La civetta colorata

La civetta colorata

Un nonno regalò a suo nipote un viaggio-vacanza in Brasile.
L’unica condizione per avere questo era regalo era quella di comprare un pappagallo in Brasile e portarglielo, in modo che lui avesse potuto insegnargli a parlare,

per lenire la sua solitudine di vedovo.

Il nipote tra feste e distrazioni si dimenticò del pappagallo e se ne rese conto solamente una volta rientrato a Milano.
Girò tutti i venditori di uccelli per rimediare, ma ebbe la medesima risposta da tutti i commercianti:
le specie protette non possono essere commercializzate.
Fece un ultimo tentativo ed in questo negozio gli venne suggerito di colorare con colori sgargianti una civetta, contando sulla non buona vista del nonno.

Grande fu l’entusiasmo del nonno per la nuova compagnia

Quando il nipote ritornò dal nonno, un mese dopo, per chiedergli se fosse contento del pappagallo, questo gli rispose di sì.
Aggiunse, inoltre, che il pappagallo stava cambiando la lucentezza delle penne per la cattività, ma dai grandi occhi spalancati si intuiva chiaramente che stava molto attento a quello che gli veniva detto e sperava di avere, a breve, una risposta da parte del pappagallo.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le elezioni, il Re Leone e la scimmietta

Le elezioni, il Re Leone e la scimmietta

Era appena finita la stagione delle piogge.
Il Re leone convocò per le nuove elezioni tutti gli animali della foresta equatoriale.
Muniti di regolare certificato elettorale, accorsero tutti alla convention.
Dal palco presidenziale il vecchio leone, con un ruggito deciso e potente, ottenne un religioso silenzio in tutta la vasta assemblea.
Poi, secondo un rituale che si ripeteva ormai da decenni, prese la parola e disse:
“Cari amici, come ben sapete, con l’arrivo della democrazia ogni anno ci ritroviamo per eleggere il Re della foresta.
Anche quest’anno, come sempre, rinnoveremo “liberamente” l’elezione dell’unico Capo che può legittimamente governare tutta la foresta e l’intera savana:
cioè … il sottoscritto, Sua Maestà il leone!

Lo eleggeremo, come sempre, a pieni voti!”

Ma, a questo punto, nel silenzio assoluto dell’immensa assemblea, si sentì una vocina squillante che scendeva dall’alto, da uno dei rami di un baobab.
Una vocina che domandava al Re leone:
“Perché?”
Tutti gli animali della foresta si girarono istintivamente verso la piccola incosciente che aveva osato parlare, per di più interrompendo il Re!
Era semplicemente una scimmietta, alunna della quarta classe elementare, ingenua, con pelo bruno e occhietti scintillanti.
Il Re leone, spalancando bonariamente le zampe massicce in un gesto di paternalismo indulgente e comprensivo, regalando a tutti un sorriso, forzato a quarantasei denti, rispose:
“Cara scimmietta, tu sei piccolina.
Ai bambini si può perdonare tutto.
Ma crescendo, tra non molto, capirai anche tu.

Ogni regno ha bisogno di un re.

Ogni comunità ha bisogno di un Capo, di una guida, di un condottiero!”
Convinto di aver risposto esaurientemente, stava per riprendere il filo del suo breve discorsetto preelettorale, quando la vocina chiese nuovamente:
“Perché?”
Stupito, contrariato, offeso, il leone ruggì con vigore:
“Piccola impertinente!
Chi ti ha concesso la parola?
Non sai che qui posso parlare soltanto io?”
“Perché?” domandò ancora, tutta impaurita e tremante, la piccola ingenua scimmietta.
“Già … perché?” si domandarono in coro tutti gli altri animali, “Perché? Perché? Perché?”
“Perché…” ruggì spavaldamente sbavando di rabbia il Leone, “Perché io sono il più forte!

Perché qui comando io!

Perché tocca sempre a me dire l’ultima parola!
E basta!”
Ma tutti i presenti continuarono a chiedere in coro:
“Perché? Perché? Perché?”
In questo modo ebbe inizio la grande rivoluzione politica degli animali.
L’ex Re Leone, fremente di rabbia, scoprì di essere nudo, abbandonato da tutti, irreparabilmente solo.
E, sconfitto, se ne rientrò, più inferocito che mai, a incrudelire selvaggiamente nella savana.

Brano senza Autore

La ragazza ed il barbone

La ragazza ed il barbone

Un giorno, mentre passeggiava per strada, una ragazza notò un barbone che cantava in cambio di qualche monetina.
Non ci fece troppo caso ed entrò in una caffetteria.
Qualche minuto dopo aver presto posto ed aver ordinato, vide entrare il barbone.
Questi iniziò a contare le monetine, vicino a lei, ma con le offerte ricevute aveva raccolto solo poco più di un euro.

Titubante e deluso si avviò verso l’uscita,

ma la ragazza, avendo assistito a tutta la scena, impulsivamente, decise di offrigli un caffè ed un bel panino.
Il barbone indeciso se accettare o meno si convinse solamente quando la stessa ragazza lo invitò al suo tavolo.
Nonostante fosse rimasto sorpreso e combattuto dalla proposta si sedersi con lei, alla fine la raggiunse.
Iniziarono a parlare ed il barbone le fece diverse confidenze.
Le raccontò che la maggior parte delle volte le persone erano cattive nei suoi confronti,

solo per il fatto che vivesse per strada.

Le ammise anche che furono le droghe a farlo finire per la strada e che per questo si odiava.
Lui continuava a sognare di essere il figlio del quale la propria madre possa essere orgogliosa, nonostante la donna fosse morta per un tumore diversi anni prima.
I due parlarono per più di un’ora, ma ad un certo punto la ragazza si rese conto che il tempo era trascorso in fretta e che si era fatto molto tardi.
Nel momento in cui la ragazza stava per alzarsi, il barbone le chiese di aspettare solo un momento e si mise a scrivere qualcosa su un foglietto tutto spiegazzato.
Le diede il foglio di carta in mano e le chiese scusa per la sua brutta lettera, poi si salutarono.
Quando la ragazza aprì il biglietto capì di aver fatto qualcosa di molto più importante che offrire un semplice pasto ad un mendicante.

Sul foglietto c’era scritto:

“Mi sarei voluto suicidare oggi, ma grazie a te non lo voglio più fare.
Grazie bella persona.”
A volte un gesto generoso o solamente un sorriso possono fare la differenza, più di quanto possiamo immaginare.

Storia vera, liberamente ispirata al racconto autobiografico di Casey Fisher

Un momento per… Dio

Un momento per… Dio

Figlio mio, quando ti sei svegliato questa mattina, ti ho osservato e ho sperato che tu mi rivolgessi la parola, anche solo poche parole, chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che era accaduto ieri.
Però ho notato che eri molto occupato a cercare il vestito giusto da metterti per andare a lavorare.
Ho continuato ad aspettare ancora mentre correvi per la casa per vestirti e sistemarti ed io sapevo che avresti avuto del tempo anche solo per fermarti qualche minuto e dirmi “Ciao.”

Però eri troppo occupato.

Per questo ho acceso il cielo per te, l’ho riempito di colori e di dolci canti di uccelli per vedere se così mi ascoltavi, però nemmeno di questo ti sei reso conto.
Ti ho osservato mentre ti dirigevi al lavoro e ti ho aspettato pazientemente tutto il giorno.
Con tutte le cose che avevi da fare, suppongo che tu sia stato troppo occupato per dirmi qualcosa.
Al tuo rientro ho visto la tua stanchezza e ho pensato di farti bagnare un po’ perché l’acqua si portasse via il tuo stress.
Pensavo di farti un piacere perché così tu avresti pensato a me, ma ti sei infuriato e hai offeso il mio nome, io desideravo tanto che tu mi parlassi,

c’era ancora tanto tempo.

Dopo hai acceso il televisore, io ho aspettato pazientemente, mentre guardavi la tv, hai cenato, però ti sei dimenticato nuovamente di parlare con me, non mi hai rivolto la parola.
Ho notato che eri stanco e ho compreso il tuo desiderio di silenzio e così ho oscurato lo splendore del cielo, ho acceso una candela, in verità era bellissimo, ma tu non eri interessato a vederlo.
Al momento di dormire credo che fossi distrutto.
Dopo aver dato la buonanotte alla famiglia sei caduto sul letto e quasi immediatamente ti sei addormentato.
Ho accompagnato il tuo sogno con una musica, i miei animali notturni si sono illuminati, ma non importa, perché forse nemmeno ti rendi conto che io sono sempre lì per te.

Ho più pazienza di quanto immagini.

Mi piacerebbe pure insegnarti ad avere pazienza con gli altri.
Ti amo tanto che aspetto tutti i giorni una preghiera, il paesaggio che faccio è solo per te.
Bene, ti stai svegliando di nuovo e ancora una volta io sono qui e aspetto senza nient’altro che il mio amore per te, sperando che oggi tu possa dedicarmi un po’ di tempo.
Buona giornata.
Tuo Papà! … Dio.

Brano tratto dal libro “Piccole storie per riflettere.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il riposino

Il riposino

Un discepolo del maestro Soyen Shaku racconta che, quando erano bambini, il loro maestro era solito fare sempre un riposino dopo pranzo.
Al risveglio i bambini gli chiedevano perché lo facesse e lui rispondeva:

“Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio!”

Si narra infatti che Confucio sognasse gli antichi saggi prima di parlare ai suoi discepoli.
Un giorno, racconta il discepolo, c’era un caldo terribile e alcuni dei bambini si appisolarono.

Il maestro al risveglio li sgridò ed uno di loro rispose così:

“Siamo andati nel mondo dei sogni a trovare gli antichi saggi proprio come faceva Confucio!”
Allora il maestro li interrogò:
“E che cosa vi hanno detto quei saggi?”

Uno dei piccoli discepoli rispose:

“Siamo andati nel mondo dei sogni, abbiamo incontrato i saggi e domandato se il nostro maestro andava là tutti i pomeriggi, ma loro ci hanno detto di non averlo mai visto!”

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

L’importanza del silenzio

L’importanza del silenzio

Gli allievi della scuola di Tendai solevano studiare meditazione anche prima che lo Zen entrasse in Giappone.
Quattro di loro, che erano amici intimi, si ripromisero di osservare sette giorni di silenzio.

Il primo giorno rimasero zitti tutti e quattro.

La loro meditazione era cominciata sotto buoni auspici; ma quando scese la notte e le lampade a olio cominciarono a farsi fioche, uno degli allievi non riuscì a tenersi e ordinò a un servo:
“Regola quella lampada!”
Il secondo allievo si stupì nel sentire parlare il primo:

“Non dovremmo dire neanche una parola!” osservò.

“Siete due stupidi.
Perché avete parlato?” disse il terzo.
“Io sono l’unico che non ha parlato!” concluse il quarto.

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

La penitenza del chierichetto (Il sacchetto di fagioli)

La penitenza del chierichetto
(Il sacchetto di fagioli)

Anch’io sono stato chierichetto ed anche molto serio.
Mia mamma era rimasta molto colpita ed era orgogliosa dell’invito che mi aveva fatto il Parroco dell’epoca, Don Mario, per fare il chierichetto e ciò perché noi eravamo una famiglia di immigrati e, l’immigrato in genere, non è da subito ben inserito nella vita del paese.
Un tempo era così, ora la mentalità è più aperta, ma al tempo dovevi avere pazienza.
Allora mia mamma mi manda subito da un’amica sarta, che mi prenda le misure e mi confeziona la vestina del chierichetto.
Nella mia Parrocchia allora i chierichetti indossavano una tunica nera con sopra una cotta bianca
corta.
La sarta era brava e mi confezionò la più bella vestina di tutti gli altri ragazzi, che facevano i chierichetti.
Io ero uno dei più piccoli e dovevo ancora imparare molte cose allora il Parroco mi affidò ad uno più vecchio che mi doveva insegnare i compiti del chierichetto nelle varie cerimonie.

Scoprii allora che i chierichetti non sono tutti uguali:

c’era il turiferario in genere più anziano (si fa per dire) degli altri, che portava il turibolo per porgerlo al celebrante nel momento opportuno per incensare.
Il turiferario è assistito da quello che porta l’incenso dentro la navicella, poi ci sono quelli che portano le torce accese, quelli che seguono la messa, il cerimoniere che dà gli ordini, quelli che accendono e spengono le candele, quelli che rispondono alla Messa.
Insomma molti compiti e per ogni compito serviva una specifica istruzione perché il Parroco era severissimo, non bisognava assolutamente parlare tra noi, né litigare, ecc.
Il Parroco ci chiamava a fare l’istruzione dei chierichetti una volta la settimana e durante le vacanze anche due volte alla settimana.
Lui teneva la conferenza, ci raccomandava il silenzio, la meditazione, le buone letture e poi ci lasciava alle istruzioni pratiche affidate al capo chierichetto più anziano.
Io venni destinato a “rispondere alla messa” ossia alla liturgia della messa domenicale o feriale, ero troppo piccolo, infatti per il turibolo, che era più alto di me ed anche per le candele alle quali non arrivavo nemmeno con lo stoppino acceso lungo venti centimetri.
La Santa Messa era in latino ed io il latino non lo sapevo,

ma il Parroco mi diede il libricino della messa in latino scritto in due caratteri.

Le frasi scritte con caratteri normali le diceva il Parroco o Celebrante mentre le risposte in neretto le dovevo dire io.
Ed io in un lampo imparai tutte le risposte al celebrante in latino anche se non sapevo cosa volessero dire.
L’altare non era rivolto verso il pubblico come ora ma rivolto verso il fondo della Chiesa ed il Parroco dava le spalle al pubblico e la fila dei chierichetti si metteva nel presbiterio alle spalle del celebrante su due file.
Si entrava dalla Sagrestia, genuflessione ai piedi dell’altare poi il Parroco saliva all’altare poggiava il calice, quindi scendeva e mi ricordo ancora le prime frasi della Messa.
Dopo aver recitato in ginocchio il tradizionale:
“In nomine Patris et Filii…… ecc”, il celebrante diceva:
“introibo ad altare Dei.” ed io subito pronto, “Ad Deum qui laetificat juventutem meam.”
Il Parroco celebrante rispondeva:
“Adiutorium nostrum in nomine Domini.” ed io pronto e immediato, “Qui fecit caelum et terram….”
Poi veniva il Confiteor e cosi via.
Ma noi piccoli chierichetti non sapevano il latino e quindi le frasi le troncavamo o non eravamo pronti a rispondere ed allora il Parroco ci riprendeva ed anche ci suggeriva.

Io però più che dal latino ero impacciato con la mia bella tunica.

La prima parte della Messa si diceva tutta in ginocchio.
Il pavimento del presbiterio non era mai stato finito e non aveva il marmo come adesso, ma c’era il cemento grezzo.
Avevo i calzoni corti, mi sollevavo allora la tunica per non rovinarla e mi inginocchiavo sul cemento grezzo, che era fatto tutto di piccoli sassolini che sulle ginocchia nude diventavano dolorose.
Dopo un po’ bruciavano, allora per trovare un riparo arrotolavo la tunica sotto le ginocchia così per un po’ il dolore passava.
Il Parroco se ne accorgeva dei vari spostamenti e movimenti e sommessamente ci invitava a stare fermi.
Tra i chierichetti mi feci notare per la serietà ed allora mi chiamavano soprattutto per i funerali, mentre quelli più vecchi e forse anche un tantino più furbi preferivano i matrimoni.
Chissà perché!
Tra i chierichetti c’era sempre qualche monello.
Qualche carboncino destinato al turibolo prendeva qualche altra strada e poi lo si usava per accendere il fuoco o per bruciare le barbe del granoturco o i semi del fenocio che davano un certo aroma di anice.
Il Parroco però ci diceva, che il chierichetto doveva essere sempre irreprensibile e studioso ed allora invece che mandarci in gita premio, ci mandava a fare gli esercizi spirituali a Villa Immacolata a Torreglia.

Ci andai anch’io, ancora molto piccolo così scoprii cosa fossero questi esercizi spirituali:

silenzio, raccoglimento, preghiera, poco gioco, nessun pallone, meditazione al mattino, meditazione al pomeriggio, silenzio assoluto dopo la cena.
La Messa tutti i giorni poi l’istruzione dei chierichetti per gruppi.
Anche se non si poteva parlare tuttavia conobbi lo stesso un mio coetaneo di una Parrocchia vicina e facemmo subito amicizia perché mi era parso subito molto sveglio.
Mi confidò infatti che nella sua Parrocchia dopo la Messa degli sposi lui andava dai compari degli sposi li salutava e tra un saluto e l’altro diceva loro:
“La settimana scorsa abbiamo fatto un bel matrimonio, ma così bello che ci hanno anche dato una mancia per i chierichetti!”
In genere l’allusione funzionava e subito, anche i nuovi compari, gli sganciavano una bella mancia, che lui raccoglieva diligentemente in una musina per fare una bella gita a fine anno.
Dopo la meditazione sul finire degli esercizi spirituali venne anche la confessione.
Andai a confessarmi da un prete che non conoscevo.

Si dimostrò subito molto severo ed austero.

Come penitenza, dopo la confessione, non mi prescrisse come faceva di solito il mio Parroco di recitare delle preghiere, ma di mettere una manciata di fagioli nelle scarpe e di camminare il giorno dopo con i fagioli dentro alle scarpe.
Mi consegnò infatti un sacchettino piccolissimo con dentro una decina di fagiolini bianchi con l’occhio nero.
Misi i fagioli nelle scarpe come mi aveva detto e poi non riuscivo più a correre perché mi facevano male le piante dei piedi lungo le stradine in salita della Villa Immacolata.
Incontrai il mio nuovo amico e vidi che lui camminava invece spedito e correva senza problemi.
Lo chiamai e gli dissi sottovoce, perché si doveva stare in silenzio:
“Sono andato a confessarmi ed il prete mi ha dato un sacchettino di fagioli da mettere come penitenza nelle scarpe!”
“Anche a me ha dato la stessa penitenza,” mi disse l’amico, “ed anch’io ho messo i fagioli nelle scarpe!”

Ed allora io replicai tutto stupito:

“Come mai tu corri senza problemi ed io ho un male boia alle piante dei piedi?” gli chiesi molto stupito.
E Lui mi rispose sorridendo:
“I fasoi non mi fanno male ai piedi, perché io ieri sera li ho messi a bagno in una tazza di acqua calda.
Il confessore non mi ha detto, infatti, che i fagioli dovevano essere secchi o bagnati e io prima di metterli nelle scarpe li ho messi a bagno.”
Rimasi molto colpito dalla furbata e dissi tra me questo amico si toglie facilmente dai problemi.
Beh stenterete a credere, poi ci perdemmo di vista, ma questo compagno di esercizi spirituali divenne in seguito Direttore di Banca e le rare volte, che andavo nella sua agenzia dicevo a gran voce:
“Direttore mi fanno male i piedi!” e lui replicava:
“Acqua calda e fasoi!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La predica di San Francesco e frate Ginepro

La predica di San Francesco e frate Ginepro

Un giorno, uscendo dal convento, San Francesco incontrò frate Ginepro.
Era un frate semplice e buono e San Francesco gli voleva molto bene.

Incontrandolo gli disse:

“Frate Ginepro, vieni, andiamo a predicare.”
“Padre mio,” rispose, “sai che ho poca istruzione.
Come potrei parlare alla gente?”
Ma poiché san Francesco insisteva, frate Ginepro acconsentì.
Girarono per tutta la città, pregando in silenzio per tutti coloro che lavoravano nelle botteghe e negli orti.

Sorrisero ai bambini, specialmente a quelli più poveri.

Scambiarono qualche parola con i più anziani.
Accarezzarono i malati.
Aiutarono una donna a portare un pesante recipiente pieno d’acqua.

Dopo aver attraversato più volte tutta la città, san Francesco disse:

“Frate Ginepro, è ora di tornare al convento.”
“E la nostra predica?” chiese frate Ginepro.
“L’abbiamo fatta… l’abbiamo fatta” rispose sorridendo il santo.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’ombrello giallo

L’ombrello giallo

C’era una volta un paese grigio e triste, dove, quando pioveva, tutti gli abitanti giravano per le strade con degli ombrelli neri.
Sempre rigorosamente neri.
E sotto l’ombrello tutti avevano una faccia aggrondata e triste.
Come, del resto, è giusto che sia sotto un ombrello nero.
Ma un giorno che la pioggia scrosciava, proprio nell’ora di punta, si vide circolare un signore un po’ bizzarro che passeggiava sotto un ombrello giallo.
E come se non bastasse, quel signore sorrideva.
Alcuni passanti lo guardavano scandalizzati e mugugnavano:
“Guardate che indecenza!
E veramente ridicolo con quel suo ombrello giallo.

Non è serio.

La pioggia invece è una cosa seria e un parapioggia deve essere nero.”
Altri montavano in collera e dicevano forte:
“Ma che razza di idea è mai quella di andare in giro con un ombrello giallo?
Quel tipo è solo un esibizionista, uno che vuol farsi notare a tutti i costi.
Non è per niente divertente!”
In effetti non c’era niente di divertente in quel paese, dove pioveva sempre e gli ombrelli erano tutti neri.
Solo la piccola Marta non sapeva che cosa pensare.
Un pensiero le ronzava nella mente:

“Quando piove, un ombrello è un ombrello.

Che sia giallo oppure nero, quello che conta è avere l’ombrello.”
D’altra parte, quel signore aveva proprio l’aria felice sotto il suo ombrello giallo e Marta si chiedeva perché.
Un giorno, all’uscita della scuola, Marta si accorse di aver dimenticato il suo ombrello nero a casa.
Scosse le spalle e si incamminò verso casa a testa scoperta, mentre la pioggia le bagnava i capelli.
Dopo un po’, incrociò l’uomo dell’ombrello giallo che le propose sorridendo:
“Vuoi ripararti?”
Marta esitava:
se accettava e si riparava sotto l’ombrello giallo, tutti l’avrebbero presa in giro, ma poi pensò:
“Quando piove, un ombrello è un ombrello.
Che sia giallo oppure nero, è sempre meglio avere l’ombrello che non averlo per niente!”
Così accettò e si riparò sotto l’ombrello giallo accanto al signore gentile.

E allora Marta capì perché quel signore era sempre felice:

sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più!
C’era un gran sole caldo nel cielo azzurro, e degli uccellini che cinguettavano.
Marta aveva un’aria cosi sbalordita che il signore scoppiò in una risata:
“Lo so!
Anche tu mi prendi per un pazzo, ma voglio spiegarti tutto.
Un tempo, ero triste anch’io, in questo paese dove piove sempre.
Avevo anch’io un ombrello nero.
Ma un giorno, uscendo dall’ufficio, dimenticai l’ombrello e partii verso casa a testa scoperta.
Per strada, incontrai un uomo che mi propose di ripararmi sotto il suo ombrello giallo.
Come te, esitavo perché avevo paura di farmi notare e di rendermi ridicolo, ma poi accettai perché avevo più paura ancora di buscarmi un raffreddore.
Mi accorsi che sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più.
Quell’uomo mi insegnò che le persone erano tristi perché non si parlavano da un ombrello all’altro.
Poi, improvvisamente, l’uomo se ne andò e mi accorsi che avevo il suo ombrello giallo in mano.
Lo rincorsi, ma non riuscii più a trovarlo:

era scomparso.

Ho conservato l’ombrello giallo e il bel tempo non mi ha più lasciato.”
Marta esclamò:
“Che storia!
E non sente imbarazzo a tenersi l’ombrello di un altro?”
Il signore rispose:
“No, perché so bene che questo ombrello è di tutti.
Quell’uomo l’aveva senza dubbio ricevuto anche lui da qualche altro.”
Quando arrivarono davanti alla casa di Marta, si dissero arrivederci.
Marta allora si accorse di tenere in mano l’ombrello giallo, ma il signore gentile era già scomparso.
Così Marta conservò l’ombrello giallo, ma sapeva già che quell’ombrello speciale avrebbe ben presto cambiato proprietario e sarebbe passato in tante altre mani, per riparare dalla pioggia tante altre persone e portare loro il bel tempo.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.