La cattedrale del Re Casimiro

La cattedrale del Re Casimiro

Il superbo re Casimiro decise di lasciare un segno della sua munificenza elevando una cattedrale favolosa al centro della città.
Perché il merito della realizzazione fosse tutto e soltanto suo, emanò un decreto per il quale nessuno avrebbe potuto contribuire gratuitamente alla costruzione sotto pena di morte.
“È opera mia e soltanto mia!” proclamava il re.
L’edificio si innalzò splendido e solenne.
Gli operai del re lavoravano a turni massacranti.
E anche le bestie, buoi e cavalli, adibiti al trasporto si accasciavano sfiancati.
Il re fece scolpire una grande lapide di marmo da collocare sulla facciata del duomo:

“Elevato alla gloria di Dio per opera di Re Casimiro!”

La lapide fu murata sotto il rosone.
Il giorno della consacrazione della cattedrale, il re arrivò in testa al corteo dei dignitari.
Un drappo di seta copriva la lapide.
Quando la piazza fu piena di gente festante, davanti al cardinale e al capitolo dei canonici schierati e pronti a benedire, il re fece cenno di togliere il velo della lapide.
Un sussurro di meraviglia percorse la folla, mentre il re diventava livido.

Sulla lapide si leggeva a grandi caratteri d’oro:

“Elevato alla gloria di Dio per opera di re Casimiro e di Teresa!”
Furibondo, il re cercò di far cancellare il nome intruso.
Ogni mattina ricompariva.
Diede ordine di trovare quella Teresa.
Gli portarono davanti una donna dagli abiti modesti che tremando, confessò che una sera, tornando dai campi, aveva visto i cavalli e i buoi stremati e, di nascosto, aveva dato loro un po’ di fieno.

Il re Casimiro capi che il suo desiderio era folle e superbo.

Il Signore stesso aveva scritto sulla lapide il nome della umile donna dal gran cuore.
E quel nome è là ancora oggi, dopo mille anni.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La voce della conchiglia

La voce della conchiglia

Il Re di “Nonsodove”, essendo ormai vecchio, convocò i suoi tre figli:
Valente, forte e risoluto ma arrogante;
Folco, intelligente ma avido e ambizioso;
Giannino, ancora giovane, il volto lentigginoso, svelto e furbo ma oggetto degli scherzi dei fratelli, che non lo stimavano molto.
Il Re disse ai figli:
“È ora che io designi il mio successore al trono.
Voglio bene a tutti e tre e non so chi scegliere.
Pertanto ho pensato che chi di voi mi porterà lo Smeraldo Verde sarà re.”

I figli sentendo quelle parole strabuzzarono gli occhi:

lo Smeraldo Verde era stato il sogno di tutti i cavalieri, ma tutti coloro che avevano cercato di prenderlo erano morti.
Il re allora disse:
“So che vi ho chiesto una cosa molto difficile, per questo ho pensato di darvi qualcosa che vi potrà giovare!”
Dicendo così aprì un contenitore in cui vi erano una spada, un sacchetto di monete d’oro e una conchiglia.
Il re disse ancora:
“Ecco: rappresentano la mia forza, la mia ricchezza, le mie parole: la lama di questa spada non può essere spezzata, chi avrà queste monete d’oro sarà il più ricco della terra e in questa conchiglia ci sono tutte le mie parole, quelle che vi ho detto da quando siete nati ad oggi. Scegliete!”
Valente e Folco si scambiarono un’occhiatina e scelsero secondo le loro inclinazioni, senza badare a Giannino.
Con mossa rapida Valente afferrò la spada fiammeggiante e Folco il sacco di monete.
Giannino prese la conchiglia e se la legò al collo.
Poi tutti e tre partirono.
Valente sul suo focoso destriero; Folco sulla sua carrozza dorata; Giannino a piedi, ma fischiettando.
Lo Smeraldo Verde si trovava nella grotta Ferrea e per raggiungerla bisognava attraversare per prima la foresta abitata dal bandito Molk.
Valente ingaggiò una furibonda battaglia contro i suoi uomini;
Folco gli offrì centomila monete d’oro, mentre Molk ne voleva di più.
Quando giunse Giannino i fratelli erano ancora là, uno a combattere e l’altro a contrattare.

