Il sonno perduto per un incubo

Il sonno perduto per un incubo

Un uomo aveva perduto il sonno perché era ossessionato da un incubo.
Appena si coricava, aveva la sensazione che un orribile mostro cominciasse a muoversi sotto il letto.
Trascorreva le ore con le orecchie tese paralizzato dal terrore.

Il medico tentò invano di farlo ragionare.

Gli prescrisse un potente sonnifero.
Ma l’incubo dell’uomo peggiorò.
Un celebre medico gli consigliò l’agopuntura e poi una costosa cura omeopatica.
Niente da fare.
Gli incubi continuavano.
Lo accompagnarono da un illustre psicanalista che gli consigliò una ventina di sedute, abbinate alle migliori tecniche ipnotiche.

La cura iniziò.

Dopo due incontri, però, lo psicanalista non vide più il paziente.
Che cosa era successo?
Possibile che due sole sedute avessero fatto il miracolo?
Incuriosito, il professore cercò il suo paziente e gli chiese notizie.

Tranquillo l’uomo rispose:

“Una sera che mi sentivo particolarmente tormentato dal mio affanno, ne parlai al mio parroco.
Mi ascoltò e mi suggerì di segare le gambe del letto in modo che il materasso appoggiasse sul pavimento.
L’ho fatto e ho ritrovato il sonno e la pace…”

Brano di Bruno Ferrero

La bambola viaggiatrice

La bambola viaggiatrice

Un anno prima della sua morte, Franz Kafka visse un’esperienza insolita.
Passeggiando per il parco Steglitz a Berlino incontrò una bambina, Elsi, che piangeva sconsolata:

aveva perduto la sua bambola preferita, Brigida.

Kafka si offrì di aiutarla a cercare e le diede appuntamento per il giorno seguente nello stesso giardino.
Non essendo riuscito a trovare la bambola, Kafka scrisse una lettera, fingendo che fosse per Elsi da parte di Brigida.
“Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure…”, così cominciava la lettera.

Per molti giorni, Kafka e la bambina si incontrarono:

egli le leggeva queste lettere attentamente descrittive di avventure immaginarie della bambola amata.
La bimba ne fu consolata e quando i loro incontri arrivarono alla fine Kafka le regalò una bambola.
Era ovviamente diversa dalla bambola perduta; in un biglietto accluso spiegò:
“I miei viaggi mi hanno cambiata”.
Molti anni più avanti la ragazza cresciuta trovò un biglietto nascosto dentro la bambola ricevuta in dono.

Diceva:

“Ogni cosa che ami è molto probabile che la perderai, però alla fine l’amore si muterà in una forma diversa!”

Kafka, attraverso questa lettera immaginaria, riuscì a far capire ad Elsi che il vero amore rende liberi e vuole la felicità dell’altro, la paura, al contrario, limita la libertà ed è un sentimento insano e pericoloso.

Brano tratto dal libro “Kafka e la bambola viaggiatrice.” di Jordi Sierra i Fabra

Gli acquisti della Vigilia di Natale (La commessa e la signora)

Gli acquisti della Vigilia di Natale
(La commessa e la signora)

Era la Vigilia di Natale e la commessa non vedeva l’ora di andarsene.
Pensava in continuazione alla festa che l’attendeva appena finito il lavoro.
Sentiva già i mormorii di ammirazione che l’avrebbero accompagnata mentre entrava vestita con l’abito da sera di velluto, con il cavaliere che la scortava…
Quando arrivò l’ultima cliente.
Mancavano solo cinque minuti alla chiusura.
“Non è possibile che venga proprio al mio banco!” pensò.

Finse di non sentire quando quella si schiarì la voce e disse piano:

“Signorina, signorina quanto costano quelle calze?”
“Credo che sul cartellino ci sia scritto 3 euro!” rispose brusca.
“Non ne avete di meno care?” domandò la signora.
“2 euro.” scattò guardando l’orologio.
“Mi faccia vedere quelle meno care, gentilmente.” chiese la signora.
“Spiacente signora, stasera chiudiamo alle 18,30 perché, se non lo sa, oggi è la Vigilia di Natale!” esclamò la commessa.
Siccome non apriva bocca si decise a guardarla.
Era pallida, aveva l’aria affaticata, le occhiaie profonde, non doveva avere neanche 30 anni.
“Ma i miei figli non hanno neanche un regalo.” disse alla fine tutta d’un fiato.
“Fino a stasera non avevo soldi!” spiego la signora.
“Mi dispiace per lei signora!” disse la commessa e se ne andò.
Non giunse fino al fondo del banco.
La donna non aveva detto una parola ma non le riuscì di fare un passo in più.
Quando si voltò notò nei suoi occhi l’espressione più triste che avesse mai visto.

