Non aver fretta e non aver paura.

Scegli quello che ti sembra giusto ma, ogni tanto, quando puoi, anche quello che ti fa felice.
Se non ti vengono le parole, lascia che siano i tuoi occhi a parlare.
E impara a leggere gli occhi degli altri, impara a capire quel che non ti dicono.
Non lasciarti fermare dalla paura per fare le cose che devono essere fatte.

Scappa quando devi, fermati quando puoi:

c’è un momento per seminare e un momento per raccogliere:
impara a distinguerli, impara ad assaporare entrambi.
Ascolta il tuo corpo e rispettalo: riposati quando te lo chiede, mangia quando hai fame e ogni tanto ubriacati:
di vino, di amore o di qualche sogno.
Ma soprattutto cerca di sorridere sempre di più.

Citazione di Catherine Black.

Il ritorno dei fiori

Il ritorno dei fiori

Siccome non riusciva più ad accettare la cattiveria degli uomini, il più potente dei maghi aveva lasciato la regione per andare a vivere sulla vetta di un’alta montagna.
Dal giorno della sua partenza, tutti i fiori della prateria, quelli che spuntano sulle colline e nei boschi, quelli che fioriscono sui bordi dei fiumi, sulle rive dei laghi e del mare, appassirono e morirono.
Nessuno sopravvisse.
Il paese divenne un deserto, perché dopo la morte dei fiori, gli uccelli, le farfalle, le api e tutti gli insetti fuggirono lontano.
I vecchi abitanti della regione raccontavano ai bambini la bellezza dei fiori e degli insetti, ma i bambini non ci credevano.

“Sono soltanto storie!” dicevano.

Solo il figlio di una povera vedova credeva che esistessero ancora, da qualche parte, fiori e insetti.
E quando la mamma taceva, reclamava ancora un’altra storia, perché voleva sentir parlare della bellezza dei fiori.
“Ah!” diceva, “Quando sarò grande, andrò a cercare il mago per chiedergli di ridarci i fiori.”
Quando fu cresciuto, la sua passione per i fiori era sempre più forte.
Allora disse alla madre:
“Ho deciso: parto per cercare il mago e domandargli di ridarci i fiori!”
Sua madre, all’inizio si rifiutò di credergli.
“Figlio mio!
Io ti ho raccontato solo delle storie!
Ho sentito mia madre raccontarle, perché le aveva sentite da sua madre.
Ma non bisogna credere a queste storie!
Probabilmente i fiori non sono mai esistiti.
E quanto al mago, nessuno potrà mai ritrovarlo.
La montagna su cui vive è la più alta di tutte le montagne!”
Ma il giovane non la ascoltò neppure e un bel mattino partì.
La gente del paese che lo guardava allontanarsi sorrideva ironicamente.
“È proprio matto!” dicevano, “Bisogna essere pazzi per credere a queste storie!”

E i suoi amici lo prendevano in giro.

Il giovane si diresse a nord.
Camminò per tanto e tanto tempo.
Alla fine arrivò ai piedi di una montagna, così alta, ma così alta che non si intravedeva la cima.
Non si perse di coraggio.
Girò intorno alla montagna, ma non vide nessun sentiero, solo rocce ripide e levigate.
Per tre volte, lentamente, ripercorse la base della montagna.
“Se il mago ha trovato un modo per salire, lo troverò anch’io!” si diceva.
Dopo aver scrutato attentamente ogni più piccolo appiglio, si accorse che ad un certo punto una roccia aveva un’attaccatura, che formava come un minuscolo gradino.
Guardò meglio e poco più in alto ne scoprì un altro.
Si allontanò un po’ e vide che sulla parete della montagna era tracciata una scala che saliva a spirale.
Prese a salire, pieno di entusiasmo, senza mai voltarsi indietro perché aveva paura delle vertigini.
Dopo il primo giorno, la vetta della montagna non si vedeva ancora.

