L’importanza del latino

L’importanza del latino

Un nipote chiese a suo nonno:
“Nonno, perché dovrei studiare il latino dato che è così ostico e tedioso?”

“Per tante ragioni!

E non solo per quelle scolastiche!” rispose il nonno, che poi proseguì, “Levada durante la prima guerra mondiale si ritrovò (involontariamente) in prima linea.
In tutte le case del paese vennero rimosse le travi portanti e, queste, furono portate via con le tavole, affinché potessero essere usate per costruire delle trincee.
Un contadino più curioso degli altri, negli anni, aveva imparato il latino con l’aiuto del parroco, per capire i classici e le sacre scritture e, inoltre, per poter fare con lui delle dissertazioni in un alone di mistero per gli altri,

che nulla capivano dei loro discorsi.

Erano in tanti a criticarlo, perché, in quel modo, aveva sottratto tempo ai lavori campestri, ma, con il senno di poi, dovettero ricredersi.
Questi, prima di partire per raggiungere il campo profughi approntato per l’occasione, scrisse sulla sua casa, con la carbonella, questa frase in latino:
“In hoc domo, licet abitare, nolite ean vastare!”

(Si può vivere in questa casa, ma senza devastarla!)

Finita la guerra, l’unica casa del borgo a non subire danni fu proprio quella di questo contadino, siccome gli ufficiali, avendo studiato il latino, diedero l’ordine di non toccarla, convinti che il proprietario fosse una nota personalità.
Aver studiato il latino si rivelò fondamentale per questo contadino!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’invito alla tartaruga

L’invito alla tartaruga
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Alla fine di questo racconto, troverete

L’ombrello dimenticato
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Una tartaruga passava in campagna la sua vita tranquilla.
Un giorno le arrivò l’invito di una sua cugina, che abitava in città, perché andasse a trovarla.
Spinta dal desiderio di vedere un po’ di mondo, la tartaruga campagnola accettò l’invito.
La distanza non era molta, non più di un chilometro, ma per la tartaruga era già un bel viaggio.
Si illuse tuttavia di compierlo in breve tempo e solo il mattino dopo si mise in cammino.
“Con il mio passo sicuro e costante,” pensò, “prima di mezzogiorno sarò certamente arrivata.
Giusto in tempo per sedermi a tavola!”
Partì cantarellando.

Cammina, cammina, cammina…

A mezzogiorno la tartaruga aveva percorso appena qualche centinaio di metri.
Quando sentì battere dodici rintocchi ad un campanile, sbottò:
“Che stupido campanile!
Non sarà neppure un’ora che mi sono mossa da casa, e già suona mezzogiorno.
Sono tutti sgangherati questi orologi e i campanari sono ubriaconi!”

Cammina, cammina…

Il sole tramontò e le stelle spuntarono tremolanti, ma la tartaruga non era neanche a metà strada.
Più arrabbiata che mai, si mise ad inveire:
“Il mondo non è più quello di una volta!
Il sole tramonta più presto, le stelle si affacciano fuori orario e le giornate non sono più di ventiquattr’ore!”
E, borbottando, riprese il suo cammino, maledicendo la strada, troppo sassosa e storta.

C’è sempre una buona ragione per pensare male del prossimo…

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“L’ombrello dimenticato”

“Per caso ho lasciato l’ombrello da lei?” mi domandò una signora che abita nella mia zona e che era venuta a trovarmi poco tempo prima.
“Sì.” risposi.
Mi ringraziò molto, poi aggiunse:
“Lei sì che è onesto!
Ho domandato a un sacco di gente se avevo lasciato il mio ombrello a casa loro, e mi hanno tutti risposto di no!”

Brano di Bruno Ferrero

La favola del pesciolino d’oro

La favola del pesciolino d’oro

C’era una volta un pesciolino d’oro, che un bel giorno prese i suoi sette talenti e guizzò lontano, a cercar fortuna.
Non era arrivato tanto lontano che incontrò un’anguilla, che gli disse:

“Psst, ehilà compare, dove te ne vai?”

“Me ne vado in cerca di fortuna.” rispose fieramente il pesciolino d’oro.
“Sei arrivato nel posto giusto!” disse l’anguilla, “Per soli quattro talenti ti puoi comprare questa magnifica e velocissima pinna, grazie alla quale viaggerai a velocità doppia!”
“Oh, è un ottimo affare!” disse estasiato il pesciolino d’oro.
Pagò, prese la pinna e nuotò via più velocemente di prima.
Arrivò ben presto dalle parti di una grossa seppia, che lo chiamò:

“Ehilà, compare, dove te ne vai?”