Si ritrovò dietro al banco:

“D’accordo, signora, ma faccia presto!”
Un sorriso le illuminò il volto, e si mise a correre dai calzini ai nastri poi ai giradischi portatili.
Alla commessa quei pochi minuti sembravano lunghi come l’eternità.
Finalmente si decise per alcune paia di calze, per dei nastri colorati, un giradischi portatile e due dischi di fiabe natalizie.
La commessa gettò gli acquisti in un sacchetto e le diede il resto delle 25 euro.
Ormai non c’era più nessuno.
Andò di corsa negli spogliatoi e si infilò in fretta il vestito e corse fuori dal negozio incontro al suo “cavaliere” che l’attendeva in macchina, con il motore acceso.
Fu al terzo semaforo rosso che vide la donna del negozio:
camminava in fretta tenendo stretto contro il suo esile corpo il pacco dei doni per i suoi figli.
Il suo volto, che aveva perduto la patina di stanchezza, era ancora illuminato dal sorriso.
In quel breve istante qualcosa avvenne dentro di lei.

Non vide solo una donna:

vide i suoi quattro bambini che, il mattino dopo, si sarebbero infilati felici le calze nuove, messi i nastri nei capelli e avrebbero ascoltato le favole natalizie sul giradischi nuovo
Dona ora.
Grazie!

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La leggenda della Stella di Natale

La leggenda della Stella di Natale

Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.

Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:

quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.

Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.

La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.

Mancava ugualmente qualcosa.

Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”

Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.

C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.

Brano senza Autore

La misericordia di Dio (Re Milinda)

La misericordia di Dio (Re Milinda)

Il potente re Milinda disse al vecchio e saggio sacerdote:
“Tu dici che l’uomo che ha compiuto tutto il male possibile per cent’anni e prima di morire chiede perdono a Dio, otterrà di rinascere in cielo.
Se invece uno compie un solo delitto e non si pente, finirà all’inferno.

È giusto questo?

Cento delitti sono più leggeri di uno?”
Il vecchio sacerdote rispose al re:
“Se prendo un sassolino grosso così, e lo depongo sulla superficie del lago, andrà a fondo o galleggerà?”

“Andrà a fondo!” rispose il re.

“E se prendo cento grosse pietre, le metto in una barca e spingo la barca in mezzo al lago, andranno a fondo o galleggeranno?” domandò il saggio sacerdote.
“Galleggeranno!” replicò il re.
“Allora cento pietre e una barca sono più leggere d’un sassolino?” chiese allora il sacerdote.
Il re non sapeva che cosa rispondere.

E il vecchio saggio spiegò:

“Così, o re, avviene agli uomini.
Un uomo anche se ha molto peccato ma si appoggia a Dio, non cadrà nell’inferno.
Invece l’uomo che fa il male anche una volta sola, e non ricorre alla misericordia di Dio, andrà perduto!”

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’eremita e l’uomo perduto

L’eremita e l’uomo perduto

C’era una volta un uomo perduto.
Da anni viveva di razzie, rapine, massacri e furti.
Era ferocemente crudele, senza pietà, divorato da una rabbia folle.

Era un uomo perduto, un uomo maledetto.

Un giorno, mentre vagabondava in preda a pensieri di cenere e tormento, gli venne l’idea di far visita all’eremita che viveva in una baracca in cima alla pietraia.
Là non c’era nulla da rubare se non un pagliericcio di foglie secche, ma l’uomo perduto cercava una speranza, un perdono.
Il vecchio eremita lo ascoltò.
Infine gli sorrise e gli mostrò un albero morto dal tronco contorto e calcinato da un fulmine e gli disse:
“Vedi quell’albero morto?
Sarai perdonato quando rifiorirà!”
“Sarebbe come dire mai!” esclamò l’uomo, “Allora a che serve, sant’uomo?

