vestitini sgargianti.
Aveva spesso dei fiori tra i capelli a mo’ di corona, il rossetto sempre di un rosso acceso sulle labbra ed anche sulle guance, e girovagava quasi sempre con un mazzo di fiori in mano.
Fiori che sottraeva in chiesa o al cimitero per poi riportarli in un’altra chiesa o al cimitero stesso.
Salutava tutti con un “Ciao Amore!” ed era conosciuta con questo nome.
Era un personaggio “Felliniano” dal bel volto con capelli corvini, e fu sempre testimone di libertà,
non soggetta a regole e convenzioni.
A “Ciao Amore!” un giorno diedero fuoco alla baracca di legno dove abitava e fu messa in una struttura per anziani facendosi ben volere da operatori e ospiti.
Il regalo che più gradiva era un vasetto di cipolline sotto aceto che divorava come fossero cioccolatini, prendendole con le mani.
Il suo funerale fu a cura del comune, non avendo parenti e figli, ed una sconosciuta signora anch’essa eccentrica, cantò a cappella una Ave Maria che commosse tutti.
Quando qualcuno ricordava a “Ciao Amore!” la sua vita libertina,
ella con una risata rispondeva:
“Vi precederò in paradiso!”
Luogo dove io la immagino.
C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.
Per noi la vita è così breve.
Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.
Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.
“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.
È la fine.
Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”
“Ciao Giovanni!
Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”
Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!
Lo ha scritto uno dei titolari di un locale storico di Monza, il Libra, che non ho il piacere di conoscere.
L’altro giorno stavo lavorando al bancone del Libra durante un mezzogiorno, come al solito tanta gente, tutto molto informale, insomma un bell’ambiente per lavorare e fare la pausa pranzo.
Verso fine turno lo vedo entrare e so che sarà un problema.
Giacca stazzonata, faccia segnata da una vita sicuramente difficile, lascia l’idea di un uomo che vive in un auto, ha i movimenti rapidi di un predatore spaventato, sul chi vive.
Vede che può ordinare senza pagare subito e mi si avvicina.
Sorrido.
Gli chiedo se ha bisogno di qualcosa.
Ha occhi fermi ma stanchi, si vede che avrebbe bisogno di una doccia e di un buon sonno.
“Panini, quanto?” chiede.
Io glielo offrirei volentieri ma ho paura prima di tutto di ferirlo, sono cose delicate che si capiscono solo quando si lavora tanto con le persone, tutti i tipi di persone.
“3 euro,” gli dico per andargli incontro “e te lo faccio fare come vuoi.”
Sorrido.
“Sensa maiale” dice in uno slavo italianeggiante.
“Un bel tramezzino tonno pomodoro lattuga e salsa, va bene?
3 euro e ci metto anche la Cola, oggi c’è un offerta.” mi invento al volo.
Annuisce, non capisce bene cosa succede, forse pensa che voglia fregarlo, continua a guardarsi intorno, cerca probabilmente la presenza di un buttafuori.
Inizia a rovistarsi nelle tasche.
“Tranquillo, paghi dopo,” gli dico, “siediti pure.”
Si mette su una panca all’esterno da dove può guardarmi.
Mando l’ordine in cucina, spiego la situazione e chiedo che lo facciano bello gozzo quel tramezzino.
Faccio pagare un paio di persone, gli porto la cola giusto mentre arriva il tramezzino.
Che non è un tramezzino.
È “Il Fottuto Tramezzino Di Fine di Mondo.”
È tipo quadruplo e c’è dentro l’equivalente di un pasto-famiglia in tonno e verdure.
Mi viene da ridere e ringrazio la fortuna di avere ragazzi simili a lavorare con me.
“Occhio Stanco” continua a subodorare una fregatura, sembra seduto sui carboni ardenti ma in quattro morsi si divora il “Tramezzinosaurus Rex.”
Visto che sto passandogli vicino mi chiede:
“Posso caffè?”
Sorrido.
Annuisco e vado alla vecchia, storica Faema.
Metto sotto il beccuccio la tazzina e, riflesso nella macchina, vedo che “Giacca Stazzonata” si alza e a passo spedito se ne va attraversando la strada.
Gli auguro dentro di me buona fortuna, con una punta di dispiacere per non avergli potuto far provare il mio caffè.
Vado fiero del mio espresso.
Nel frattempo un altro cliente, che era fermo al bancone a mangiare un panino e ha visto e seguito tutto, si muove deciso e mi viene incontro.
È un quarantino brizzolato bene, con una lacoste di un colore che se lo metto io sembro sbirulino e invece su di lui sembra elegante, jeans falso usurati, occhiali fumé e orologio digitale d’ordinanza.
“Eccallà penso.
Adesso questo mi attaccherà un pippone sugli zingheri, i latri, la riconoscenza, i nostri nonni mica scappavano senza pagare…” e invece dice solo:
“Piadina, birretta, caffè!”
“Sono dieci euro!” dico, e sorrido riconoscente del suo silenzio
Lui prende il portafoglio, mi dà un Ticket Restaurant da 10, poi esita un attimo, e mi dà altri 10 euro dicendo:
“Pago anche per il signore di prima, dice, credo che sia dovuto andare.”
Sorrido, per la prima volta veramente e non solo con la faccia:
“Grazie ma non posso accettare, era mio ospite!”
