La pecora nera

La pecora nera

C’era una volta una pecora nera.
Tutte le altre pecore del gregge erano bianche.
Detestavano la povera pecora nera e la coprivano di insulti.
Ogni volta che la vedevano belavano rabbiose:
“Stai lontana da noi!
Sei uno scherzo della natura, non sei normale!”
Erano malignamente felici quando riuscivano a farla piangere.
Soprattutto Belinda, una grossa pecora bianca la trattava in modo perfido e crudele.
Era la Capo gregge.

Tutte le altre andavano sempre dietro di lei.

Tutte facevano quello che faceva lei.
La pecora nera era triste.
Le sarebbe piaciuto tanto essere come le altre.
Ma non poteva cambiare il colore nero del suo mantello.
Qualche volta tentava di scappare e si nascondeva.
Ma poi tornava perché non sapeva cavarsela da sola.
Belinda era robusta e presuntuosa.
Decise di fare un viaggio per conoscere il mondo.
Raggiunse in poco tempo pascoli nuovi.
Quando trovava un gregge sconosciuto, si metteva in mezzo e si vantava:
“Nel mio gregge io sono il capo.
Tutte mi ubbidiscono.
Sono io che decido come devono andare le cose…”
Un giorno, Belinda incontrò un grosso gregge molto particolare.

Tutte le pecore erano nere.

Quando Belinda se ne accorse si fermò interdetta; poi si mise a ridacchiare.
E, ancheggiando come una indossatrice, si diresse verso il gregge sicura della sua bellezza e del suo splendido vello bianco.
Tutto il gregge scoppiò invece in una sonora risata di scherno.
Prima che Belinda potesse emettere un belato di sorpresa, una pecora nera, grossa e robusta quanto lei, si fece avanti e in tono quanto mai minaccioso disse:
“Avete mai visto niente di più ridicolo?
Ti strapperemo quella orribile pellaccia e così vedremo di che colore sei veramente!”
Tutto il gregge sghignazzò.
Belinda fece il più rapido dietro front della sua vita e scappò a rotta di collo inseguita dalle risate e dallo scherno delle pecore nere.
Mise un bel po’ di distanza tra sé e il pascolo delle pecore nere, finché arrivò ad un grande recinto dove vide un gregge molto numeroso.
Non ne aveva mai visto uno simile.
Era composto da pecore bianche, pecore nere, pecore rossicce, pecore chiazzate e perfino pecore metà bianche e metà nere.
Aveva perso molta della sua baldanzosa sicurezza, perciò si fermò interdetta e guardinga, pensando: “Chissà come mi trattano qui…”

Le pecore si erano accorte di lei e, cordialmente, le chiesero:

“Da dove vieni?”
“Dall’altra parte della montagna.” rispose.
Una pecora nera le venne incontro.
Belinda fece per scappare, ma la pecora nera disse:
“Non aver paura!
Resta qui con noi finché ti pare.
L’erba è buona e abbondante.
Da noi sono tutti benvenuti!”
Belinda rimase in quello strano gregge per due giorni.
Poi decise di tornare a casa.
Prima dell’addio disse:
“Siete il miglior gregge del mondo.
Accettate e rispettate le pecore di tutti i colori.
Da noi, abbiamo solo una pecora nera…”

Brano tratto dal libro “Racconti di Natale.” di Giuseppe D’Ambrosio Angelillo

La zia e le nipoti

La zia e le nipoti

Un’anziana signora rimasta vedova e senza figli, organizzò a casa sua una cena speciale invitando tutte le nipoti.
Il suo intento segreto era quello di conoscerle meglio e di valutarle.

Voleva capire a chi lasciare una parte molto importante del suo patrimonio.

Aveva deciso di redigere un testamento e dividere in parti uguali case e campi, ma voleva riservare il suo piccolo tesoretto, composto da un arazzo con lo stemma di famiglia, quadri, preziosi d’oro e d’argento, alla nipote che, maggiormente, avesse rappresentato il casato.
Durante la cena, ognuna di esse raccontò alla zia come procedeva la propria vita.

Solamente una di loro parlava in dialetto stretto,

tutte le altre cugine, invece, si servivano di un italiano forbito ed alcuni anglicismi che la zia non sempre capiva.
Tra i numerosi piatti che la zia propose, era presente anche un favoloso minestrone di fagioli e radicchi alla Veneta.
A stento venne assaggiato dalle nipoti, invece colei che parlava dialetto, chiese addirittura il bis.

La cosa rese felice la zia che con quel piatto,

diversi anni prima, aveva vinto il cucchiaio d’oro ad un concorso gastronomico internazionale, suggellato da ampio riscontro mediatico.
A fine serata la matriarca non ebbe alcun dubbio.
Aveva deciso a chi lasciare il suo tesoretto e, fra lo stupore delle cugine, regalò alla “fagiolara”, come anticipo, il suo cucchiaio d’oro.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I pregiudizi di un boscaiolo

I pregiudizi di un boscaiolo

Un boscaiolo non trovava più la sua ascia preferita.
Aveva girato tutta la casa, rovistato un po’ dappertutto.
Niente da fare.

L’ascia era sparita.

Cominciò a pensare che qualcuno gliel’avesse rubata.
In preda a questo pensiero si affacciò alla finestra.
Proprio in quel momento passava il figlio del suo vicino di casa.
“Ha proprio l’andatura di un ladro di asce!” pensò il boscaiolo, “E anche gli occhi da ladro di asce…

e perfino i capelli da ladro di asce!”

Qualche giorno dopo, il boscaiolo ritrovò la sua ascia preferita sotto il divano, dove lui l’aveva buttata una sera tornando dal lavoro.
Felice per il ritrovamento, si affacciò alla finestra.
Proprio in quel momento passava il figlio del suo vicino di casa.
“Non ha proprio l’andatura da ladro di asce!” pensò il boscaiolo,

“Anzi, ha gli occhi da bravo ragazzo… ed anche i capelli!”

Guardiamo il mondo come fosse un teatrino e a ciascuno diamo una parte da recitare:
quello è il bello, quella la scema, quello il cattivo, quell’altro il traditore…

Brano tratto dal libro “40 Storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La rosa nel diamante

La rosa nel diamante

Il più prezioso diamante del mondo era in origine deturpato da una screpolatura.
Avevano deciso di farne una tranciata di diamanti industriali, ma un abile intagliatore,

con infinita pazienza e molto tempo,

trasformò quella screpolatura in una splendida rosa.
Quella che oggi tutti ammirano, intagliata nel diamante.

La vita è piena di sorprese.
Ci sono giorni buoni e giorni cattivi.

Ci sono problemi e guai che ci fanno soffrire.

Ma ci tengono svegli.
E spesso ci costringono a tirar fuori la parte migliore di noi stessi.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Corso di formazione per uomini e mariti


Corso di formazione per uomini e mariti

Corso di formazione che permette agli uomini di sviluppare quella parte del cervello della quale ignorano l’esistenza.

Programma: 2 moduli di cui uno obbligatorio.

Modulo 1: Corso di base obbligatorio

1. Imparare a vivere senza la mamma (2000 ore)
2. La mia donna non è mia mamma (350 ore)
3. Capire che il calcio non è altro che uno sport (500 ore)

Modulo 2: Vita a due

1. Avere bambini senza diventare geloso (50 ore)
2. Vincere la sindrome del telecomando (550 ore)
3. Non fare la pipì fuori dal water (100 ore, esercizi pratici con video)
4. Come arrivare fino al cesto dei panni sporchi senza perdersi (500 ore)
5. Come sopravvivere ad un raffreddore senza agonizzare (300 ore)

Sono inoltre previsti dei temi speciali di approfondimento:

Tema 1: il ferro da stiro; dalla lavatrice all’armadio: un processo misterioso.
Tema 2: tu e l’elettricità: vantaggi economici del contattare un tecnico competente per le riparazioni (anche le più basilari).
Tema 3: ultima scoperta scientifica: cucinare e buttare la spazzatura non provocano ne’ impotenza ne’ tetraplegia (pratica in laboratorio).
Tema 4: perché non è reato regalarle fiori anche se sei già sposato con lei.
Tema 5: il rullo di carta igienica: “la carta igienica nasce da sola nel portarullo?” (esposizioni sul tema della generazione spontanea).

Tema 6: come abbassare la tavoletta del bagno passo a passo (teleconferenza con l’Università di Harvard).

Tema 7: gli uomini che guidano possono chiedere informazioni ai passanti quando si perdono senza il rischio di sembrare impotenti (testimonianze).
Tema 8: la lavatrice: questa grande sconosciuta.
Tema 9: differenze fondamentali tra il cesto della roba sporca e il suolo (esercizi in laboratori di musicoterapia).
Tema 10: l’uomo nel posto del passeggero: è geneticamente possibile non parlare o agitarsi convulsamente mentre lei parcheggia?
Tema 11: la tazza della colazione: levita da sé fino al lavandino? (esercizi diretti da Silvan).
Tema 12: comunicazione extrasensoriale: esercizi mentali in modo che quando gli si dice che qualcosa è nel cassetto dell’armadio non domandi “in quale?”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Qual è la parte più importante del nostro corpo?

Qual è la parte più importante del nostro corpo?

Quando ero ragazzina, mia madre mi chiese quale fosse la parte più importante del corpo.
Mi piaceva moltissimo ascoltare musica, come ai miei amici del resto.
Sul momento pensai che l’udito fosse molto importante per gli esseri umani, così risposi:

“Le orecchie.”

“Alcune persone sono sorde, eppure vivono felicemente!” rispose mia madre.
Dopo qualche tempo, mia madre mi rifece la stessa domanda:
“Qual è la parte più importante del corpo umano?”
Io intanto ci avevo pensato e credevo di avere la risposta giusta:
“Vedere è meraviglioso ed è molto importante per tutti, quindi… gli occhi.”
Lei mi guardò e disse:

“Molti sono ciechi e se la cavano benissimo!”

Pensavo che fosse solo una specie di gioco tra me e mia madre.
Poi però un giorno, tristissimo per me, morì mio nonno.
Era una persona molto importante per me.
L’amavo tantissimo.
Ero distrutta dal dolore.
Quel giorno mia madre mi disse:
“Oggi è il giorno giusto perché tu possa capire la risposta alla domanda.
La parte più importante del corpo sono le spalle!”
Sorpresa, dissi:

“Perché sostengono la testa?”

“No!” rispose mia madre, “Perché su di esse possono appoggiare la testa gli amici o le persone care quando piangono.
Tutti abbiamo bisogno di una spalla su cui piangere in alcuni momenti della nostra vita.”
Quella volta scoprii quale fosse la parte più importante del mio corpo, perché in quel momento, quella che aveva bisogno di una spalla su cui piangere ero io.

Brano senza Autore

L’elefante e i sei saggi ciechi


L’elefante e i sei saggi ciechi

C’erano una volta sei saggi che vivevano insieme in un piccolo villaggio.
I sei saggi erano ciechi.
Un giorno, un principe straniero che attraversava il paese si fermò con la sua corte davanti alle mura di questo villaggio.
Subito tra gli abitanti del villaggio si diffuse la voce che il principe montava un animale straordinario.
Si trattava di un elefante.
In quel paese non esistevano elefanti, e la gente non aveva idea di come potessero essere fatti quegli animali.
I sei saggi volevano vederlo, ma come avrebbero potuto farlo essendo ciechi?
Così decisero di andare a toccare l’animale, in modo da poterlo descrivere.
Al loro ritorno, i sei ciechi furono accolti dalla popolazione impaziente di sapere a cosa poteva assomigliare un elefante.
“Bè,” disse il primo, “un elefante è come un enorme ventaglio rugoso.”

Gli aveva toccato le orecchie.

“Assolutamente no,” intervenne il secondo, “E’ come un paio di lunghe ossa.”
Gli aveva toccato le zanne.
“Ma proprio per niente!” esclamò il terzo, “Assomiglia ad una grossa corda.”
Gli aveva toccato la proboscide.
“Ma cosa state dicendo? Piuttosto è compatto come un tronco d’albero!” disse il quarto che gli aveva toccato le zampe.
“Non capisco di cosa state parlando…” disse il quinto, “Un elefante assomiglia ad un muro che respira.”
Gli aveva toccato i fianchi.
“Non è vero,” gridò il sesto, “Un elefante è come una lunga fune.”

Gli aveva toccato la coda.

I sei ciechi cominciarono a litigare, ciascuno rifiutando di ascoltare la descrizione degli altri cinque.
Attirato dalle loro urla, il principe venne a vedere che cosa stava accadendo.
“Sire,” disse un vecchio, “i sei saggi sono venuti a toccare l’elefante per capire com’è fatto e ognuno dice una cosa diversa.
Non si sa a chi credere.”
Il principe ascoltò i sei ciechi che descrissero di nuovo l’elefante.
Dopo un lungo silenzio, egli dichiarò:
“Tutti e sei dicono la verità, ma ognuno di essi ha toccato solo una parte dell’animale, e quindi conosce solo quella parte di verità.
Finché ognuno crede di essere il solo ad avere ragione, nessuno conoscerà la verità intera.

I diversi colori del caleidoscopio non si mescolano forse per formare un solo e splendido disegno?

Il principe descrisse allora l’elefante mettendo insieme le sei descrizioni e gli abitanti del villaggio seppero finalmente che aspetto aveva quello straordinario animale.”
Tutti noi abbiamo la nostra personale visione del mondo ed essa è basata su ciò che attraverso i sensi percepiamo ed interiorizziamo e che costituisce la nostra esperienza diretta sulle cose.
Ma proprio perché personale e quindi filtrata dai nostri sensi, tale visione non è detto che sia corrispondente alla realtà in se stessa.
Accettare l’idea che i diversi punti i vista possono tutti essere validi e che il loro insieme fa la realtà della cose, ci aiuta ad essere più disponibili verso il punto di vista dell’altro e a rispettarlo tanto quanto vogliamo che sia rispettato il nostro.
Ascoltare significa anche porsi nella condizione di recepire ciò che ci viene detto come un possibile fertile spunto di riflessione, un punto di vista diverso che potremo scartare o accettare in funzione di ciò che riteniamo utile per noi ma che in linea di principio non è più sbagliato o più giusto del nostro, ma solo diverso…

Brano senza Autore, tratto dal Web

La strada che non andava da nessuna parte


La strada che non andava da nessuna parte

All’uscita del paese si dividevano tre strade:
una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.
Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po’ a tutti e da tutti aveva ricevuto la stessa risposta:
“Quella strada lì?
Non va in nessun posto.
E’ inutile camminarci!”
“E fin dove arriva?” chiedeva.
“Non arriva da nessuna parte!” gli rispondevano
“Ma allora perché l’hanno fatta?” ribadiva.

“Non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì!” replicavano.

“Ma nessuno è mai andato a vedere?” insisteva il ragazzo.
“Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c’è niente da vedere…” concludevano.
“Non potete saperlo se non ci siete mai stati!” diceva Martino.
Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto.
Quando fu abbastanza grande, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti.
Il fondo era pieno di buche e di erbacce e ben presto cominciarono i boschi.
Cammina cammina la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane.

Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani,

poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora.
Finalmente il bosco cominciò a diradarsi e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro.
Attraverso le sbarre Martino vide un castello e a un balcone una bellissima signora che salutava con la mano.
Spinse il cancello, attraversò il parco e sulla porta trovò la bellissima signora.
Era bella, vestita come una principessa e in più era allegra e rideva:
“Allora non ci hai creduto!”
“A che cosa?” chiese stupito Martino.
“Alla storia della strada che non andava da nessuna parte!” replicò la signora.
“Era troppo stupida e secondo me ci sono più posti che strade!” rispose Martino.
“Certo, basta aver voglia di muoversi.
Ora vieni ti farò vedere il castello!” disse la bellissima signora.
C’erano più di cento saloni zeppi di tesori.
C’erano diamanti, pietre preziose, oro, argento e ad ogni momento la bella signora diceva:

“Prendi, prendi quello che vuoi…

Ti presterò un carretto per portare il peso!”
Martino non si fece pregare e ripartì col carretto pieno.
In paese, dove l’avevano già dato per morto, Martino fu accolto con grande sorpresa.
Scaricato il tesoro il carro ripartì.
Martino fece tanti regali a tutti e dovette raccontare cento volte la sua storia.
Ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere cavallo e carretto e si precipitava giù per la strada che non andava da nessuna parte.
Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l’altro, con la faccia lunga per il dispetto:
la strada per loro finiva in mezzo al bosco in un mare di spine.
Non c’era né cancello, né castello, né bella signora.
Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova.

Brano di Gianni Rodari

Poesia per Mio Figlio – I figli sono come gli aquiloni


Poesia per Mio Figlio – I figli sono come gli aquiloni
Festa della Mamma

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Poesia per Mio Figlio

A volte non capirò le tue scelte.
A volte non riuscirò a farti cambiare idea.
A volte dovrò lasciarti sbagliare.
A volte dovrò lasciarti cadere.
A volte non potrò seguire i tuoi sogni.

A volte non saremo d’accordo.

Ma non ci sarà mai e poi mai, una sola volta in cui non sarò dalla tua parte.
Sarò sempre con te, dalla tua parte…
Nella vittoria e nella sconfitta, perché ogni cosa che fai tu è un po’ come se la facessi anche io…
Perché tu sei una parte di me…
La Migliore.

Poesia di Francesca Barbari

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I figli sono come gli aquiloni

Insegnerai a volare ma non voleranno il tuo volo.
Insegnerai a sognare ma non sogneranno il tuo sogno.

Insegnerai a vivere ma non vivranno la tua vita.

Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto.

Citazione di Madre Teresa di Calcutta

Tu sei la parte più importante della mia giornata!


Tu sei la parte più importante della mia giornata!

“Mamma, guarda!” esclamò Marta, la bambina di sette anni.
“Già, già!” mormorò nervosamente la donna mentre guidava e pensava alle tante cose che l’attendevano a casa.
Poi seguirono la cena, la televisione, il bagnetto, varie telefonate e arrivò anche l’ora di andare a dormire.
“Forza Marta, è ora di andare a letto!”
E lei si avviò di corsa su per le scale.
Stanca morta, la mamma le diede un bacio, recitò le preghiere con lei e le aggiustò le coperte.
“Mamma, ho dimenticato di darti una cosa!”

“Me la darai domattina.” rispose la mamma, ma lei scosse la testa.

“Ma poi domattina non avrai tempo!” esclamò Marta.
“Lo troverò, non preoccuparti!” disse la mamma, un po’ sulla difensiva.
“Buonanotte!” aggiunse e chiuse la porta con decisione.
Però non riusciva a togliersi dalla mente gli occhioni delusi di Marta.
Tornò nella stanza della bambina, cercando di non fare rumore.
Riuscì a vedere che stringeva in una mano dei pezzetti di carta.

Si avvicinò e piano piano aprì la manina di Marta.

La bambina aveva stracciato in mille pezzi un grande cuore rosso con una poesia scritta da lei che si intitolava “Perché voglio bene alla mia mamma.”
Facendo molta attenzione recuperò tutti i pezzetti e cercò di ricostruire il foglio.
Una volta ricostruito il puzzle riuscì a leggere quello che aveva scritto Marta:
“Perché voglio bene alla mia mamma.
Anche se lavori tanto e hai mille cose da fare trovi sempre un po’ di tempo per giocare.
Ti voglio bene mamma perché sono la parte più importante del giorno per te.”

Quelle parole le volarono dritto al cuore.

Dieci minuti più tardi tornò nella camera della bambina portando un vassoio con due tazze di cioccolata e due fette di torta.
Accarezzò teneramente il volto paffuto di Marta.
“Cos’è successo?” chiese la bambina, confusa da quella visita notturna.
“È per te, perché tu sei la parte più importante della mia giornata!” disse dolcemente la mamma.
La bambina sorrise, bevve metà della cioccolata e si riaddormentò.

Brano senza Autore.