“Sono partito in cerca di fortuna.” rispose il pesciolino d’oro.
“La hai trovata, figliolo!” disse la seppia, “Per un prezzo stracciato ti posso vendere questa elica, così viaggerai ancora più in fretta!”
Il pesciolino d’oro comprò l’elica con il denaro che gli era rimasto e ripartì a velocità doppia.
Arrivò ben presto davanti a un grosso squalo, che lo salutò:

“Ehilà, compare, dove te ne vai?”

“Sono in cerca di fortuna.” rispose il pesciolino d’oro.
“La hai trovata.
Prendi questa comoda scorciatoia,” disse lo squalo indicando la sua gola spalancata, “così guadagnerai un sacco di tempo!”
“Oh, grazie mille!” esclamò il pesciolino d’oro e si infilò nelle fauci dello squalo, dove venne comodamente digerito.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il “sì” dei facchini

Il “sì” dei facchini

È bello poter raccontare una storia di successo, soprattutto quando la si è vissuta in prima persona.
Tanti anni fa fui ispirato dalla lettura del libro “La valle dell’Eden.” di John Steinbeck.
Seminai il primo campo di fagioli, non seguendo più la tradizioni delle nostre parti.

La nostra usanza si limitava alla coltivazione di un piccolo orticello familiare.

Dovendoli vendere freschi al mercato generale di Treviso, decisi di proporli ad un commerciante che accettò senza entusiasmo, essendo il mercato saturo di fagioli campani e piemontesi.
Dovendo fare la bolla di consegna per il conto vendita, riportavo il peso esatto considerando il calo fisiologico.
Nell’estratto conto della vendita reale, però, trovavo però l’ammanco di diversi kilogrammi e preoccupato feci una indagine, scoprendo che la colpa era dei facchini.
Per consuetudine, questi facevano la provvista quotidiana per uso privato di ortaggi e frutta,

prendendo solo i migliori in assoluto presenti nel mercato.

Invece di arrabbiarmi, li ringraziai di essere comportati come l’Uomo del Monte della nota pubblicità, dato che avevano preferito i miei borlotti.
Promisi loro di regalargli qualche kg di fagioli purché non ne avessero intaccato il peso.
Galvanizzato dalla scoperta che i miei fagioli erano, per bontà e freschezza, i migliori del mercato, decisi di dare loro un nome e li chiamai Levada, proprio come il mio paese.
Stampai le etichette-promo sponsorizzato da una banca locale, riscontrando un immediato successo, anche mediatico.
Non contento, con l’appoggio delle istituzioni fondai la confraternita Borlotto Nano Levada, siccome anche altri miei paesani seguirono il mio esempio.

La Pro Loco istituì la Festa del Borlotto Nano di Levada,

la quale riscontrò un successo di presenze per la qualità dei piatti proposti a tema.
Attualmente durante la festa viene eletta anche Miss Fagiolo. (alla fine del brano la foto dell’autore con l’ultima Miss)
Tutto ovviamente grazie al provvidenziale “si” dei facchini ai miei fagioli, che decretarono così il successo delle mie fatiche, iniziate leggendo un libro ed inseguendo un sogno, ora condiviso con tanti amici.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Nella foto l’autore del brano Dino De Lucchi ed Elena Comazetto, eletta Miss Fagiolo alla XXIII Festa del Borlotto Nano di Levada.

Il vecchio ed il sorriso

Il vecchio ed il sorriso

Un vecchio decise che, per un giorno almeno, avrebbe sorriso alla vita; e lo avrebbe fatto in modo concretissimo, dispensando il suo sorriso a tutti.
La sera prima, infatti, aveva letto una frase che lo aveva molto colpito:
“Se non sorridi tu agli altri, come puoi pretendere che gli altri sorridano a te?”
Uscendo di casa, il primo che incontrò fu un cane.

Gli sorrise e ne ebbe un vivace contraccambio:

la bestiola agitò festosamente la coda.
La seconda persona che incontrò fu un bambino.
Il vecchio gli sorrise e il bimbo rimase a guardarlo con occhi spalancati.
“Forse,” pensò il vecchio, “i bimbi d’oggi sorridono così!”
Incontrò poi una giovane donna che, al suo sorriso, volse decisa lo sguardo dall’altra parte.