Tanto vale che io torni alle mie rapine.”

Il malvivente ridiscese, imprecando, verso il piano, prendendo a calci le pietre.
Ricominciò la vita di saccheggi e violenze, perché era l’unica cosa che sapeva fare.
Per anni ancora seminò paura, odio e disperazione.
Una sera, mentre cercava un luogo isolato e nascosto per consumare la cena, vide una baracca malandata.
Si affacciò cautamente ad una finestrucola e vide una donna che aveva raccolto i suoi bambini intorno ad una pentolaccia.
La donna cantava una specie di ninna-nanna:
“Dormite, piccoli miei.
Dormite fino a domani.
Mamma vi fa la zuppa.
Dormite ancora un po’.
Dormite fino a domani.”

Il bandito entrò e sollevò il coperchio della pentola.

C’erano solo radici e foglie che bollivano nell’acqua.
L’uomo scosse le spalle poderose, afferrò la pentola e buttò tutto il contenuto dalla finestra.
Tagliò a pezzi la tenera carne dell’agnello che aveva rubato proprio quel giorno.
Ravvivò ben bene la fiamma sotto la pentola e se ne andò, piangendo su tanta miseria.
Quel giorno, l’albero morto fiorì.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Esiste ancora, almeno, una corda

Esiste ancora, almeno, una corda

C’era una volta un grande violinista di nome Paganini.
Alcuni dicevano che era strano.
Altri che era angelico.
Traeva dal suo violino note magiche.
Una sera, il teatro dove doveva esibirsi era affollatissimo.
Paganini fu accolto da un’ovazione.
Il maestro impugnò il violino e cominciò a suonare nel silenzio assoluto.
Brevi e semibrevi, crome e semicrome, ottave e trilli sembravano avere ali e volare al tocco delle sue mani.
Improvvisamente, un suono diverso sospese l’estasi della platea.
Una delle corde del violino di Paganini si ruppe.

Il direttore si fermò.

L’orchestra che accompagnava il violinista tacque.
Il pubblico ammutolì.
Ma Paganini non smise di suonare.
Guardando la partitura, continuò a intessere melodie deliziose con il suo violino.
Ma dopo qualche istante un’altra corda del violino si spezzò.
Il direttore dell’orchestra si fermò.
L’orchestra tacque nuovamente.
Paganini non si fermò.
Come se niente fosse, ignorò le difficoltà e continuò la sua deliziosa melodia.
Il pubblico non si accorse di niente.
Finché non saltò, con un irritante stridio, un’altra corda del violino.
Tutti, attoniti, esclamarono: “Oh!”

L’orchestra si bloccò.

Il pubblico rimase con il fiato sospeso, ma Paganini continuò.
L’archetto correva agile traendo suoni celestiali dall’unica corda che restava del violino.
Neppure una nota della melodia fu dimenticata.
L’orchestra si riprese e il pubblico divenne euforico per l’ammirazione.
Paganini aggiunse altra gloria a quella che già lo circondava.
Divenne il simbolo dell’uomo che sfida l’impossibile.

Libera il Paganini che c’è dentro di te.
Io non so quali problemi ti affliggano.
Può essere un problema personale, coniugale, familiare, non so che cosa stia demolendo la tua stima o il tuo lavoro.
Una cosa la so:

di sicuro non tutto è perduto.

Esiste ancora, almeno, una corda e puoi continuare a suonare.
Impara a scoprire che la vita ti lascerà sempre un’ultima corda.
Quando sei sconfortato, non ti ritirare.
È rimasta la corda della perseveranza intelligente, del “tentare ancora una volta.”
La vita non ti strapperà mai tutte le corde.
È sempre la corda dimenticata quella che ti darà il miglior risultato:
la tua fede, la tua forza interiore, la tua speranza, coloro che ti amano.

Brano senza Autore

Il sole all’orizzonte

Il sole all’orizzonte

Era finito nella rete, il piccolo pesce azzurro, e si dibatteva per trovare una via d’uscita e ritornare al mare.
Inutilmente.

Poi s’accorse di un piccolo buco:

una maniglia allentata nella rete.
Provò a uscire ma il foro era troppo piccolo.
Tuttavia gli permetteva di guardare meglio oltre la barca del pescatore e di quelle terribili reti.
Allora vide il mare con la sua immensa distesa di libertà.
E pensò alle profondità marine da cui proveniva, alla luce che filtrava dalle onde sui coralli della scogliera sommersa.
E agli altri pesci suoi amici, che nuotavano liberi tra le rocce di fondali coperte di alghe.

