Un anziano Apache stava insegnando la vita ai suoi nipotini.



Un anziano Apache stava insegnando la vita ai suoi nipotini.

Un anziano Apache stava insegnando la vita ai suoi nipotini.
Egli disse loro:

“Dentro di me infuria una lotta, è una lotta terribile fra due lupi.

Un lupo rappresenta la paura, la rabbia, l’invidia, il dolore, il rimorso, l’avidità, l’arroganza, l’autocommiserazione, il senso di colpa, il rancore, il senso d’inferiorità, il mentire, la vanagloria, la rivalità, il senso di superiorità e l’egoismo.

L’altro lupo rappresenta la gioia, la pace, l’amore, la speranza, il condividere,

la serenità, l’umiltà, la gentilezza, l’amicizia, la compassione, la generosità, la sincerità e la fiducia.
La stessa lotta si sta svolgendo dentro di voi e anche dentro ogni altra persona.”
I nipoti rifletterono su queste parole per un po’ e poi uno di essi chiese:

“Quale dei due vincerà?”

L’anziano rispose semplicemente:
“Quello che nutri!”

Tratto dal libro “Viaggio nel tempo.” di Domenico Frustagli

I cambiamenti dentro di noi

I cambiamenti dentro di noi

Un giovane di nome Naresh incontrò un santo.
Il santo gli chiese chi fosse, e il giovane rispose: “Sono Naresh!”
“Chi sei?” ribadì il santo.
Naresh, pensando che il santo non lo avesse udito, disse: “Mi chiamo Naresh!”
“Sì, ma chi sei?” incalzò il santo.
Perplesso, Naresh rispose:
“Mio padre si chiama Ram Dutta.
Vivo a Delhi.
Faccio il ragioniere.”
“Sì, ma chi sei?” continuò il santo.
Il giovane si spremette le meningi per capire quella domanda.
Il santo era forse duro d’orecchi?

O stava diventando vecchio e un po’ senile?

“Beh, se non lo sai,” disse il santo con un sorriso, “forse è bene che tu sia venuto da me!”
A questo punto il giovane rimase completamente sconcertato!
Sentiva però una certa pace in presenza del santo e quindi tornò molte volte da lui, pur senza sapere veramente il perché.
Un po’ alla volta, cominciò a riflettere:
“Posso davvero definire me stesso in un modo così limitato, ad esempio dicendo che sono un ragioniere?”
Cominciò a pensare:
“Io non sono ciò che faccio.
Sono un giovane con molti interessi, incluso quello di fare visita a questo santo, anche se lo faccio per ragioni che non comprendo pienamente!”

“Chi sei?” gli chiese nuovamente il santo, un giorno.

A quel punto, il vecchio apparve al giovane non solo perfettamente normale, ma perfino saggio.
“Non so chi sono veramente!” disse Naresh.
“Adesso va meglio!” esclamò il santo “Allora pensaci di nuovo. Chi sei?”
Bene, rifletté il giovane.
Ho un nome, una famiglia, un domicilio.
Ma sono davvero una qualunque di queste cose?
All’improvviso ebbe questa rivelazione:
“Sono un’anima in cerca di se stessa!”
Il suo corpo era ancora giovane, ma sapeva che col tempo sarebbe invecchiato.
Anche adesso, nel suo intimo, egli era la stessa persona che era stato da bambino.
Il corpo era cambiato, ma lui no.
Quindi non era il corpo.

Continuò a riflettere.

La sua comprensione era cambiata da quando aveva incontrato il santo, ma nel suo intimo era ancora lo stesso.
La sua personalità era cambiata, ma qualcosa nella sua coscienza era rimasto immutato.
Lentamente comprese che lui, proprio lui, era un punto di percezione interiore dal quale si limitava ad osservare quei cambiamenti, senza però definire se stesso in base a essi.
Ciò che cambia, comprese, non può essere ciò che sono.
Io sono quel qualcosa dentro di me che rimane immutato, che semplicemente osserva il cambiamento.
Così, giunse ad identificarsi sempre più con la sua anima.
Un giorno disse al guru:
“So chi sono, ma non ci sono parole con cui io possa parlarne!”
Il santo, nell’udire questo, si limitò a sorridere.
Più tardi disse:
“Ora che ti mancano le parole, c’è così tanto che possiamo dirci!”

