Il gelato, il ragazzino e la cameriera

Il gelato, il ragazzino e la cameriera

Ai tempi in cui un gelato con sciroppo e frutta costava molto meno, un ragazzino di dieci anni entrò nel bar di un albergo e si sedette a un tavolo.
Una cameriera mise un bicchiere di acqua davanti a lui.
“Quanto costa un gelato con sciroppo e frutta?” chiese il ragazzino.

“50 centesimi.” replicò la cameriera.

Il ragazzino tirò fuori la mano dalla tasca ed esaminò il numero di monete che aveva.
“Quanto costa una porzione di gelato normale?” s’informò.
Alcune persone stavano cercando un tavolo e la cameriera era un po’ impaziente.
“35 centesimi.” disse bruscamente.

Il ragazzino contò ancora le monete.

“Prendo il gelato normale.” disse.
La cameriera portò il gelato, mise il conto sul tavolo e se ne andò.
Il ragazzo finì il gelato, pagò al cassiere e se ne andò.

Quando la cameriera ritornò,

iniziò a pulire il tavolo e rimase di stucco per quello che vide.
Accanto al piatto vuoto, messi ordinatamente, c’erano 15 centesimi, la sua mancia.

Brano tratto dal libro “L’importante è la Rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Sono grata per…

Sono grata per…

Sono grata per mio marito, che si lamenta, quando la sua cena non è pronta, perché è a casa con me.
Per mia figlia, che si sta lamentando, perché deve lavare i piatti, perché questo significa che è a casa e non per strada.

Per le tasse che pago, perché questo significa che ho un impiego.

Per il caos da pulire dopo una festa, perché questo significa che sono stata circondata da amici.
Per i vestiti che sono stretti, perché questo significa che ho abbastanza da mangiare.
Per la mia ombra che mi guarda lavorare, perché questo significa che sono fuori, al sole.
Per il prato che ha bisogno di essere tagliato, le finestre che hanno bisogno di essere pulite e le grondaie che hanno bisogno di essere aggiustate,

perché questo significa che ho una casa.

Per tutte le lamentele che sento sul governo, perché questo significa che abbiamo libertà di parola.
Per il parcheggio che trovo lontano da casa, perché questo significa che posso camminare e che sono stata benedetta con un mezzo di trasporto.
Per la cara bolletta del riscaldamento, perché questo significa che sono al caldo.
Per la donna che sì seduta dietro di me in chiesa, che canta stonata,

perché questo significa che posso sentire.

Per il mucchio di vestiti da stirare, perché questo significa che ho vestiti da indossare.
Per la stanchezza e i muscoli che mi fanno male alla fine della giornata, perché questo significa che ho potuto lavorare duramente.
Per la sveglia che suona presto di mattina, perché questo significa che sono in vita.
E finalmente, per questa lettera, perché questo significa che ho amici che stavano pensando a me!

Brano tratto dal libro “Piccole storie per riflettere.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Aspettando Dio

Aspettando Dio

Un giorno un uomo venne a sapere che Dio stava per andare a trovarlo.
“Da me?” si preoccupò, “Nella mia casa?”
Si mise a correre affannato attraverso tutte le camere, salì e scese per le scale, si arrampicò fin sul tetto, si precipitò in cantina.
Vide la sua casa con altri occhi, adesso che doveva venire Dio.
“Impossibile! Povero me!” si lamentava, “Non posso ricevere visite in questa indecenza.

È tutto sporco!

Tutto pieno di porcherie.
Non c’è un solo posto adatto per riposare.
Non c’è neppure aria per respirare!”
Spalancò porte e finestre.
“Fratelli! Amici!” invocò, “Qualcuno mi aiuti a mettere in ordine! Ma in fretta!”
E cominciò a spazzare con energia la sua casa.
Attraverso la spessa nube di polvere che si sollevava, vide uno che era venuto a dargli aiuto.

In due era più facile.

Buttarono fuori il ciarpame inutile, lo ammucchiarono e lo bruciarono.
Si misero in ginocchio e strofinarono vigorosamente le scale e i pavimenti.
Ci vollero molti secchi di acqua per pulire i pavimenti e tutti i vetri.
Pulirono anche la sporcizia che si annidava negli angoli più nascosti.
“Non finiremo mai!” sbuffava l’uomo.
“Finiremo!” diceva l’altro, fiducioso.

Continuarono a lavorare, fianco a fianco, per tutto il giorno.

E, finalmente, la casa pareva messa a nuovo, lustra e profumata di pulito.
Quando scese il buio, andarono in cucina a apparecchiarono la tavola.
“Adesso,” disse l’uomo, “può venire il mio Visitatore!
Adesso può venire Dio.
Dove starà aspettando?”
“Io sono qui!” disse l’altro.
Poi, sedendosi al tavolo, aggiunse: “Siediti e mangia con me!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Aiutare in casa


Aiutare in casa

Un giorno un uomo andò a trovare un amico a casa sua per prendere un caffè insieme.
Seduto con lui in cucina iniziarono a chiacchierare, parlando della vita.
“Vado un attimo a lavare i piatti rimasti nel lavabo.” disse l’amico.
L’ospite lo guardò a bocca aperta, un po’ ammirandolo, ma anche un po’ perplesso e disse:

“Buon per te che aiuti tua moglie!

Quando lo faccio io, mia moglie non lo apprezza.
Ho lavato i pavimenti la scorsa settimana e non ho ricevuto nemmeno un grazie!”
L’amico che si era alzato tornò a sedersi accanto a lui e gli spiegò la sua situazione:
“Amico mio, io non aiuto mia moglie.
Come regola, mia moglie non ha bisogno di aiuto, ha bisogno di un socio.
Io sono un socio in casa e per via di questa società vengono divise le mansioni, ma di certo non si tratta di un supporto nella casa.
Io non aiuto mia moglie a pulire casa, perché ci abito anch’io e bisogna che pulisca anche io.
Io non aiuto mia moglie a cucinare, perché anche io voglio mangiare e bisogna che cucini anche io.

Io non aiuto mia moglie a lavare i piatti dopo cena, perché ho usato questi piatti anch’io.

Io non aiuto mia moglie con i figli, perché sono anche figli miei ed è il mio ruolo essere padre e genitore.
Io non aiuto mia moglie a stendere o piegare i panni, perché sono anche vestiti miei e dei miei figli.
Io non sono un aiuto in casa, sono parte della casa.”
Questi poi fece una domanda all’amico perplesso:
“Quando è stata l’ultima volta che, dopo che tua moglie ha finito di pulire casa, fare il bucato, cambiare lenzuola ai letti, fare la doccia ai figli, cucinare, organizzare… le hai detto grazie?
Ma intendo un grazie del tipo:
WOW! Cara, sei la migliore!”
L’amico colpito, si mise a riflettere su questa considerazione.

L’altro aggiunse ancora:

“Quando tu una volta ogni tanto pulisci per terra, ti aspetti un premio o la gloria?
Perché? Ci hai mai pensato, amico?
Forse perché per te è scontato che tutto ciò sia compito di tua moglie.
Forse ti sei abituato all’idea che tutto questo viene fatto senza che tu debba alzare un dito.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La storiella di una monetina d’argento

La storiella di una monetina d’argento

In una grande città di un lontano Paese esisteva una fabbrica di monete: una zecca.
Un giorno da quella zecca uscì una piccola moneta d’argento che subito cominciò a saltare e, tintinnando, disse:
“Voglio andare per il mondo, voglio vedere tutto ciò che succede nel mondo, lontano da qui!”
E ci andò veramente.
Passò dalle calde manine dei bambini alle fredde e viscide mani degli avari; i vecchi la tenevano stretta stretta, mentre i giovani la rimettevano subito in circolazione, spendendola presto e senza riflettere.
Per caso, un giorno, in un paese straniero, un signore se la trovò fra le mani ed esclamò:
“Toh! Una moneta d’argento del mio paese!” e la rimise nel borsellino insieme alle altre monete.
Lontana dal suo paese, la monetina si sentì estranea in mezzo alle altre e un giorno che il borsellino era aperto, scivolò per vedere cosa succedeva fuori; cadde a terra senza che nessuno si accorgesse di lei.
Dopo qualche ora passò un uomo che la vide, la prese e disse:

“Ma che razza di moneta è mai questa?

Non è delle nostre! È falsa!” e si affrettò a sbarazzarsene.
Incominciò così la sua odissea.
Quelle parole fecero tanto male alla monetina.
Essa sapeva di essere di puro argento e perfetta come conio.
Quelle persone si sbagliavano; non dovevano parlare male di lei e dire che era falsa e non valeva niente.
Un tale che l’aveva avuta per sbaglio disse:
“Appena è buio bisogna che cerchi di darla via.”
E così fece.
Qualcun altro la prese e, di nascosto, riuscì a spacciarla.
Passò di mano in mano.
Un giorno una povera donna che l’aveva avuta in compenso, dopo aver faticato a pulire una casa, non riuscì a darla via e fu per lei una vera disgrazia.

Pensò a come fare:

“Non posso tenere una moneta che non vale niente, la darò al fornaio che saprà come disfarsene.”
Ma il fornaio furbo si accorse che era una moneta fuori corso e non volle accettarla.
La poveretta la riprese e la riportò a casa:
la osservò con gentile delicatezza e disse:
“No! Non voglio più truffare nessuno.
Ma se ci penso bene questa monetina potrebbe essere un portafortuna.
La bambina prese la monetina insieme alla catenina e l’appese al collo.
Il portafortuna riposò tranquillo sopra il petto di una piccola innocente.
La mattina dopo, la madre della piccina la prese in mano e la osservò; staccò la catenina esclamando:
“Che razza di portafortuna: ora vedremo!”

Tuffata nell’aceto la moneta diventò verde.

Allora la donna chiuse il buco con del mastice, la lucidò un po’ e, giunta la sera, col buio, andò a comperare un biglietto della lotteria che, secondo lei, avrebbe dovuto portarle fortuna.
Siccome davanti al botteghino c’era molta gente che comperava i biglietti, quando toccò alla donna, il venditore prese la moneta e la gettò (senza osservarla) insieme alle altre.
Però il giorno dopo, accortosi che era falsa, riuscì a darla via.
Passò molto tempo e la moneta continuò a passare da uno all’altro, sempre malvista:
nessuno si fidava di tenerla.
Dopo tanto vagare senza alcuna meta, capitò fra le mani di un viaggiatore straniero che, prendendola per moneta corrente, volle darla via, ma anche lui si sentì dire:
“Non vale nulla! È falsa!”.
Allora la osservò bene e disse:
“Ma questa è una moneta d’argento del mio Paese, un’onesta moneta nostra. Toh!
Le hanno fatto il buco perché credevano che fosse falsa!
Voglio tenerla ed importarla in patria!”
Finalmente la moneta si sentì dire che era buona e onesta e finalmente sarebbe ritornata a casa!

Brano senza Autore, tratto dal Web