“Sempre così le donne,” pensò il vecchio,

“dietro un sorriso vedono chissà cosa…”
S’imbatté poi in un gruppo di uomini che stavano discutendo.
Sorrise loro e notò che si guardavano gli uni gli altri facendo strani gesti con la mano.
“Mi hanno preso per un vecchio scemo!” pensò l’anziano pentendosi del suo proposito.
E fu così che, quando vide un vecchio come lui uscir di casa, non gli sorrise affatto.

“Figurarsi se i vecchi rispondono a un sorriso…” pensò.

Rimase invece stupefatto quando costui gli fece un sorriso largo come il sole.
Al sorriso non rispose, e fece male.
Non poteva sapere che quel vecchio si era proposto, proprio come lui, che quel giorno avrebbe sorriso alla vita; e ignorava che, diversamente da lui, aveva avuto in sorte, uscendo di casa, d’incontrare non un cane, ma un vecchio.

Brano senza Autore.

Il brodo della gallina

Il brodo della gallina

La famiglia è sempre stata il pilastro della società, anche se in questo momento storico è sottoposta a tante, troppe, disgregazioni.
E, sfortunatamente, oggi assistiamo a tanti odiosi e criminali femminicidi.
Le problematiche di un tempo erano diverse, ma la società non era immune da difficoltà.
I problemi erano celati e soppressi dalla società patriarcale,

che si basava su rigide regole in gran parte sfavorevoli alle donne.

Fiorella viveva all’interno di una di queste ed era, come le donne bibliche, criticata e compatita, dato che non riusciva ad avere figli.
Riuscì comunque a rimanere incinta, prima di iniziare ad invecchiare, ed a partorire una bellissima bambina.
Secondo la tradizione veneta, i parenti più stretti dovevano regalare alla neo mamma una gallina, rigorosamente nera, affinché la mangiasse, in modo da riprendersi il più in fretta possibile dalle fatiche del parto per tornare celermente a lavorare nei campi.
Una sua cognata, invece,

ne portò una volutamente bianca e disse alla puerpera:

“Cognata cara, noi ci conosciamo bene e da tanto tempo.
So che tu sei fin troppo moderna e trasgressiva.
Quindi immagino che non ti offenderai di certo per il colore della mia gallina!”
Fiorella intuì il significato ambiguo e capì di essere stata scoperta.
La bambina, che aveva partorito, non era di suo marito.
Questa non si turbò e replicò:
“Io accetto la tua gallina bianca in deroga alla tradizione solamente se tu, fra qualche giorno, verrai a condividere con me una scodella del suo brodo!”
Quando Fiorella, al tempo stabilito, porse la scodella di brodo fumante alla cognata, questa si lamentò siccome, all’interno della stessa, non erano presenti i classici grandi occhi di grasso, tipici della gallina.

La spiegazione che ne seguì fu sarcastica:

“Hai perfettamente ragione, cognata mia cara, perché ho aggiunto volutamente acqua calda alla tua scodella!
So che tu sei fin troppo tradizionalista nel vedere le cose a modo tuo.
In questo caso, però, meno “occhi” indagatori ci sono, meglio è per il cheto vivere di tutti!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La porta verde

La porta verde

La prima volta successe quando aveva sei anni.
Mentre saltellava nel viale, al centro di un lungo muro bianco, vide una porticina verde.
La porta aveva un’aria invitante.
Sembrava dicesse:
“Aprimi, entra.”
Spalancò la porta ed entrò.
Si trovò di colpo nel giardino più incantevole che avesse mai immaginato.
Tutto era immerso in un profumo esaltante, che dava una sensazione di leggerezza, di felicità e di benessere.
E nei colori c’era qualcosa di magico che li rendeva incredibilmente vividi, perfetti, luminosi.

Sentiva di respirare felicità:

non si era mai sentito così bene.
Quando, la sera uscì, si voltò indietro, ma nel muro, malinconico e screpolato, non c’era più nessuna porta.
A casa raccontò quello che gli era successo, ma nessuno gli credette.
Ogni sera, dopo le preghiere ufficiali, però aggiungeva sempre un’accorata preghiera personale.
Ma per quanto vagabondasse non riusciva più a trovare la porta verde.
Dieci anni dopo, era diventato uno studente modello, diligente e impegnato.
Una mattina, mentre si affrettava verso la scuola, si trovò davanti all’improvviso la sua porta.
L’aveva tanto cercata…
Ma non pensò neppure un istante ad entrare.
Era preoccupato solo di non arrivare a scuola in ritardo.
Tornò il giorno dopo ma non trovò più neanche il muro bianco.
Non rivide più la porta verde fino a ventidue anni.
Proprio il giorno in cui doveva sostenere l’esame più importante dell’Università.

