La leggenda dei “gattini” dei salici

La leggenda dei “gattini” dei salici

Un’antica leggenda, tramandata di generazione in generazione, la cui origine si perde nella notte dei tempi, vede diversi popoli attribuirsene la paternità, vantandosi del proprio luogo natio come teatro dello svolgimento.
Mamma gatta era disperata perché i suoi gattini erano stati gettati da un padrone malvagio nel fiume per sbarazzarsene.

Il padrone aveva dimenticato, però, che i gatti hanno sette vite.

La gattina non aveva dimenticato la sua discendenza dalle antiche divinità Egizie dei gatti sacri, chiamati Mau, e supplicò i salici affacciati sulle sponde del fiume affinché li salvassero.
Li avrebbe ricompensati, grazie ai suoi poteri, con un grande e perpetuo riconoscimento.
I salici allora tesero i rami sul fiume fino a lambire la corrente e cosi i gattini poterono aggrapparsi e salvarsi.

Da quel giorno, i salici non fiorirono più,

ma ancora oggi, durante la primavera, si ricoprono di morbide infiorescenze bianche come il manto dei gattini salvati.
Anche i rami rimasero, da allora, protesi verso acqua.
Tale infiorescenza ancor oggi viene chiamata “gattini.”

In dialetto veneto questa parola diventa “gattici.”

Mi piace pensare che l’origine di tale leggenda sia veneta, e che il mio pensiero non sia del tutto fuori luogo, anche perché lungo i corsi d’acqua della regione, questi alberi dove non nascono spontaneamente, vengono piantati a ricordo di ciò.
Il paesaggio veneto, da questi alberi, ne trae grande beneficio.
I salici, nel corso dei secoli, vennero decantati da diversi poeti e raffigurati da pittori di ogni epoca.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il vecchio mai stato giovane

Il vecchio mai stato giovane

C’era una volta un vecchio che non era mai stato giovane.
In tutta la sua vita, in realtà, non aveva mai imparato a vivere.
E non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.
Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere.
Tutto ciò che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva.
Passava le sue giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il cielo, l’immenso cristallo azzurro che, anche per lui, il Signore ogni giorno puliva con la soffice bambagia delle nuvole.

Qualche viandante lo interrogava.

Era così carico d’anni che la gente lo credeva molto saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza.
“Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?” chiedevano i giovani.
“La felicità è un’invenzione degli stupidi!” rispondeva il vecchio.
Passavano uomini dall’animo nobile, desiderosi di rendersi utili al prossimo.
“In che modo possiamo sacrificarci per aiutare i nostri fratelli?” chiedevano.
“Chi si sacrifica per l’umanità è un pazzo!” rispondeva il vecchio, con un ghigno sinistro.
“Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?” gli domandavano dei genitori.
“I figli sono serpenti!” rispondeva il vecchio, “Da essi ci si possono aspettare solo morsi velenosi!”
Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio che tutti credevano saggio.
“Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell’anima!” gli dicevano.

“Fareste meglio a tacere!” brontolava il vecchio.

Poco alla volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo.
Dal suo angolo squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano neanche gli uccelli, Pessimismo (perché questo era il nome del vecchio malvagio) faceva giungere un vento gelido sulla bontà, l’amore, la generosità che, investiti da quel soffio mortifero, appassivano e seccavano.
Tutto questo dispiacque molto al Signore, che decise di rimediare.
Chiamò un bambino e gli disse:
“Va’ a dare un bacio a quel povero vecchio!”
Il bambino obbedì.
Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia rugosa.

Per la prima volta il vecchio si stupì.

I suoi occhi torbidi divennero di colpo limpidi.
Perché nessuno lo aveva mai baciato.
Così aperse gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.

A volte, davvero, basta un bacio.
Un “Ti voglio bene”, anche solo sussurrato.
Un timido “Grazie.”
Un apprezzamento sincero.
È così facile far felice un altro.
Allora, perché non lo facciamo?

Brano di Bruno Ferrero