Portò la conchiglia all’orecchio e sentì la voce del padre che gli diceva:

“Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto!”
Giannino preparò una deliziosa bevanda per il bandito e gliela offrì lodando per il suo coraggio e la sua generosità, cosa che mai nessuno gli aveva detto.
Molk, commosso gli chiese cosa volesse in cambio.
Giannino chiese di poter passare con i suoi fratelli attraverso la sua foresta.
Molk glielo concesse.
Giannino portò all’orecchio la conchiglia e sentì ancora la voce del padre:
“Le ore del mattino hanno l’oro in bocca!”
Mentre era ancora notte riprese il cammino; giunse al lago delle tempeste prima dell’alba, quando ancora era ghiacciato e lo poté attraversare.
I fratelli, invece, avendo dormito fino a tardi, quando arrivarono al lago il sole aveva sciolto il ghiaccio e perciò dovettero fare il giro lungo.
Il terzo ostacolo prima della grotta ferrea era la palude della tristezza, immensa e piena d’insidie.
Valente con la sua armatura veniva risucchiato dalle sabbie mobili; la carrozza di Folco si capovolse e tutte le monete andarono a fondo:

tornati indietro, si sedettero ai bordi della palude disperati.

Anche Giannino scivolò tante volte e fu sul punto di temere per la stessa vita, ma ogni volta portava all’orecchio la conchiglia dalla quale gli giungevano le parole del padre che lo guidavano e lo incoraggiavano.
Così riuscì a raggiungere la grotta ferrea e a prendere lo Smeraldo Verde.
Allora, pieno di gioia, gridò:
“Grazie, papà!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il vecchio pescatore e i granchi

Il vecchio pescatore e i granchi

Un vecchio pescatore si era messo accanto una cesta piena di granchi ancora vivi, e si era addormentato!
Un passante lo svegliò:

“Guarda che ti scappano via i granchi!”

Il vecchio, che era un esperto, rispose:
“Niente paura!
Appena un granchio riesce ad arrampicarsi un po’, a lui se ne aggrappa subito un altro e, a questo, se ne attacca un terzo:

così, alla fine, cadono tutti di nuovo nella cesta…

Sono loro stessi a fare in modo che non scappi nessuno!”

Brano senza Autore

Il professore ed il ringraziamento a Dio

Il professore ed il ringraziamento a Dio

Il professor Matthew Henry stava rincasando dall’Università, quando a pochi metri da casa sua si trovò davanti una canna di pistola puntata contro gli occhi.
Dietro la pistola c’era un rapinatore con il volto coperto che gli intimò di consegnargli borsa e portafoglio.

Lo fece e il rapinatore si dileguò rapidamente nell’oscurità.

Ancora spaventato dalla spiacevole esperienza, quella sera si sedette alla scrivania e scrisse questa preghiera:
“Signore, oggi sono stato derubato.

So che devo ringraziarti per molte cose.

Per prima cosa ti ringrazio di non essere mai stato rapinato prima, e in un mondo come questo è quasi un miracolo.
In secondo luogo voglio dirti grazie perché mi hanno portato via solo il portafoglio che, come sempre, conteneva solo pochi soldi, e una vecchia borsa piena di carta.

Ti voglio ringraziare anche, Signore,

perché non c’erano con me mia moglie e mia figlia, che si sarebbero spaventate molto e anche per il fatto che ora non devono piangere per me.
Infine, Signore, voglio ringraziarti in modo particolare, perché io sono stato il derubato e non il ladro.”

Il modo più semplice ed efficace per lottare contro la sofferenza consiste nel non essere noi causa di sofferenza.

Brano tratto dal libro “Dieci motivi per essere cristiani (e cattolici).” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Corri, non esitare! (Senza Rimpianto)

Corri, non esitare!
(Senza Rimpianto)

Che cos’è il rimpianto?
Il rimpianto non è altro che una reazione negativa a comportamenti avuti nel passato.
In poche parole:
È il rendersi conto di una determinata cosa che avremmo voluto fare, ma che non abbiamo mai fatto.
Sono sicura che ognuno di noi rimpiange almeno una cosa nella vita.
Ognuno di noi vorrebbe ritornare indietro nel tempo per dire o fare, cose che non abbiamo mai avuto il coraggio di fare.
Che cosa succederebbe se avessimo la possibilità di correggere le cose?