Era combattuto tra due opposte volontà:

entrare nel giardino o affrettarsi per dare il suo esame.
Tentennò un attimo, poi scrollò le spalle e ripartì verso l’università.
Si laureò e cominciò una brillante carriera di avvocato.
La sua porta, ora, era la carriera.
Rivide altre volte la porta verde e il muro bianco.
La prima volta stava correndo all’appuntamento con la ragazza che sarebbe diventata sua moglie.
La seconda volta, dopo altri anni ancora, la porta gli si presentò livida sotto la luce dei fari dell’automobile.
Sentì come un dolore acuto al petto.
Ma proprio quella sera aveva un incontro importantissimo con un noto personaggio politico.
La terza volta (era ormai diventato un famoso deputato), vide la porta con la coda dell’occhio.
Stava passeggiando con il ministro di un paese estero.

La sfiorò quasi…

Era a meno di mezzo metro di distanza, ma non poteva certo sparire in quel momento.
L’avrebbero preso per matto.
E poi figurarsi i giornali!
Passarono altri anni.
La nostalgia del giardino incantato si faceva sempre più forte.
Rimpiangeva le volte che non aveva avuto il coraggio di fermarsi ed entrare nella porta verde.
“La prossima volta entrerò di sicuro…
La prossima volta, qualunque cosa accada, mi fermerò…” continuava a ripetere.
Girava e rigirava per la città.
Ogni volta che intravedeva un muro bianco, il suo cuore raddoppiava i battiti.
Ormai viveva soltanto quella porta verde.
Ma non la ritrovò più.

Brano tratto dal libro “L’allodola e le tartarughe.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il bambino, il medico ed il saggio

Il bambino, il medico ed il saggio

Un vecchio saggio fu invitato a parlare in una parrocchia sulla fiducia in Dio.
La chiesa era affollata di adulti, molto attenti.
In prima fila, seduto sulle ginocchia della nonna, c’era un bambino che giocava con un pezzo di carta in mano.
La sua presenza ispirò al vecchio saggio un paragone e disse:
“Vedete questo bambino?
Questo bambino, come del resto tutti noi, ha paura del medico e dei suoi interventi che spesso sono dolorosi!”
A sostegno della sua tesi si rivolse verso il bambino e disse:

“Come ti chiami?”

“Riccardo!” disse il bimbo.
“Riccardo, quanti anni hai?” proseguì allora il saggio.
“Quattro e mezzo!” rispose fiero agitando la manina.
“È vero che tu hai paura del medico?” domandò allora il saggio.
“No! Io non ho paura del medico!” esclamò il bambino.
Sorpreso dalla risposta, il vecchio saggio insistette:

“Ma come!

Non hai paura del medico quando ti prescrive le medicine amare, quando ti fa la puntura… insomma quando ti fa male?
Non hai paura del medico?”
“No! No! Io non ho paura del medico!” rispose il bambino con maggior forza.
Nel frattempo la nonna osservava preoccupata le repliche del nipotino.
Dopo qualche tentativo andato a vuoto, il vecchio saggio piacevolmente meravigliato dalla reazione del bambino disse:

“Senti, Riccardo.

Saresti contento di venire qui al microfono e dire a me e a tutta questa gente, perché tu non hai paura del medico?”
Riccardo scese dalle ginocchia della nonna, prese il microfono e ad alta voce disse:
“Io non ho paura del medico perché il medico è mio papà!”
Una sonora e gioiosa sorpresa da parte dei presenti accolse l’inattesa risposta.
E la nonna rasserenata confermò:
“Sì, sì. Suo papà fa il medico!”
È il vecchio saggio compiaciuto, rivolgendosi all’assemblea replicò:
“Devo aggiungere altro?
Ora sapete cosa è la fiducia in Dio!”

Brano senza Autore.

Il tesoro nel gelso

Il tesoro nel gelso

Il territorio di Levada è situato lungo il fiume Piave e durante la prima guerra mondiale subì massicci bombardamenti a tappeto da parte dell’artiglieria Austro-Ungarica, che inoltre disseminò il terreno di mine, alcune delle quali rimasero inesplose, e di schegge di granate.