Lui sembra rimanerci un po’ male, rimette il deca in tasca, fa per girarsi poi invece mi guarda, tira di nuovo fuori i soldi e dice:
“Allora glieli lascio, se torna lui o un suo amico mi farebbe piacere che fossero anche i miei ospiti.”
Prendo i soldi e vorrei stringergli la mano, ma lui saluta ed esce.
E io mi rendo conto che aveva un accento straniero, forse slavo anche lui.
E mi chiedo quale è la sua storia.
Figlio di immigrati?
Arrivato qua in cerca di fortuna?
Avrà avuto anche lui momenti difficili o semplicemente si è sentito solidale con uno straniero in terra straniera?
Lo guardo mentre attraversa veloce la strada e penso che in fondo a qualsiasi tunnel, ai tubi catodici, ai titoli dei giornali e dei talkshow ci sono le persone, che sono sempre meglio di come le immaginiamo.
E che quel manipolo di poveri stronzi, violenti che seminano paure e odio perché è nella paura e nell’odio che vivono, non hanno scampo.
Un giorno un Tramezzino li seppellirà, tutti.
Due angeli viaggiatori si fermarono per passare la notte nella casa di una famiglia ricca.
Era una famiglia di persone molto avare che si rifiutarono di far dormire i due angeli nella camera degli ospiti.
Infatti concessero loro solo un piccolo spazio fuori, sul duro e freddo pavimento del pergolato davanti alla casa.
Mentre gli angeli si preparavano come potevano un giaciglio per terra, il più vecchio dei due vide un buco nel muro e lo riparò.
Quando l’angelo più giovane gliene chiese il motivo lui rispose soltanto:
“Le cose non sono sempre quelle che sembrano!”
La notte dopo la coppia di angeli cercò riparo nella casa di una famiglia molto povera ma molto ospitale dove furono accolti da un contadino e da sua moglie.
Dopo aver diviso con gli angeli il seppur scarso cibo che avevano, i contadini insistettero per cedere agli angeli i loro letti, dove finalmente gli angeli viaggiatori poterono riposare comodamente.
La mattina dopo quando il sole sorse, gli angeli trovarono l’uomo e sua moglie in lacrime.
La loro unica mucca, la loro unica fonte di sostentamento, giaceva morta nel campo.
Il giovane angelo si infuriò e chiese al più vecchio come avesse potuto lasciar accadere una cosa del genere.
“Al primo uomo, che pure aveva tutto, hai fatto un favore!” lo accusò.
“Questa famiglia benché avesse pochissimo è stata pronta a dividere tutto con noi, e tu hai lasciato che la loro mucca morisse!”
“Le cose non sono sempre quelle che sembrano!” replicò l’angelo più anziano.
“Quando eravamo nel cortile della villa, ho notato che c’era dell’oro nascosto nel muro e che si sarebbe potuto scoprirlo grazie a quel piccolo buco, in modo tale che avrebbero avuto modo di trovare anche quella ricchezza.
La notte scorsa, poi, mentre dormivamo nel letto del contadino, venne l’angelo della morte per portarsi via sua moglie.
Ed io invece di lei gli ho dato la mucca!”
Le cose non sono sempre quelle che sembrano.
Qualche volta questo è precisamente quello che succede quando le cose sembrano non andare come dovrebbero.
Un gruppo di professori, tutti con posizioni di successo nelle rispettive carriere, s’incontrò per far visita al loro vecchio insegnante.
Dopo i convenevoli gli argomenti di discussione ruotarono subito sullo stress prodotto dal lavoro e dalla vita in genere.
Ognuno portava nella discussione la propria esperienza, lamentando tutti i difetti della posizione sociale e lavorativa che ricopriva.
L’anziano professore padrone di casa offrì loro del caffè.
Andò in cucina poi tornò con una caffettiera grande e una selezione di tazzine da caffè molto varia:
c’erano tazzine di porcellana, tazzine di plastica e tazzine di cristallo;
alcune erano molto semplici ed essenziali, altre finemente decorate;
alcune tazzine avevano la comune forma di tazzina da caffè, altre invece avevano stile e design unici o bizzarri.
Tranquillamente chiese ai suoi ospiti di scegliere liberamente una tazzina e di servirsi autonomamente il caffè appena preparato.
Quando tutti ebbero versato il caffè, il vecchio insegnante si schiarì la gola e con molta calma e pazienza parlò al gruppo:
“Vi sarete resi conto che le tazzine che apparivano migliori sono finite prima di quelle che erano semplici e rozze.
Questo è naturale, poiché ognuno preferisce scegliere il meglio per sé.
Ed è questo il motivo dei vostri molti problemi.”
Dopo una brevissima pausa, continuò:
“Le tazzine non cambiano la qualità del caffè.
Infatti, la tazzina si limita a contenere o rivestire ciò che beviamo.
Quello che a voi interessava era il caffè, non la tazza; ma istintivamente avete cercato il rivestimento più bello.
Ora, provate a guardare le tazze degli altri.
Pensate a questo: la vita è il caffè.
La fatica sono i soldi.
La posizione sociale è una semplice tazza, che fornisce forma e supporto.
Il tipo di tazza che abbiamo non definisce e non cambia in realtà la qualità della nostra vita.
Perciò, se ci concentriamo solo sulla tazza, non riusciamo a gustare il caffè!”