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“La vita è troppo breve per avere dei rimpianti.” mi disse una donna anziana.
Forse sull’ottantina.
“Come dice, scusi?” chiesi cortesemente come per accertarmi che si stesse rivolgendo a me.
“Mi ricordi me alla tua età.” continuò tenendo lo sguardo fisso davanti a se.
“A quei tempi ero piena di rimpianti… e lo sono tutt’ora.”
E mentre disse l’ultima frase, mi guardò negli occhi abbozzando un sorriso amaro.
La guardai per diversi minuti, senza saper cosa dire.
Poi, quando feci per andar via, ricominciò a parlare.
Presi posto su una delle sedie accanto alla sua, mentre lei cominciò ad avere dei violenti colpi di tosse:

“Tutto bene?

Non deve sforzarsi per…”
Ma mi rassicurò con un gesto della mano e proseguì il suo racconto.
“Quando avevo la tua età avevo questo amico, che poi tanto amico non era.” pronunciò con uno sguardo nostalgico, “A quei tempi non capivo cos’era l’amore.
Pensavo che quello che provavo per lui fosse normale, sai, nei confronti di un amico.”
“E cosa è accaduto?
Quando si è resa conto di amarlo?” mi scoprì a dire ritrovandomi in quanto ha detto.
“Me ne accorsi quando una mattina mi confessò di voler andare a fare il militare.”
“E lei come l’ha presa?
Gli ha confessato di amarlo?”

“Oh, no, tutt’altro!

Mi congratulai con lui.
Non era da tutti voler andare in guerra.
In quel momento, pensai che fosse stupido ma anche maledettamente coraggioso.
Ma non osavo ammettere a me stessa che in realtà non volevo che partisse…” ricominciò a tossire, ma non fermò la narrazione, “Quando arrivò il giorno della partenza non andai a salutarlo, non ne ero in grado.
E quello fu il mio più grande rimpianto, perché lui non tornò più.” concluse con gli occhi lucidi.
Mi alzai bruscamente dalla sedia mentre il cuore cominciò a rimbombarmi nel petto.
L’unica cosa che riuscivo a sentire era il rumore del treno che si stava avvicinando.

“Corri, non esitare!”

Mi disse lei sorridendo come se avesse capito tutto quanto.
Sorrisi a mia volta, consapevole del fatto che se non le avessi dato retta, me ne sarei pentita per il resto della vita.
Feci per correre verso i binari, ma una domanda mi balenò in mente facendomi ritornare sui miei passi:
“Scusi la domanda improvvisa ma posso chiederle perché lei è qui?”
Mi guardò negli occhi, e solo allora notai quanto fossero famigliari.
Mi sorrise e mi disse semplicemente:
“Ogni giorno a quest’ora prendo un treno nella speranza di ricongiungermi con lui.”
E così fu.

Brano di Maddalena Dinu

Quanto costa un biglietto?

Quanto costa un biglietto?

Un mattino, la segretaria stava vendendo i biglietti per l’ultima serata dello spettacolo allestito dalla scuola.
La sera prima avevano registrato il tutto esaurito.
La prima della fila di quel giorno era una madre.
“Penso che sia terribile dover pagare per vedere recitare mio figlio.” annunciò, estraendo il borsellino dalla borsa.
“La scuola chiede una donazione volontaria per contribuire alle spese per la scenografia e i costumi,” spiegò la segretaria, “ma nessuno deve pagare.
Lei può avere tutti i biglietti di cui ha bisogno!”
“Oh, pagherò!” borbottò, “Due adulti ed un bambino.”
E fece cadere un biglietto da dieci.

La segretaria le diede il resto.

In quel momento il ragazzo dietro di lei svuotò sul tavolo la tasca piena di monete.
“Quanti biglietti?” chiese la segretaria.
“Non mi servono i biglietti per vedere lo spettacolo stasera!” disse.
“Voglio solo pagare!” e spinse verso di lei le monete.
“Ma devi avere il biglietto per vedere lo spettacolo di stasera?” chiese la segretaria.
Il ragazzo scosse la testa: “L’ho già visto!”
La segretaria spinse indietro la pila di monetine.
“Se vuoi vedere lo spettacolo con la tua classe non devi pagare.” gli disse, “È gratis!”
“No!” insistette il ragazzo, “Io l’ho visto ieri sera.
Io e mio fratello siamo arrivati tardi.
Non abbiamo trovato nessuno per comprare i biglietti, così siamo entrati!”
Un sacco di gente in mezzo a quella folla era probabilmente entrata.
I pochi volontari presenti non potevano controllare che tutti avessero il biglietto.

Lui spinse nuovamente avanti il denaro:

“Pago adesso per ieri sera!”
Quel ragazzo e suo fratello dovevano essere rimasti in fondo.
Ed essendo arrivati quando il botteghino era già chiuso, probabilmente non avevano nemmeno visto tutto lo spettacolo.
Alla segretaria dispiaceva prendere quei soldi.
Una pila di monetine nelle mani di un ragazzino è di solito il risultato di paghette risparmiate con cura.
“Se il banco dei biglietti era chiuso quando siete arrivati, non potevate pagare!” argomentò allora.
“Questo è quello che ha detto mio fratello!” spiegò il ragazzino.
“Nessuno si accorgerà della differenza.” gli assicurò la segretaria, “Non preoccuparti!”
Pensando che la questione fosse chiusa, spinse di nuovo indietro le monete.

Lui pose la sua mano sulla sua:

“Io conosco la differenza!”
Per un istante le loro mani si unirono in silenzio al di sopra del mucchietto di monete.
Poi la segretaria disse:
“Due biglietti costano sei euro.”
Le monete vennero contate fino alla cifra corretta.
“Grazie!” dissero insieme.
Il ragazzino sorrise, si voltò e se ne andò.

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Lo scoiattolo Bernardo

Lo scoiattolo Bernardo

C’era una volta, nel parco di un vecchio castello, ormai diroccato, una grande, antica e generosa quercia.
Proprio nella quercia, alla biforcazione di due rami, cinque allegri scoiattoli striati avevano costruito la loro casa.
La casa degli scoiattoli aveva sette capaci magazzini, spalancati come bocche di uccellini sempre affamati.
Per tutta l’estate, gli scoiattoli non facevano che correre, giorno e notte, per riempirli di cibarie.
Sapevano che l’inverno era lungo e crudele e dovevano affrontarlo con la dispensa piena, se volevano arrivare a vedere la primavera.

Gli scoiattoli non si riposavano mai:

si davano da fare freneticamente per raccogliere ed ammassare grano e noci, ghiande e bacche.
Lavoravano tutti.
Tutti, tranne Bernardo.
Bernardo era uno scoiattolo dal musetto intelligente, le orecchie da filosofo, il pelame lucente e una bella coda folta.
Ma mentre i suoi compagni correvano avanti e indietro trafelati con le zampine cariche di provviste, se ne stava assorto con il muso all’aria e gli occhi chiusi.
“Bernardo, perché non lavori?” chiesero gli scoiattoli.
“Come, non lavoro?” rispose Bernardo un po’ offeso, “Sto raccogliendo i raggi del sole per i gelidi giorni d’inverno!”
E quando videro Bernardo seduto su una grossa pietra, gli occhi fissi sul prato, domandarono:

“E ora, Bernardo, che fai?”

“Raccolgo i colori!” rispose Bernardo con semplicità, “L’inverno è così grigio!”
Quattro scoiattolini correvano e correvano, sempre più affannati.
I magazzini si riempivano di nocciole e bacche e squisitezze.
Bernardo, invece, se ne stava accoccolato all’ombra di una pianta.
“Stai sognando, Bernardo?” gli chiesero con tono di rimprovero.
Bernardo rispose:
“Oh, no!
Raccolgo parole.
Le giornate d’inverno sono tante e sono lunghe.
Rimarremo senza nulla da dirci!”
Venne l’inverno e quando cadde la prima neve, i cinque scoiattolini si rifugiarono nella loro tana dentro la grande quercia.
I primi giorni furono pieni di felicità.
Gli scoiattolini facevano una gran baldoria, mentre fuori fischiava il vento gelido.

Suonavano le nacchere con i gusci di noce, cantavano e ballavano.

E prima di dormire con il pancino ben pieno si divertivano a raccontare storielle divertenti sugli allocchi allocchiti e sulle volpi rimbambite.
Ma, a poco a poco, consumarono gran parte delle provviste.
I magazzini si vuotarono uno dopo l’altro, finirono le nocciole, poi le ghiande (anche quelle amare), poi le bacche.
Rimasero solo le radici meno tenere.
Nella tana si gelava e nessuno aveva più voglia di chiacchierare.
Improvvisamente si ricordarono dello strano raccolto di Bernardo.
Del sole, dei colori, delle parole.
“E le tue provviste, Bernardo?” chiesero.

Bernardo si arrampicò su un grosso sasso e cominciò a parlare:

“Chiudete gli occhi.
Ora sentite i caldi, dorati raggi del sole che si posano sulla vostra pelliccia; sono lucenti, giocano con le foglie, sono colate d’oro…”
E mentre Bernardo parlava, i quattro scoiattolini cominciarono a sentirsi più caldi.
Che magia era mai quella?
“E i colori, Bernardo?” chiesero ansiosamente, “Chiudete gli occhi!”
E quando parlò dell’azzurro dei fiordalisi, dei papaveri rossi nel frumento giallo, delle foglioline verdi dell’edera, videro i colori come se avessero tanti piccoli campicelli in testa.
“E le parole, Bernardo?”
Bernardo si schiarì la gola, aspettò un attimo, e poi, come da un palcoscenico, disse:
“Nascosto nella corteccia di un albero, nel bel mezzo di una foresta meravigliosa, vive uno scoiattolo dal pelo rosso, lo sguardo brillante e la coda a pennacchio.
Questo straordinario piccolo scoiattolo porta sul capo una corona di noci.

È un genio:

possiede certi poteri e conosce molti segreti.
Quando un coniglietto è ferito da un cacciatore, è il genio scoiattolo che dice qual è la pianta utile per guarire la ferita.
Quando un uccellino si rompe un’ala è il genio scoiattolo che gli applica un supporto di sottili aghi di pino perché possa volare ancora.
Ma la cosa che gli riesce meglio è guarire i cuori malati di tristezza e di paura.”
“Ci vogliono tante coccole, per vivere,” dice il genio scoiattolo, “e tanta tenerezza.
Perché tutte le creature del bosco sono come i fiorellini che appassiscono se non sono baciati dai raggi di sole.
Quando un animaletto è triste, io faccio il raggio di sole.
E lui riapre i petali del suo cuore!”
Quando Bernardo tacque, i quattro scoiattolini applaudirono e gridarono:
“Bernardo, sei un poeta.”
Bernardo arrossì, si inchinò e disse modestamente:
“Lo so, cari musetti!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il sogno di Rodolfo

Il sogno di Rodolfo

Anticamente, quando i genitori volevano inculcare nei figli l’idea che l’uomo, fin dall’infanzia, deve battere le vie della santità, senza lasciare le questioni della religione per la vecchiaia, erano soliti raccontare loro delle storie, come questa.
Il giovane Rodolfo, uomo forte e sano, di bell’aspetto, non immaginava che sarebbe un giorno morto o, per lo meno, pensava questo gli sarebbe accaduto dopo molti e molti anni.
In un freddo pomeriggio di ottobre del 1321, egli si inoltrò in una folta foresta, durante una passeggiata.
Ormai all’imbrunire, avvistò tra gli alberi qualcosa che gli sembrava una parete.
Stanco, si avvicinò e vide che era un’antica cappella abbandonata.
Entrò.

Tutto era in rovina:

vetrate rotte, banchi capovolti, polvere accumulata, pipistrelli, ecc.
Per lo meno, pensò, ci sono le pareti ed un tetto, è meglio che niente.
Unendo alcuni banchi, improvvisò dunque un letto e, esausto com’era, si addormentò in un baleno.
A notte fonda fu svegliato da un suono di campane.
Estremamente sorpreso, si sfregò bene gli occhi, non riuscendo a credere a quello che vedeva:
la piccola cappella era illuminata e piena di fedeli.
Sull’altare, un sacerdote stava celebrando la Messa.
Vicino al presbiterio, c’era una bara.
Era dunque una Messa funebre, concluse.
“Mi scusi, signora, ma in memoria di chi è celebrata questa Messa?” chiese.
“Allora non sa chi è morto?
È uno che si è perso in questa foresta, mentre faceva una passeggiata ed è stato trovato morto oggi…

Rodolfo ebbe un sussulto.

Con uno strano presentimento, volle sapere chi fosse quel giovane.
Si avvicinò alla bara, sollevò il velo che copriva il volto del defunto e… sentì un terribile brivido lungo la schiena.
Il morto era lui!
Era ormai invecchiato, certamente, ma non c’era alcun dubbio che era proprio lui quello che si trovava nella bara.
Lanciò un grido di spavento e… si svegliò.
Comprese allora che quel terribile sogno era un avvertimento del cielo: egli sarebbe morto esattamente di lì a 50 anni.
Uscì dalla chiesa e ritornò nella bella casa della sua agiata famiglia, dove era in corso una magnifica festa.
In mezzo all’allegria e ai divertimenti, pensò:
“50 anni è molto tempo.
Vuoi sapere una cosa?

Farò una ripartizione intelligente:

nei primi 25 anni, mi godrò la vita e nei 25 seguenti mi preparerò seriamente alla morte.
Trascorse così 25 anni in divertimenti, viaggi, feste, gite e continua allegria.
Ma… passarono molto rapidamente!
Allora, il Conte decise:
“Guarda, guarda, 25 anni è troppo tempo per prepararsi alla morte, così, i prossimi 15 anni saranno un prolungamento dei 25 anni che sono già passati.
Quando ne mancheranno solo 10, allora sì, mi preparerò seriamente!”
E così accadde… furono altri 15 anni di piaceri, che trascorsero più rapidamente dei 25 anni precedenti.
Ad ogni scadenza, il Conte faceva una nuova “ripartizione intelligente” del tempo restante, giungendo in questo modo, al suo ultimo mese di vita.
Un mese soltanto!
Era, dunque, necessario congedarsi da parenti e amici.
Mandò una lettera a tutti gli amici, invitandoli ad una grande festa.
Dopo 25 giorni, erano tutti riuniti nella sua villa.
Furono tre giorni d’intensa commemorazione.

Gli restavano ora soltanto due giorni!

“Non posso lasciar partire i miei ospiti senza un banchetto di commiato!” pensò il Conte fissando un monumentale pranzo per il 25 ottobre, suo ultimo giorno di vita!
Dopo la festicciola, sentì la necessità di riposare un poco, per poter allora fare una buona confessione.
Mentre era a letto, sentì le prime avvisaglie della morte imminente, chiamò un domestico e, con voce da oltre tomba, lo mandò a chiamare in gran fretta un prete.
Il fedele servitore corse al villaggio vicino, alla ricerca del Parroco.
Nel frattempo Rodolfo, che aveva sprecato i 50 anni di tempo che aveva per prepararsi, cominciò a vedere figure che si muovevano intorno al suo letto, come fossero in attesa del momento di condurlo all’aldilà.
Ansimante, osservava l’ampollina del tempo che stava ormai esaurendosi.
Mancavano appena cinque minuti alla mezzanotte, ed egli udì il rumore del carro che si approssimava, con il prete.

Troppo tardi!

Prima che entrasse il sacerdote, scoccò il primo rintocco delle campane, che annunciavano il nuovo giorno!
Disperato, Rodolfo emise un terribile urlo e… si svegliò veramente.
Con grande sollievo, si rese conto di trovarsi davanti al crocifisso arrugginito della cappella in rovina nel mezzo della foresta, dov’era entrato a riposare poche ore prima.
Non si era trattato che di un sogno.
Ma non di un semplice sogno, no!
Perché il giovane Rodolfo prese sul serio il misericordioso avvertimento.
Da quel momento in poi, seguì con determinazione il cammino della virtù.
Facendo un esame di coscienza quotidiano e la confessione frequente, si mantenne sempre preparato per l’ultimo e più importante giorno della sua vita:
quello del suo incontro con Dio.

Brano senza Autore.

Tre barche in soccorso (La provvidenza)

Tre barche in soccorso
(La provvidenza)

Un prete stava preparando una predica sulla provvidenza, quando sentì un gran boato.
Si affacciò alla finestra e vide della gente che correva avanti ed indietro in preda al panico.
Scoprì che aveva ceduto una diga, il fiume era in piena e stavano evacuando le persone.

Il prete vide che l’acqua saliva dalla strada sottostante.

Fece un po’ fatica a soffocare il panico che lo stava attanagliando, ma disse:
“Sono qui a preparare una predica sulla provvidenza ed ecco che mi si presenta l’occasione per mettere in pratica quello che racconto agl’altri:
Non fuggirò, starò qui e confiderò nella salvezza che mi verrà dalla provvidenza Divina!”
Quando l’acqua raggiunse la sua finestra, arrivò una barca carica di persone.

“Salti dentro, padre!” gridarono.

“No, no figli miei.” replicò il sacerdote con calma, “Confido nella provvidenza di Dio che mi salverà!”
Il padre tuttavia salì sul tetto e, quando l’acqua arrivò fino lassù, passò un’altra barca carica di persone, le quali incoraggiarono il prete a salire.
Ma egli rifiutò di nuovo.
Alla fine dovette arrampicarsi in cima al campanile.
Quando l’acqua gli arrivò alle ginocchia e gli mandarono un pompiere a salvarlo con una barca a motore.
“No, grazie, amico!” egli esclamò con un sorriso tranquillo, “Ho fiducia in Dio, capisce?

Lui non mi abbandonerà!”

Quando il prete annegò e andò in Paradiso, la prima cosa che fece fu di lamentarsi con Dio:
“Mi sono fidato di te!
Perché non hai fatto niente per salvarmi?”
“A dire il vero,” rispose Dio, “ti ho mandato ben tre barche!”

Brano senza Autore

Il filo del ragno e lo strozzino

Il filo del ragno e lo strozzino

Uno strozzino morì.
Per tutta la vita, egoista e spergiuro, aveva accumulato ricchezze sfruttando i poveri e carpendo la buona fede del prossimo.
La sua anima cadde nel profondo baratro dell’inferno, che le avvampò tutt’intorno.

Gridò allora:

“Giudice supremo delle anime, aiutami.
Concedimi una sosta, fa sì che ritorni sulla terra e ponga rimedio alla mia condanna!”
Il Giudice supremo lo udì e chinandosi dall’alto sul baratro dell’inferno chiese:
“Hai mai compiuto un’opera buona, in vita, cosicché ti possa aiutare adesso?”
L’anima dello strozzino pensò a tutto quel che aveva fatto in vita, e più pensava e meno riusciva a trovare una sola azione buona in tutta la sua lunga esistenza.

Ma alla fine si illuminò e disse:

“Sì, Giudice supremo, certo!
Una volta stavo per schiacciare un ragno, ma poi ne ebbi pietà, lo presi e lo buttai fuori dalla finestra!”
“Bravo!” rispose il Giudice supremo, “Pregherò quel ragno di tessere un lungo filo dalla terra all’inferno, e così ti ci potrai arrampicare!”
Detto fatto.
Non appena il filo di ragno la toccò, l’anima dello strozzino cominciò ad arrampicarsi, bracciata dopo bracciata, del tutto piena d’angoscia perché temeva che l’esile filo si spezzasse.
Giunse a metà strada, e il filo continuava a reggere, quando vide che altre anime s’erano accorte del fatto e cominciavano ad arrampicarsi anch’esse lungo lo stesso filo.

Allora gridò:

“Andate via, lasciate stare il mio filo.
Regge solo me.
Andatevene, questo filo è mio!”
E proprio in quel momento il filo si spezzò, e l’anima dello strozzino ricadde nell’inferno.
Infatti il filo della salvezza regge il peso di centomila anime buone, ma non regge un solo grammo d’egoismo.

Brano tratto dal libro “L’importante è la Rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.