I contadini, nel riprendere i lavori agricoli,

bonificarono i terreni mettendo per comodità i residui bellici dentro i tronchi cavi degli alberi di gelso, utilizzati per l’allevamento del baco da seta, molto in auge in quel periodo.
I gelsi, crescendo, incorporarono il tutto nel loro interno, rendendo il metallo non sempre visibile.
Per la festa della parrocchia era abitudine usare della legna di gelso da ardere.
Questo tipo di legna, per la presenza di nodi e di metalli, era tra le più difficili da tagliare, anche perché, con molta facilità, venivano rotte accette e seghe.
Il parroco, per poter comunque avere questa legna per la festa, faceva affidamento su dei volontari, i quali si arrendevano quasi subito, o per la fatica immane, o lamentando strappi alla schiena, o che,

per giustificarsi del ritiro, rompevano volutamente il manico delle accette.

Dopo diverse ricerche, solamente un parrocchiano accettò di portare a termine il lavoro.
Non a caso era il balordo del paese, che pretese in cambio un fiasco di vino e la deroga di dire in libertà qualche imprecazione non tanto ortodossa, strappando inoltre l’accordo di tenere per se tutto il metallo presente nei tronchi, che avrebbe separato dalla legna, in modo da poterlo vendere.
Questo buon uomo era anche motivato da una leggenda ascoltata in osteria.
Secondo questa leggenda, i gelsi non celavano solo schegge di granate ma anche un tesoro nascosto da un ladro, il quale, dopo la sua rocambolesca fuga, non tornò più a riprenderlo.

La sorte fu benigna con l’intraprendente taglialegna,

infatti trovò all’interno dell’ultimo tronco il tesoro, composto da un bel po’ di sonanti monete d’argento.
Tutto ciò accadde sotto gli occhi stupefatti del parroco, che come da accordi precedentemente presi, confermò allo spaccalegna che tutto il metallo fosse suo, dicendo:
“Con i miei occhi ho visto qualcosa che mi ha fatto ripensare alle Sacre Scritture.
Così come la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo, così il tronco che nessuno voleva spaccare è diventato per te un tesoro meritato!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Babbo Natale anche a Pasqua

Babbo Natale anche a Pasqua

Ero un bambino di 4 o 5 anni, quando, una sera di dicembre di diversi anni fa, mia madre invito me ed i miei fratelli a recitare una preghiera speciale, prima di andare a dormire, affinché nevicasse.
In quegli anni mio padre si adattava a qualsiasi lavoretto per non farci mancare il necessario, siccome i pochi campi di cui eravamo proprietari non bastavano a sostenere la nostra famiglia.

Qualora avesse nevicato,

per un paio di giorni avrebbe avuto il lavoro assicurato.
Era chiamato a spalare la neve nella vicina stazione ferroviaria, dove veniva retribuito molto bene.
Il ricavato veniva riservato da nostra madre per trascorrere in modo speciale l’imminente Natale, periodo che coincideva anche con il compleanno di nostro padre.
Pregammo con molta devozione, con la fede pura dei bambini e, come per incanto, caddero subito i primi fiocchi di neve.
Ci addormentammo felici dato che il nostro desiderio era stato esaudito e, nei nostri sogni, il manto cresceva a dismisura.

Al mattino, invece,

restammo molto delusi, visto che non vedemmo la neve per strada.
Una abbondante pioggia durante la notte la fece sparire.
Il Natale che seguì fu comunque bello ed indimenticabile poiché il capostazione assegnò lo stesso due giornate di lavoro a mio padre, in cambio della pulitura della strada e di alcuni piccoli lavoretti all’interno della stazione.
Da quel momento in poi associai sempre la figura del nostro capostazione di allora al ruolo di Babbo Natale.
Nella mia immaginazione di bambino, il capostazione in questione, gli assomigliava anche un po’.

Infatti aveva una folta barba bianca,

possedeva pure lui un berretto, anche se di colore e forma diversi, ed il rosso lo si poteva trovare nella sua paletta.
Pensai fosse Babbo Natale anche nel periodo di Pasqua, perché, casualmente, chiamò mio padre perfino qualche giorno prima di questa festività, per fare manutenzione al piccolo giardino ed ai grandi vasi di fiori della stazione.
Il ricavato si tramutò per noi bambini nell’ennesimo inaspettato regalo; ricevemmo infatti quaderni e colori.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno