Il salame perfetto (La sopressa con il filetto)

Il salame perfetto
(La sopressa con il filetto)

Un contadino, chiamato da tutti Lenin per le sue simpatie rivoluzionarie e per essere un convinto repubblicano, amava festeggiare la ricorrenza del due giugno attorniato da amici.
Nel corso degli anni aveva inaugurato una “nuova” tradizione.

A tutti i partecipanti offriva la sopressa con dentro il filetto, un grande salame tipico del Veneto.

Per la macellazione famigliare del maiale si rivolgeva ad un suo amico norcino, chiamato Messico per i suoi baffi.
Messico alternava il lavoro a diverse bizzarrie, avvenute grazie alla complicità di Bacco.
Gli insaccati dell’anno precedente erano risultati mollicci e un po’ rancidi e, per questa ragione, l’amico Lenin si era lamentato, poiché aveva fatto una brutta figura con i propri amici.
Messico lo tranquillizzò e lo rassicurò, promettendogli che avrebbe superato sé stesso, realizzando una sopressa con il filetto che sarebbe stata ricordata a lungo, per il sapore e per la consistenza al taglio.

Il due giugno ci fu il rituale taglio della sopressa con il filetto, alla presenza degli amici festanti.

Tutti erano in attesa di gustare la nota specialità.
La prima fettina venne annusata ed assaggiata da Lenin che la trovò perfetta, avendo il giusto dosaggio di spezie.
Dopo aver tagliato un’altra fettina, mentre stava tagliando la terza (fettina), Lenin con il coltello trovò un inaspettato ostacolo.
Messico, in un attimo di confusione, aveva inserito nella sopressa la pietra per affilare i coltelli.

Tutti rimasero senza parole, stupiti ed increduli.

La sopressa con il doppio filetto di Messico sopravvisse al taglio, ma fu la causa della fine della sua carriera di norcino.
Però, per il suo grossolano errore, entrò di diritto nella leggenda popolare.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La leggenda del folletto Mazariol

La leggenda del folletto Mazariol

Quasi tutti i bambini hanno paura di qualcosa.
Io, vivendo in un clima famigliare rassicurante, di paure non ne ebbi molte.
Nella stalla della nostra famiglia, molto frequentata in quegli anni per i filò, arrivò un amico di mio padre, reduce della prima guerra mondiale.
Intratteneva tutti noi bambini con giochi e scherzi, ma soprattutto con racconti fantastici.
Una sera ci narrò del folletto Mazariol, personaggio appartenente alle favole del Veneto, famoso per gli eclatanti dispetti.
La sera successiva, in attesa dell’arrivo degli altri partecipanti al filò, mi mandò a comprare un sigaro nella vicina osteria.
Andai volentieri, sia perché dovevo percorrere poco meno di cento metri, sia perché l’oste spesso mi regalava una caramella.
Dopo pochi passi percepì uno strano fischio-fruscio, non ben definito, il quale aumentava quando acceleravo il passo, mentre smetteva quando mi fermavo.

Il buio non mi aiutava a capire.

Ricordando la storia raccontata la sera prima dall’amico di mio padre, pensai fosse il folletto Mazariol, che mi seguiva per punirmi delle mie marachelle.
Allorché mi spaventai tantissimo e tornai al filò ansimante e cadaverico, nonché con il cuore che batteva fortissimo.
Cercai di spiegare agli adulti quello che mi era successo, i quali capirono al volo la motivazione del mio spavento.
La causa del fischio-fruscio era dovuta, semplicemente, allo strofinamento dei pantaloni nuovi di velluto.
L’episodio lo descrissi più avanti in un tema a scuola.
La maestra, allora, ci spiegò che il folletto Mazariol, secondo la leggenda (che oggi si può trovare in Google), avesse perfino sconfitto Attila, il re barbaro degli Unni, ingannando la sua ferocia con i suoi scherzi da folletto, nella splendida cornice delle montagne della Val Belluna, tra fitti boschi e ampi prati.
Era vestito tutto di rosso, compreso il caratteristico copricapo e le scarpe a punta.
Si riparava nei “covoli”, così chiamati i “covi” (ricoveri) per ripararsi nella notte, e nelle grotte, cavità naturali formatesi da erosioni e fenomeni carsici.

Sono tante le narrazioni che lo riguardano.

Tra le più note, quelle che rivelano come si dedicasse alla pastorizia e di come fosse diventato un ottimo “casaro”, tanto da aver inventato la ricotta e il formaggio “Casatella Trevigiana”, omaggiando la terra pianeggiante che lo ospitava durante la transumanza, nei periodi più freddi dell’inverno.
Negli anni aveva trovato un posto bellissimo, di cui era l’unico privilegiato ospite, posto allo sbocco delle montagne.
Era un ampio “covolo”, formatosi come una grotta, lungo il fiume Piave.
Sulla roccia della sponda destra, aveva creato il suo laboratorio ed il suo magazzino, dove riponeva le sue casatelle di formaggio, realizzate con latte crudo.
In quel periodo la fame era tanta e dilagava la pellagra, malattia, questa, che portava allucinazioni e sonno.

Il folletto Mazariol, nonostante tutto era di buon cuore con gli sfortunati, ma terribile e dispettoso con i cattivi.

Infatti, appendeva sui rami degli alberi la casatella per sfamare i più sfortunati.
Però, quasi nessuno la conosceva e i più, credendo fosse un miraggio, vagavano oltre.
Oggi, grazie a lui, la “Casatella trevigiana” è un prodotto DOP (Denominazione di Origine Protetta) e approda nelle migliori tavole.
Il “covolo” abitato dal mitico folletto si presume dia il nome al bellissimo ed ospitale paese Covolo di Piave.
Solo alcune persone, però, conoscono la storia secondo la quale il folletto Mazariol amasse fare il bagno annuale e asciugare i panni sulla Grave di Ciano, dove le acque erano più tranquille.
Una volta fattosi bello raccoglieva i “Mammai” (la “Stipe Pennata” o “Lino delle Fate”) e faceva il romantico con le Fate del Montello, che proprio sulle Grave di Ciano amavano riunirsi per ballare e cantare, incantate dalla bellezza unica del posto.

Brano di Dino De Lucchi

Una colazione da principe

Una colazione da principe

Diversi anni fa, quando non era all’ordine del giorno spostarsi e conseguentemente non era semplice incontrarsi, conobbi mia moglie.
Lei era di Padova mentre io abitavo in provincia di Treviso.
Ci incontrammo, casualmente, poiché entrambi frequentavamo l’associazione CVS (Centro Volontari Sofferenza) che, per statuto, promuove e promuoveva la spiritualità dei malati.
Decidemmo di fare il viaggio di nozze, nel lontano 1984, in una casa per esercizi spirituali nel comune di Re, nella Val Vigezzo, ai confini del Piemonte ed a ridosso della Svizzera, per servire come volontari i disabili.

Io pulivo le camere al mattino e mia moglie serviva a tavola duranti i pasti.

Proprio in quei giorni, venne a mancare Monsignor Luigi Novarese, carismatico fondatore dell’associazione e, i sacerdoti preposti, volarono a Roma per il funerale, raccomandandoci di essere gioiosi, poiché il cielo aveva accolto un nuovo angelo.
Anni dopo, infatti, fu beatificato.
Seguendo le istruzioni, passammo da un silenzio solenne e meditativo ad un approccio diverso, creando più interazioni tra i vari partecipanti.
Trovammo tutti beneficio, ricevendo più di quello che avevamo donato.

Qualche giorno dopo rientrammo a casa, stanchi ma felici.

Essendo arrivati a tarda ora con l’autobus, non riuscimmo ad andare a fare spesa.
La mattina dopo, non appena ci svegliammo, proposi a mia moglie di andare a fare colazione al bar, ma lei mi disse:
“Non preoccuparti, mio principe, ci penso io.
Ad una sola condizione:
ti dovrai alzare solamente quando ti chiamerò io!”
Rimasi, quindi, in camera.

Udivo, però, uno strano ed insistente sbattere.

Il suono proveniva dalla cucina ma non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Alla fine mia moglie mi chiamò per la colazione e con mia sorpresa trovai le fette biscottate imburrate.
Sopra ogni fetta biscottata aveva disegnato un cuore con lo zucchero di canna.
Rimasi sì sorpreso, ma anche perplesso, poiché la sera prima non avevamo burro in casa, e le chiesi come avesse fatto.
Mia moglie mi spiegò che il continuo sbattere che avevo udito, era stato provocato dal fiasco usato per fare il burro in casa.
Fece il burro con la panna ed il latte presenti in casa, con la tecnica dello sbattere, che sua nonna le aveva insegnato.
Mi sentii, in quella circostanza, veramente un principe fortunato e mai colazione fu così buona e gradita.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il genero usurpatore

Il genero usurpatore

Un caratteristico paesello, posto sulla riva destra del fiume Piave ed a ridosso delle colline dell’Asolano, durante la prima guerra mondiale, fu teatro e baluardo del fronte difensivo italiano durante la rovinosa ritirata di Caporetto, venne pesantemente colpito dalle artiglierie Astro-Ungariche.

Difficile e lunga fu la ricostruzione.

Ci fu bisogno dell’intervento dello Stato che assegnò, a delle cooperative venute da fuori, la riparazione dei muri e dei tetti ridotti in macerie.
Tra le laboriose ed esperte maestranze edili, c’erano anche dei baldi giovani e, uno di questi si innamorò, fin da quando la vide, di una ragazza del paese.
Dopo un breve fidanzamento, seguì un matrimonio riparatore, ed il giovane si accasò presso l’abitazione dei suoceri.
Il nuovo arrivato, fin da subito, non rispettò le gerarchie e le tradizioni consolidate e, pensando di essere lui il padrone di casa e dei campi, iniziò a vantarsi senza pudore.
Il suocero, dopo ripetute lamentele ed innumerevoli richiami, gli disse:
“Ragazzo mio, vola basso, sei solo un fortunato ospite!”

Il genero lo prese alla lettera.

Si tagliò con le forbici le ali del cappello e, come segno di sfida, si aggirava in questo modo per il paese, noncurante di poter diventare una macchietta.
Non soddisfatto, una sera, nel tradizionale filò in stalla, davanti agli stupefatti partecipanti sopraggiunti, continuò a vantarsi di essere lui il nuovo padrone, esclamando:
“Ho pure le mucche che ben vedete e le venderemo solo quando lo dirò io!”

Il suocero, stizzito da tali assurde affermazioni, perse le staffe e replicò:

“Se tutto quel che era mio, ora asserisci che sia tuo, prendi anche questo che non può essere disgiunto!”
Terminata la frase, prese una grande manata di sterco fresco di mucca e glielo tirò in piena faccia.
I partecipanti applaudirono alla spettacolare sortita del suocero, nei confronti dello spudorato e ingrato genero che, da quel momento, fu costretto, così malamente conciato, ad abbassare la cresta.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il maestro di tiro con l’arco e gli allievi

Il maestro di tiro con l’arco e gli allievi

Un grande maestro di tiro con l’arco organizzò una gara tra i suoi allievi per valutare il loro grado di preparazione.
Nel giorno fissato, un bersaglio di legno con al centro un cerchio rosso fu legato su un albero ad una estremità della radura.
All’estremità opposta, fu tracciata sul suolo una linea, dietro la quale si piazzarono i concorrenti.
Un giovane avanzò baldanzosamente, impaziente di dimostrare la sua abilità.
Afferrò saldamente l’arco e una delle frecce, poi si sistemò in posizione di tiro.
“Posso tirare, maestro?” chiese.

Il maestro che lo fissava attentamente gli domandò:

“Vedi i grandi alberi che ci circondano?”
“Sì, maestro, li vedo benissimo tutt’intorno alla radura!” rispose il giovane.
“Bene,” rispose il maestro, “torna con gli altri perché non sei ancora pronto.”
L’allievo, sorpreso, posò l’arco e obbedì.
Un secondo concorrente si fece avanti.
Prese l’arco e la freccia e mirò con cura.
Il maestro si portò di fianco all’arciere e gli chiese:
“Puoi vedermi?”
“Sì, maestro, posso vedervi.
Siete qui vicino a me!” replicò il secondo concorrente.
“Torna a sederti con gli altri.” rispose il maestro, “Tu non potrai mai colpire il bersaglio.”
Tutti i partecipanti, gli uni dopo gli altri, afferrarono l’arco e si prepararono a scoccare la freccia, ma ogni volta il maestro poneva loro una domanda, ascoltava la risposta e li rimandava al loro posto.

La folla sorpresa cominciò a rumoreggiare.

Nessuno degli allievi aveva tirato una sola freccia.
Allora si fece avanti il più giovane degli allievi.
Se n’era stato in disparte, silenzioso.
Tese l’arco poi restò perfettamente immobile, gli occhi fissi davanti a lui.
“Vedi gli uccelli che sorvolano il bosco?” gli chiese il maestro.
“No, maestro, non li vedo!” rispose l’allievo.
“Vedi l’albero sul quale è inchiodato il bersaglio di legno?” domandò allora il maestro.
“No, maestro, non lo vedo!” replicò il giovane.
“Vedi almeno il bersaglio?” lo interrogò.
“No, maestro, non lo vedo!” replicò l’allievo.

Dalla folla degli spettatori si levò una risata.

Come poteva quel ragazzo colpire il bersaglio se non riusciva nemmeno a distinguerlo dall’altra parte della radura?
Ma il maestro impose il silenzio e domandò pacatamente all’allievo:
“Allora, dimmi, che cosa vedi?”
“lo vedo un cerchio rosso!” spiegò il giovane.
“Perfetto!” replicò il maestro, “Tu puoi tirare!”
La freccia solcò l’aria sibilando leggera e si piantò vibrando nel centro del cerchio rosso disegnato sul bersaglio di legno.

Brano senza Autore

L’ago perduto

L’ago perduto

In Veneto, fino alla fine degli anni 60, era usanza comune fare una veglia serale, chiamata filò.
Il filò era un vero e proprio rito comunitario, ed il nome, probabilmente, era derivato dal filare la lana o dal tenere il filo del discorso.
Una sera d’estate, la stalla in cui si svolgeva questo evento era particolarmente affollata.

Le ragazze erano affaccendate a ricamare corredi mentre le signore più anziane erano intente a rammendare capi di vestiario.

Gli uomini, invece, mentre confabulavano tra loro del più e del meno, riparavano piccoli attrezzi.
Durante la serata, una giovane di nome Teresa, notando l’arrivo del fidanzatino, si distrasse e non ritrovò più l’ago da ricamo, scatenando il panico tra i partecipanti.
Perdere l’ago, secondo la credenza popolare, portava sfortuna e perderlo in una stalla portava ancora più sfortuna, poiché una mucca avrebbe potuto ingoiarlo provocandone, con la perforazione, una peritonite con esito fatale.

Fu accesa un’altra lampada a petrolio e tutti iniziarono a cercare il benedetto ago.

Il vecchio padrone di casa si mise a imprecare contro Teresa come se fosse cascato il mondo, facendola vergognare.
In questo clima surreale, le donne presenti decisero di creare ancor più tensione, iniziando a recitare i sequeri (forma di preghiera popolare cristiana, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute) in latino.
Giulia, la mia meravigliosa nonna, vista la situazione, interpretò i sequeri a modo suo e, facendo finta di raccoglierlo per terra, mostrò il suo ago ai presenti esclamando:

“Ecco l’ago perso!”

Questo fu sufficiente per far tornare l’armonia in quell’assemblea e, le ombre da molto mosse si chetarono, per far sì che nell’angolo più buio della stalla, i fidanzatini potessero darsi un bacio rubato.
Solo qualche istante dopo Teresa si accorse che il suo l’ago lo aveva avuto, da sempre, appuntato al petto.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il ritratto del Re

Il ritratto del Re

Un giorno il Gran Re di Persia bandì un concorso fra tutti gli artisti del suo vasto impero.
Una somma enorme sarebbe andata in premio a chi fosse riuscito a fare il ritratto più somigliante del Re.
Giunse per primo Manday l’indù, con meravigliosi colori di cui lui solo conosceva il segreto; quindi Aznavor l’armeno, portando una creta speciale; poi Wokiti l’egiziano, con scalpelli e ceselli mai visti e bellissimi blocchi di marmo.

Infine, per ultimo, si presentò Stratos il greco, munito soltanto di un sacchetto di polvere.

I dignitari di corte si mostrarono indispettiti per l’esiguità del materiale portato da Stratos il greco.
Gli altri artisti sogghignavano:
“Che cosa può fare il greco con quel misero sacchetto di polvere?”
Tutti i partecipanti al concorso furono rinchiusi per varie settimane nelle sale del palazzo reale.

Una sala per ogni artista.

Nel giorno stabilito, il Re cominciò a esaminare le opere degli artisti.
Ammirò i meravigliosi dipinti dell’indù, i modelli in creta colorata dell’armeno e le statue dell’egiziano.
Poi entrò nella sala riservata a Stratos il greco.

Sembrava che non avesse fatto niente:

con la sua polvere minuta, si era limitato a smerigliare, levigare e lucidare la parete di marmo della sala.
Quando il Re entrò poté contemplare la sua immagine perfettamente riflessa.
Naturalmente, Stratos vinse il concorso.
Solo uno specchio poteva soddisfare pienamente il Re.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Forse un giorno ci rincontreremo

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Ringraziamenti

Forse un giorno ci rincontreremo
Racconto liberamente ispirato al progetto “Education Against Discrimination”, Erasmus+ Youthpass, Mobility of Youth Workers.

L’altro giorno, all’uscita da un centro commerciale, mentre con un amico stavamo per raggiungere la nostra automobile per rientrare a casa, abbiamo notato una giovane coppia che litigava perché nessuno dei due stava riuscendo ad aprire la loro macchina con il telecomando.
Entrambi erano particolarmente nervosi, ma prima che arrivassimo alla nostra automobile, dopo l’ennesimo tentativo, i due finalmente riuscirono ad aprire la macchina ed ad andarsene.

Questa scena mi fece tornare in mente un episodio di qualche anno fa e, nel tragitto per rientrare a casa, raccontai il tutto al mio amico:

“Qualche anno fa, mi dovetti trasferire per lavoro in una piccola cittadina di montagna del nord Italia.
Mancavano circa dieci giorni al mio rientro a casa e se non ricordo male, era pieno inverno.
Mentre stavo rientrando in albergo, ed ero giunto a poche centinaia di metri di distanza da esso, sopraggiunse un fortissimo temporale e, per ripararmi temporaneamente dall’acqua battente, mi fermai sotto ad un balcone.
Ad un certo punto, non molto lontano da dove mi trovavo, vidi due persone che cercavano di aprire con foga il portellone laterale di un piccolo bus.
Erano letteralmente inzuppati di acqua e, non appena fu possibile, mi avvicinai per cercare di dar loro una mano.
Mi spiegarono che non riuscivano a far scendere i passeggeri, così con buona lena, anche io provai a dar loro supporto per aprire il portellone.
Alcuni minuti e diversi tentativi dopo, finalmente, riuscimmo ad aprire il portellone.

Scesero circa dieci adulti e tre bambini.

Subito dopo, mi avviai verso l’albergo, quando una delle due persone a cui avevo dato una mano, mi raggiunse e mi chiese di unirmi a loro per un veloce coffee break.
Rifiutai, perché non vedevo l’ora di andare a rilassarmi per un po’ in camera, ma avendo capito di essere ospiti dello stesso albergo, mi invitarono ad unirmi a cena con loro.
Accettai, e poco prima del momento della cena, scesi nella hall, dove incontrai il signore conosciuto precedentemente, che si presentò come la guida del gruppo in quella zona, in compagnia di una docente universitaria italiana di meteorologia.
Mi illustrarono le attività che avrebbero dovuto fare in zona e, mi presentarono tutti i partecipanti provenienti un po’ da tutto il mondo.
Del gruppo facevano parte una coppia di donne americane con le loro piccole gemelle di circa cinque anni, una coppia del Marocco con un altro bambino piccolo, un giapponese, un coreano e due giovani ragazze che arrivavano dall’Inghilterra.
A questo variegato gruppo, poco dopo, si aggiunse anche una bellissima ragazza italiana del luogo, che aveva il compito di fare da babysitter ai bambini, soprattutto quando i genitori erano in escursione nelle montagne, ma che sarebbe comunque rimasta con loro per tutto il tempo.

Comunicavano quasi esclusivamente in inglese,

e per me non fu certo semplice riuscire a capire cosa cercassero di dirmi in ogni momento, ma con qualche aiuto e qualche bicchiere di vino, la serata trascorse in modo piacevole.
Mi dissero che erano tutti docenti universitari nelle loro rispettive nazioni e che sarebbero rimasti in quel piccolo paesino per circa quindici giorni, perché volevano capire e studiare quanto le abbondanti piogge influissero sul terreno, che durante la stagione autunnale produceva dei magnifici funghi.
Quella sera ci congedammo, e nei giorni seguenti, la cena multiculturale con tutti loro divenne per me un prerogativa e un momento di convivialità.
Finalmente anche io riuscivo a comunicare un po’ meglio con loro e anche loro iniziarono a parlare con me e a raccontarmi le loro esperienze di vita.
Una domenica andai perfino a fare una escursione con loro.

I giorni che anticiparono la mia partenza trascorsero velocemente.

Ogni tanto, in gruppo andavamo a fare una piacevole passeggiata dopo cena per i borghi del paese, ma in quasi tutte le uscite, ascoltai diverse volte dei brutti commenti riguardanti le persone che erano con me, per via delle loro differenze culturali e fisiche, ma furono comunque delle scene isolate.
Tra le varie cose che notai in quei giorni fu una forte simpatia tra il professore giapponese e la babysitter italiana.
Tutto comunque trascorse in modo tranquillo fino a due sere prima della mia partenza, quando venne organizzato un incontro tra i professori e gli abitanti di quella piccola cittadina, tra cui anche i genitori della ragazza.
Nel susseguirsi dei molteplici interventi della serata, i genitori notarono un feeling tra la loro figlia e il professore, ed il giorno successivo la ragazza fu costretta dai suoi a dimettersi.
Durante la mia ultima sera in loro compagnia regnava un’atmosfera di delusione e sgomento per quello che era accaduto, ma anche quella serata trascorse, e dopo i saluti di rito, rientrai nella mia città.
Ripresa la solita routine quotidiana, mantenni i contatti con quasi tutti i professori che in più di un caso mi invitarono ad andare a trovarli nelle loro rispettive nazioni, ma ancora ad oggi non ci sono andato.”

Terminate queste parole, mi fermai per qualche istante, ed il mio amico mi chiese come mai gli avessi raccontato questa storia…

Dopo questa domanda, continuai con il racconto senza dargli ulteriori spiegazioni:

“In un giorno della scorsa primavera, ricevetti una telefonata da parte del professore giapponese, che dopo le solite domande personali, mi invitò al suo matrimonio in agosto con la ragazza italiana. Rimasi perplesso per qualche istante, ma fui felicissimo per la notizia.
Il 22 di agosto tutti insieme ci rincontrammo.
Erano passati otto anni e mezzo da quando li avevo visti l’ultima volta.
I bambini erano diventati adolescenti e tutti gli altri eravamo invecchiati.
Quando ci ritrovammo, il professore ci mise al corrente del modo in cui era giunto al matrimonio e di come aveva conquistato la sua amata e la sua famiglia.
Tornò in Italia praticamente per una settimana ogni tre mesi subito dopo l’esperienza comunitaria, per vedersi esclusivamente con la sua bella.
Dopo circa tre anni e migliaia di chilometri percorsi tra l’Italia e il Giappone, ebbe il coraggio di tornare nel paese della ragazza per conoscere i suoi.
Nonostante inizialmente fossero un po’ scettici, dopo diversi incontri e il trascorrere di un paio di anni, iniziarono ad apprezzare il professore, ed accettarono che la loro figlia frequentasse quest’uomo.

Così nell’estate precedente a quella attuale, andarono a convivere.

Il professore giapponese mantenne questi suoi viaggi rigorosamente segreti, dato che era rimasto troppo deluso dalla prima reazione dei genitori di lei.
Durante i festeggiamenti, brindammo sia alla nuova coppia di sposi sia all’esserci ritrovati come il gruppo di tanti anni prima.”

Dopo aver terminato il racconto, praticamente sotto casa sua, il mio amico, che nel frattempo era rimasto sorpreso dalla conclusione della storia, mi fece ancora una volta riflettere su quanto nella vita sia importante aiutare gli altri, l’amore e superare i pregiudizi su ogni tipo di discriminazione.

“Una nuova alba è sorta, ma il ricordo non tramonterà.”
Brano di Michele Bruno Salerno
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.

 

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Ringraziamenti

 

Un ringraziamento particolare all’associazione Passepartout.up (Account Facebook), agli organizzatori Edoardo e Biagio ed al trainer del progetto Luca.

Ma soprattutto grazie a tutti voi che avete partecipato:

Afonso, Amjad, Antonia, Barbara, Ben, Brunello, Chaido, Dana, Eva, Giada, Gioia, Giulia, Ioana, Maria, Marisa, Marius, Mihaela, Natacha, Rox, Roxie, Susana, Theoni.