Brano tratto dal libro “L’essenza della Bhagavad Gita.” di Paramhansa Yogananda e Swami Kriyanand

Il pappagallo riconoscente


Il pappagallo riconoscente

Il povero pappagallo non ne poteva proprio più.
Era nato per la quiete: e intorno a lui, dalla mattina alla sera, venti, cinquanta, cento pappagalline irrequiete, sventate, pettegole, andavano, venivano, svolazzavano, cicalavano, strillavano senza concedere un istante di pace.
Il pappagallo dovette finalmente risolversi e prese il volo per andar a cercare un cantuccio tranquillo in terra straniera.
Fu proprio fortunato.
Dove capitò, tutti gli animali erano pacifici e tutti gli fecero grande accoglienza, specialmente gli uccelli.
Il pappagallo era beato: quanta quiete!

Quanto silenzio!

Ci si sarebbe fermato tutta la vita; ma non voleva abusare dell’ospitalità, e un giorno a malincuore si congedò:
“Devo ritornare tra i miei.”
Fece i suoi addii e se ne partì.
Era già abbastanza alto e lontano, quando scorse levarsi un denso fumo proprio sui cari luoghi che aveva da poco lasciato.
Tornò subito indietro.

Un grande incendio era scoppiato.

Le fiamme correvano la pianura, risalivano i fianchi dei monti, divoravano foreste, villaggi, campagne.
Il pappagallo, angosciato, vide un laghetto non lontano.
Vi si tuffò, si inzuppò più che poté di acqua, poi volò sul luogo dell’incendio e, scuotendo ali e piume, fece piovere sulle fiamme le gocce d’acqua che lo imperlavano; quindi volò via ancora al laghetto, tornò a tuffarsi, rivolò sulle fiamme e lasciò ricadere le sue scarse gocciole.
E cosi fece non so quante volte.

Lo scorse una scimmia e lo ammonì:

“O pappagallo, come sei sciocco!
Pensi forse di spegnere un incendio che si stende mille miglia, solo con le goccioline d’acqua che puoi raccogliere nel cavo delle tue alucce?”
“Oh,” rispose il pappagallo, “so benissimo che non spegnerò l’immenso incendio!
Ma il buon popolo di questi luoghi mi ha accolto e trattato come un fratello e cerco di dimostrargli per quanto posso tutta la mia gratitudine e la mia pietà.
Non saprei vederlo soffrire tanto, senza portargli il mio soccorso, anche sapendolo inutile.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Un matrimonio in crisi. (L’importanza dei dettagli)


Un matrimonio in crisi.
(L’importanza dei dettagli)

Mentre mia moglie mi serviva la cena le presi la mano e le dissi: “Devo parlarti!”
Lei annuì e mangiò con calma.
La osservai e vidi il dolore nei suoi occhi, quel dolore che all’improvviso mi bloccava la bocca.
Mi feci coraggio e le dissi: “Voglio il divorzio!”
Lei non sembrò disgustata dalla mia domanda e mi chiese piano: “Perché?”
Quella sera non parlammo più e lei pianse tutta la notte.
Io sapevo che lei voleva capire cosa stesse accadendo al nostro matrimonio, ma io non potevo risponderle, aveva perso il mio cuore a causa di un’altra donna: Valentina.
Io ormai non amavo più mia moglie, mi faceva solo tanta pena, mi sentivo in colpa, e per questa ragione sottoscrissi nell’atto di separazione che a lei restasse la casa, l’auto e il 30% del nostro negozio.
Lei quando vide l’atto lo strappò in mille pezzi.

Avevamo passato dieci anni della nostra vita insieme e ora eravamo due perfetti estranei.