Quelle alghe che danzavano al ritmo delle correnti…

Era il suo mondo perduto.
Tuttavia, la nuova situazione offriva qualche vantaggio.
Ora poteva guardare il mare da un altro punto di vista e scoprire cose nuove.
Per esempio, l’orizzonte lontano:
era così vasto; e il cielo che copriva il mare con le ultime stelle del mattino:
una visione fantastica!

All’improvviso apparve uno splendore mai visto:

“Ecco,” gridò il piccolo pesce azzurro, fuori di sé per lo stupore, “ecco da dove viene la luce che illumina le profondità del mare!”
Sul filo dell’orizzonte stava sorgendo il sole.

Brano senza Autore

L’ago perduto

L’ago perduto

In Veneto, fino alla fine degli anni 60, era usanza comune fare una veglia serale, chiamata filò.
Il filò era un vero e proprio rito comunitario, ed il nome, probabilmente, era derivato dal filare la lana o dal tenere il filo del discorso.
Una sera d’estate, la stalla in cui si svolgeva questo evento era particolarmente affollata.

Le ragazze erano affaccendate a ricamare corredi mentre le signore più anziane erano intente a rammendare capi di vestiario.

Gli uomini, invece, mentre confabulavano tra loro del più e del meno, riparavano piccoli attrezzi.
Durante la serata, una giovane di nome Teresa, notando l’arrivo del fidanzatino, si distrasse e non ritrovò più l’ago da ricamo, scatenando il panico tra i partecipanti.
Perdere l’ago, secondo la credenza popolare, portava sfortuna e perderlo in una stalla portava ancora più sfortuna, poiché una mucca avrebbe potuto ingoiarlo provocandone, con la perforazione, una peritonite con esito fatale.

Fu accesa un’altra lampada a petrolio e tutti iniziarono a cercare il benedetto ago.

Il vecchio padrone di casa si mise a imprecare contro Teresa come se fosse cascato il mondo, facendola vergognare.
In questo clima surreale, le donne presenti decisero di creare ancor più tensione, iniziando a recitare i sequeri (forma di preghiera popolare cristiana, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute) in latino.
Giulia, la mia meravigliosa nonna, vista la situazione, interpretò i sequeri a modo suo e, facendo finta di raccoglierlo per terra, mostrò il suo ago ai presenti esclamando:

“Ecco l’ago perso!”

Questo fu sufficiente per far tornare l’armonia in quell’assemblea e, le ombre da molto mosse si chetarono, per far sì che nell’angolo più buio della stalla, i fidanzatini potessero darsi un bacio rubato.
Solo qualche istante dopo Teresa si accorse che il suo l’ago lo aveva avuto, da sempre, appuntato al petto.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La misericordia di Dio (La barca che galleggia)

La misericordia di Dio
(La barca che galleggia)

Un potente re chiese al vecchio sacerdote:
“Tu dici che l’uomo che ha compiuto tutto il male possibile per cent’anni e prima di morire chiede perdono a Dio, otterrà di rinascere in cielo.
Se invece uno compie un solo delitto e non si pente finirà all’inferno.

È giusto questo?

Cento delitti sono più leggeri di uno?”
Il vecchio sacerdote replicò al re:
“Se prendo un sassolino grosso così, e lo depongo sulla superficie del lago, andrà a fondo o galleggerà?”

“Andrà a fondo!” rispose il re.

“E se prendo cento grosse pietre, le metto in una barca e spingo la barca in mezzo al lago, andranno a fondo o galleggeranno?” chiese l’anziano sacerdote.
“Galleggeranno!” disse il re.
“Allora cento pietre e una barca sono più leggere d’un sassolino?” domandò il saggio.
Il re non sapeva che cosa rispondere.

Il vecchio saggio spiegò:

“Così, o re, avviene agli uomini.
Un uomo anche se ha molto peccato ma si appoggia a Dio, non cadrà nell’inferno.
Invece l’uomo che fa il male anche una volta sola, e non ricorre alla misericordia di Dio, andrà perduto.”

Brano senza Autore.