A me dispiaceva tanto per tutto questo tempo che aveva sprecato insieme a me, per tutte le sue energie, però non potevo farci nulla: io amavo Valentina.
All’improvviso mia moglie cominciò a urlare e a piangere ininterrottamente per sfogare la sua rabbia e la sua delusione, l’idea del divorzio cominciava ad essere realtà.
Il giorno dopo tornai a casa e la incontrai seduta alla scrivania in camera da letto che scriveva, non cenai e mi misi a letto, ero molto stanco dopo una giornata passata con Valentina.
Durante la notte mi svegliai e vidi mia moglie sempre lì seduta a scrivere, mi girai e continuai a dormire.
La mattina dopo mia moglie mi presentò le condizioni affinché accettasse la separazione:
non voleva la casa, non voleva l’auto tanto meno il negozio, soltanto un mese di preavviso, quel mese che stava per cominciare l’indomani.
Inoltre voleva che in quel mese vivessimo come se nulla di tutto questo fosse accaduto.
Il suo ragionamento era semplice:
“Nostro figlio in questo mese ha gli esami a scuola e non è giusto distrarlo con i nostri problemi.”
Io fui d’accordo però lei mi fece un’ulteriore richiesta.
“Devi ricordarti del giorno in cui ci sposammo, quando mi prendesti in braccio e mi accompagnasti nella nostra camera da letto per la prima volta:
in questo mese ogni mattina dovrai prendermi in braccio e portarmi in braccio fino a lasciarmi fuori dalla porta di casa.”
Pensai che avesse perso il cervello, ma acconsentii per non rovinare le vacanze estive a mio figlio e per superare quel momento di tensione in pace.
Raccontai la cosa a Valentina che scoppiò in una fragorosa risata dicendo:
“Non importa che trucchi si sta inventando tua moglie: dille che oramai tu sei mio!

Se ne faccia una ragione!”

Era tanto tempo che io e mia moglie non avevamo più intimità, così quando la presi in braccio il primo giorno, eravamo ambedue imbarazzati.
Nostro figlio invece camminava dietro di noi applaudendo e dicendo:
“Grande papà! Papà ha preso la mamma in braccio!”
Le sue parole furono come un coltello nel mio cuore.
Camminai una decina di metri con mia moglie in braccio.
Lei chiuse gli occhi e mi disse a bassa voce:
“Non dirgli nulla del divorzio e del nostro accordo, per favore.”
Acconsentii con un cenno, sempre imbarazzato e anche un po’ irritato, e la lasciai sull’uscio.
Come ogni mattina lei uscì e andò a prendere l’autobus per recarsi al lavoro.
Il secondo giorno eravamo tutti e due più rilassati, lei si appoggiò al mio petto e potetti sentire il suo profumo sul mio maglione.
Mi resi conto che era da tanto tempo che non la guardavo.
Mi resi conto che non era più così giovane: qualche ruga, qualche capello bianco.
Si notava che portava i segni di un dolore interno.
Mi chiesi cosa avessi fatto, come si fosse ridotta così.
Il quarto giorno, prendendola in braccio come ogni mattina, avvertii che l’intimità stava ritornando tra noi:
questa era la donna che mi aveva donato dieci anni della sua vita, la sua giovinezza, un figlio.
Nei giorni a seguire ci avvicinammo sempre più.

Non dissi nulla a Valentina.

Ogni giorno che passava era più facile prendere mia moglie in braccio, e il mese passava velocemente.
Ogni giorno che passava la sentivo più leggera.
Una mattina lei stava scegliendo dall’armadio i vestiti:
si era provata di tutto, ma nessun indumento le andava bene e lamentandosi disse:
“I miei vestiti mi vanno grandi.”
In quell’occasione mi resi conto quanto fosse dimagrita in quei giorni.
Di colpo realizzai che era entrata in depressione: a causarla erano stati il troppo dolore e la troppa sofferenza, pensai.
Senza accorgermene le toccai i capelli, nostro figlio entrò all’improvviso nella nostra stanza e disse:
“Papà, è arrivato il momento di portare la mamma in braccio!”
Per lui quel rito era diventato un momento basilare della sua giornata e della sua vita.
Mia moglie abbracciò forte mio figlio ed io girai la testa, ma dentro sentivo un brivido che cambiò il mio modo di vedere il divorzio.
Ormai prenderla in braccio e portarla fuori cominciava ad essere per me come la prima volta che la portai in casa quando ci sposammo.
La abbracciai senza muovermi e sentii quanto fosse leggera e delicata.
Mi venne da piangere!
Arrivò l’ultimo giorno e aprendomi a lei le dissi:
“Non mi ero reso conto di aver perduto l’intimità con te…”
Mio figlio doveva andare a scuola e io lo accompagnai con la macchina.

Mia moglie restò a casa.

Mi diressi verso il posto di lavoro, ma a un certo punto passando davanti alla casa di Valentina mi fermai, scesi e corsi sulle scale.
Lei mi aprì la porta e io le dissi:
“Perdonami, ma non voglio più divorziare da mia moglie!”
Lei mi guardò e disse:
“Ma sei impazzito?”
Io le risposi:
“Amo mia moglie.
Un periodo di stress, di noia e di routine ci aveva allontanato, ma ora ho capito i veri valori della vita!
Dal giorno in cui l’ho portata in braccio mi sono reso conto, osservandola e guardandola, che voglio farlo per il resto della mia vita!”
Valentina pianse, mi tirò uno schiaffo ed entrò in casa sbattendomi la porta in faccia.
Io scesi le scale velocemente, tornai in macchina e mi fermai in un negozio di fiori.
Comprai un mazzo di rose per mia moglie.
La ragazza del negozio mi chiese:
“Cosa scriviamo sul biglietto?”
Le dissi:
“Ti prenderò in braccio ogni giorno della mia vita finché morte non ci separi.”
Arrivai di corsa a casa, salii i gradini a due a due ed entrai di corsa, precipitandomi in camera felicissimo e col sorriso sulle labbra.
Trovai mia moglie a terra.

Era morta.

Negli ultimi mesi stava lottando contro il cancro e io invece ero occupato a sciupare il mio tempo con Valentina, senza nemmeno accorgermene.
Lei non me lo aveva detto:
sapeva che stava per morire e per questo motivo volle un mese di tempo.
Sì, un mese… affinché a nostro figlio non rimanesse un cattivo ricordo del nostro matrimonio.
Affinché nostro figlio non subisse traumi.
Affinché a nostro figlio rimanesse impresso il ricordo di un padre meraviglioso e innamorato della madre.
Lei aveva chiaro quali fossero i dettagli, i semplici dettagli, che contano in una relazione.
Non sono la casa, la macchina, i soldi…
Queste sono cose effimere che sembrano saldare un’unione e invece possono dividerla.
Cerchiamo sempre di mantenere accesa la fiamma, alimentare il matrimonio con giorni felici, ricordando sempre il primo giorno della nostra più bella storia d’amore.
A volte non diamo il giusto valore a ciò che abbiamo fino a quando non lo perdiamo.
A volte capiamo il valore delle cose solo quando le abbiamo perdute.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il ponte


Il ponte

Due fratelli vissero insieme d’amore e d’accordo per molti anni.
Vivevano in cascine separate, ma un giorno scoppiò una lite e questo fu il primo problema serio che sorse dopo quaranta anni in cui avevano coltivato insieme la terra condividendo le macchine e gli attrezzi, scambiandosi i raccolti e i beni continuamente.
Cominciò con un piccolo malinteso e crebbe fino a che scoppiò un diverbio con uno scambio di parole amare a cui seguirono settimane di silenzio.
Una mattina qualcuno bussò alla porta di Luigi.
Quando aprì si trovò davanti un uomo con gli utensili del falegname:
“Sto cercando un lavoro per qualche giorno,” disse il forestiero “forse qui ci può essere bisogno di qualche piccola riparazione nella fattoria e io potrei esserle utile per questo!”

“Sì,” disse il maggiore dei due fratelli “ho un lavoro per lei.

Guardi là, dall’altra parte del fiume, in quella fattoria vive il mio vicino, beh!
È il mio fratello minore.
La settimana scorsa c’era una splendida prateria tra noi, ma lui ha deviato il letto del fiume perché ci separasse.
Deve aver fatto questo per farmi andare su tutte le furie, ma io gliene farò una.
Vede quella catasta di pezzi di legno vicino al granaio?
Ebbene voglio che costruisca uno steccato di due metri circa di altezza, non voglio vederlo mai più!”
Il falegname rispose:

“Mi sembra di capire la situazione!”

Il fratello maggiore aiutò il falegname a riunire tutto il materiale necessario e se ne andò fuori per tutta la giornata per fare le spese in paese.
Verso sera, quando il fattore ritornò, il falegname aveva appena finito il suo lavoro.
Il fattore rimase con gli occhi spalancati e con la bocca aperta.
Non c’era nessuno steccato di due metri.
Invece c’era un ponte che univa le due fattorie sopra il fiume.
Era una autentica opera d’arte, molto fine, con corrimano e tutto.
In quel momento, il vicino, suo fratello minore, venne dalla sua fattoria e abbracciando il fratello maggiore gli disse:
“Sei un tipo veramente in gamba.

Ma guarda!

Hai costruito questo ponte meraviglioso dopo quello che io ti ho fatto e detto!”
E così stavano facendo la pace i due fratelli, quando videro che il falegname prendeva i suoi arnesi.
“No, no, aspetta; rimani per alcuni giorni ancora, ho parecchi lavori per te!” disse il fratello maggiore al falegname.
“Mi fermerei volentieri,” rispose lui “ma ho parecchi ponti da costruire!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il turista ed il pescatore


Il turista ed il pescatore

Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista americano si fermò e si avvicinò ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto.
Si complimentò con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiese quanto tempo avesse impiegato per pescarlo.
Il pescatore rispose:
“Non ho impiegato molto tempo!”
Il turista aggiunse:
“Ma allora, perché non è stato di più, per pescarne di più?”
Il messicano gli spiegò che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia.

Il turista chiese:

“Ma come impiega il resto del suo tempo?”
E il pescatore:
“Dormo fino a tardi, pesco un po’, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie.
La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita!”
Allorché il turista disse:
“La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare.
Prima di tutto dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più.

Così logicamente pescherebbe di più.

Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa.
Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche.
Potrà permettersi un’intera flotta!
Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua.
In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York!
Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!”
Il pescatore lo interruppe:
“Ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?”
E il turista: “20, 25 anni forse!”
Quindi il pescatore chiese: “… e dopo?”

Turista:

“Ah dopo! Qui viene il bello, quando il suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!”
E il pescatore:
“Miliardi? … e poi?”
Turista:
“E poi finalmente potrà ritirarsi dagli affari e andare in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo qualcosa, suonando la chitarra e trascorrere appieno la vita!”
“Ma questo lo faccio già,” concluse il pescatore, “resto in santa pace qui nel mio piccolo villaggio!”
Il turista così ammaestrato se ne andò via pensoso, perché un tempo anche lui aveva creduto di lavorare per non dover più lavorare un giorno, e in lui non restava traccia di compassione per quel pescatore poveramente vestito, solo un poco d’invidia.

Brano di Heinrich Boll, tratto dal libro “Il nano e la bambola.”

Il Cuore più bello del Mondo


Il Cuore più bello del Mondo

C’era una volta un giovane in mezzo a una piazza gremita di persone che diceva di avere il cuore più bello del mondo.
Tutti quanti glielo ammiravano, era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto.
Erano tutti concordi nell’ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano più il giovane si vantava di quel suo cuore meraviglioso.
All’improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse:
“Beh, a dire il vero… il tuo cuore è molto meno bello del mio!”
Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti.

Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici.

C’erano zone dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene, così il cuore risultava tutto bitorzoluto ed era anche pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi.
Così tutti quanti osservavano il vecchio colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse il più bello.
Il giovane guardò com’era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere:
“Starai scherzando!” disse.
“Confronta il tuo cuore col mio, il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime.”
“E’ vero!” ammise il vecchio.

“Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai cambio col mio.

Vedi, nel mio ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore, alla quale ho dato un pezzo del mio cuore, e spesso, ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore.
Ma certo ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi e così ho qualche bitorzolo, a cui però sono affezionato, ciascuno mi ricorda l’amore che ho condiviso.
Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto e questo ti spiega le voragini.
Amare è rischioso ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l’amore che ho provato anche per queste persone.
E chissà!
Forse un giorno ritorneranno e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro.

Comprendi adesso che cosa sia il vero amore?”

Il giovane era rimasto senza parole e lacrime copiose gli rigavano il volto.
Allora prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel’offrì con le mani che gli tremavano.
Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi ne prese un pezzo rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane.
Ci entrava ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo.
Poi il vecchio aggiunse:
“Se la nota musicale dicesse che non è la nota che fa la musica…
Non ci sarebbero le sinfonie.
Se la parola dicesse che non è una parola che può fare una pagina…
Non ci sarebbero i libri.
Se la pietra dicesse che non è una pietra che può alzare un muro…

Non ci sarebbero case.

Se la goccia d’acqua dicesse che non è una goccia d’acqua che può fare un fiume…
Non ci sarebbero gli oceani.
Se l’uomo dicesse che non è un gesto d’amore che può rendere felici e cambiare il destino del mondo…
Non ci sarebbero mai né giustizia, né pace, né felicità sulla terra per gli uomini!”
Dopo aver ascoltato, il giovane guardò il suo cuore, che non era più “il cuore più bello del mondo”, eppure lo trovava più meraviglioso che mai perché l’amore del vecchio ora scorreva dentro di lui.
Ogni persona con il suo cuore, con i suoi bitorzoli, con i suoi vuoti e con tutto ciò che nel corso degli anni si è donato e si è ricevuto.
Come la sinfonia ha bisogno di ogni nota, come il libro ha bisogno di ogni parola, come la casa ha bisogno di ogni pietra, come l’oceano ha bisogno di ogni goccia d’acqua, così il mondo ha bisogno di NOI, ha bisogno del nostro amore, perché siamo unici ed insostituibili.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La commovente storia del gatto Bruttino


La commovente storia del gatto Bruttino

Tutti nel nostro palazzo sapevano chi fosse “Bruttino.”
Bruttino era un gattino che viveva nel seminterrato.
Bruttino soprattutto amava tre cose:
combattere, mangiare dalla spazzatura e per così dire amare.
La combinazione di queste tre cose e la vita per strada ha inciso sul suo nomignolo di Bruttino.
Innanzitutto aveva solo un occhio, e dove doveva esserci il secondo c’era un buco.

Non aveva nemmeno un orecchio allineato sullo stesso lato.

La sua gamba sinistra, forse a causa di una grave frattura, guarita male, aveva una posizione angolare e guardandolo sembrava che fosse sempre sul punto di tornare indietro.
La sua coda è andata persa molto tempo fa, lasciando solo un piccolo puntino che era sempre in movimento.
Bruttino aveva un colore grigiastro, il suo corpo era ricoperto di lividi tranne la testa che era ricoperta di cicatrici.
Ogni volta che qualcuno vedeva Bruttino subito esclamava:
“Che gatto orrendo!”
A tutti i bambini della zona fu detto dai propri genitori di non avvicinarsi.
Gli adulti a loro volta lo cacciavano quando cercava di entrargli in casa.
Lo facevano lanciandogli dei sassi oppure bagnandolo con dell’acqua.

Alcuni addirittura gli chiudevano le zampine nelle porte di casa.

Bruttino reagiva sempre allo stesso modo.
Quando lo bagnavano con l’acqua restava fermo e inzuppato attendendo che venisse lasciato in pace.
Quando gli lanciavano qualcosa addosso si sdraiava a terra chiedendo perdono.
Quando vedeva dei bambini vi si avvicinava furtivamente miagolando fortemente e saltando su di loro, chiedendogli affetto.
Se qualcuno lo avesse raccolto, avrebbe immediatamente iniziato a leccargli camicia, orecchini, o qualsiasi cosa avesse trovato.
Un giorno Bruttino decise di dare amore a due husky che vivevano nelle vicinanze.
Ma i cani non ricambiarono i suoi sentimenti e Bruttino fu colpito duramente.

Sentendo i suoi terribili lamenti decisi di vedere cosa fosse successo.

Purtroppo quando arrivai sul luogo mi resi conto che la sua vita stava giungendo al termine.
Bruttino giaceva su una macchia bagnata, le sue zampe posteriori erano terribilmente piegate e sul davanti al posto del suo pelo c’era una terribile ferita.
Lo raccolsi con l’intenzione di portarmelo a casa, sentendolo ansimare affannosamente.
Vedevo che era stanco.
Ho pensato che stesse soffrendo molto.
Sentii qualcosa di umido sull’orecchio.
Bruttino, contorcendosi dal dolore, cercava di leccarmi l’orecchio.
Lo abbracciai fortemente e lui mi toccò il volto con la zampina, poi girò i suoi occhi giallastri verso di me e mi guardò.

Sentii un miagolio molto debole.

Anche in un momento di vera sofferenza questo gatto bruttino pieno di lividi chiedeva solo un po’ di affetto o un po’ di compassione.
In quel momento, Bruttino mi è sembrata la creatura più bella, più amorevole che io abbia mai visto.
Non ha provato a mordermi, a graffiarmi a scappare da me o a combattermi in qualsiasi altro modo.
Mi guardava, sapendo che lo avrei salvato…
Bruttino morì fra le mie braccia, prima che arrivassi a casa.
Sedetti con lui ancora un momento, ripensando a come il suo corpo deforme, pieno di lividi avesse distorto la mia opinione su cosa significhi avere un cuore puro, amare assolutamente e veramente.

Ho appreso più sulla compassione e sul dare da Bruttino che di quanto abbiano mai fatto migliaia di libri, conferenze o l’insieme di vari programmi televisivi.

Per questo, gliene sarò sempre grato.
Esternamente era pieno di cicatrici, mentre io avevo delle cicatrici interne che in quel momento dovetti superare e andare avanti.
Dando il meglio di me a quelli che mi stanno a cuore.
Le persone vogliono essere ricche, avere maggior successo, desiderando di essere ben voluti e belli… invece io cercherò sempre di essere come Bruttino.

Brano senza Autore, tratto dal Web

I doni di Dio. (Il negozio di Dio)


I doni di Dio. (Il negozio di Dio)

Sulla via principale della città c’era un negozio originale.
Un’insegna luminosa diceva:
“I doni di Dio!”
Un bambino entrò e vide un angelo dietro il bancone; sugli scaffali c’erano grandi scatole di tutti colori, chiese incuriosito:
“Cosa vendete?”
L’angelo rispose:
“Ogni ben di Dio!
Vedi nella scatola rossa c’è l’amore, l’arancione contiene la fratellanza, in quella azzurra c’è la fede, in quella verde la speranza, nella blu la pace e nell’indaco salvezza.”

Chiese ancora il bambino incuriosito:

“E quanto costa questa merce?”
Con estrema gentilezza, l’angelo rispose:
“Sono doni di Dio e non costano niente!”
Il bambino allora esclamò:
“Che bello!
Allora dammi: dieci quintali di fede, una tonnellata di amore, un quintale di speranza, un barattolo di fratellanza e tutto il negozio di pace!”

L’angelo si mise a servire il bambino.

In un attimo confezionò un pacchetto piccolo, ma così piccolo, come il suo cuore e porgendo il pacchetto al piccolo disse:
“Ecco, sei servito!”
Il bambino sorpreso disse:
“Ma come mai è così piccolo?”
Concluse l’angelo:
“Certo, nella bottega di Dio non si vendono frutti maturi, ma piccoli semi da coltivare.
Vai nel mondo e fai germogliare i doni che Dio ti ha dato!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il pane della fratellanza


Il pane della fratellanza

Si racconta di una anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco.
Il marito le era morto durante la guerra.
I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare.
Si volevano bene ma, bastava una parola in più ed erano litigi senza fine.
A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace.

La mamma divento vecchia, allora i figli si preoccuparono:

“Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché quando litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?”
“Ma io dovrò pur morire prima o poi.” rispose la mamma
“Allora,” chiesero i figli “inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene.”
Mamma Giulia pensò a lungo alla cosa e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d’accordo.
La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e raccomandò:

“Mangiate e cercate di volervi bene.”

I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime.
Di lì a pochi giorni Giulia morì.
Roberto, Michele e Francesco si divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il suo.
Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro.
Ben presto si misero a litigare.
Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco.
Egli si mise in mezzo a loro:

“Non ricordate la mamma?

Perché non facciamo come quel giorno che ci ha chiamati al suo capezzale?”
Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare.
Mentre mangiavano nella mente di Roberto e Michele si riaccese l’immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina.
Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace.
La pace non durava molto, perché occasioni di litigio ne incontravano spesso.
Però avevano imparato la soluzione: ogni volta che si creava un’occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno ad un tavolo, prendevano un pane, lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.

Brano senza Autore.