Neppure dopo il secondo e il terzo giorno.

Le forze cominciavano ad abbandonarlo quando, il quarto giorno, si rese conto tutto d’un colpo che la vetta era vicina e, al calar della notte, finalmente, riuscì a raggiungerla.
Poco sotto le rocce della cima gorgogliava una sorgente.
Stremato e assetato, il giovane s’inchinò e bevve l’acqua fresca.
Appena le sue labbra assaggiarono l’acqua tutta la sua stanchezza scomparve.
Si sentì rinvigorito e più forte che mai.
In quel momento, sentì una voce che gli chiedeva che cosa era venuto a cercare.
“Sono venuto,” rispose il giovane, “per chiedere al grande mago di ridarci i fiori e gli insetti.
Un paese senza fiori, senza uccelli e senza api, è triste e senza gioia.
Sono sicuro che gli abitanti del mio paese la farebbero finita con tutta la loro cattiveria se il mago ridonasse loro i fiori.”
Allora il giovane fu sollevato da mani invisibili.
Dolcemente fu portato verso la regione dei fiori eterni, e le mani invisibili lo deposero al suolo nel bel mezzo di un tappeto di fiori di tutti i colori.
Il giovane non credeva ai suoi occhi.

Non li aveva immaginati così belli i fiori!

Un profumo delicato aleggiava nell’aria e i raggi del sole danzavano sui fiori multicolori.
La gioia del giovane fu così grande, che si mise a piangere.
Udì nuovamente la voce che gli disse di cogliere tutti i fiori che preferiva.
Si riempì le braccia di tutti i fiori che riuscì a raccogliere.
Poi le mani invisibili lo risollevarono e lo riportarono sulla cima della montagna.
Allora, la voce gli disse:
“Riporta questi fiori nel tuo paese che solo grazie alla tua fede e al tuo coraggio da questo momento non sarà mai più senza fiori.
Fioriranno dappertutto.
I venti del nord, del sud, dell’est e dell’ovest porteranno la pioggia che sarà il loro nutrimento e le api torneranno per donarvi il miele che esse ricaveranno dai fiori.”
Il giovane ringraziò e iniziò subito la discesa dalla montagna che, malgrado la quantità di fiori che portava, gli parve molto più facile della salita.
Quando gli abitanti del paese lo videro tornare con le braccia cariche di fiori, si misero a respirare il profumo e furono presi dalla voglia di cantare.
Non riuscivano a credere alla loro felicità.

Quando furono certi di non sognare, dissero:

“Ah! Lo sapevamo che i fiori esistevano e che le storie dei nostri vecchi dicevano il vero!”
Il paese ridivenne un grande giardino.
Sulle colline, nelle valli, sui bordi dei fiumi e dei laghi, nei boschi, nei campi, i fiori sbocciarono e si moltiplicarono.
I venti dei quattro punti cardinali si davano il cambio per innaffiarli.
Tornarono gli uccelli e le farfalle, gli insetti ronzanti e soprattutto le api.
Finalmente la gente poté riassaggiare il miele e la gioia tornò a regnare nel paese.
Quando gli uomini videro la loro terra trasformata grazie al giovane che aveva osato ciò che nessuno aveva creduto possibile, gli chiesero di essere il loro re.
Egli accettò e divenne un re buono, coraggioso e intelligente.
“Ricordiamoci sempre,” diceva, “che era stata la cattiveria degli uomini a provocare la scomparsa dei fiori dal nostro paese.”
E siccome nessuno voleva ricominciare ad abitare in un deserto ed essere privato del miele, si sforzavano tutti di essere più buoni che mai.

Brano tratto dal libro “Parabole e storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’alchimista e la pietra filosofale

L’alchimista e la pietra filosofale

C’era una volta un alchimista che aveva dedicato la sua vita alla ricerca della pietra filosofale, la rara pietra che aveva il potere di trasformare in oro gli oggetti di ferro.
“Proverò tutte le pietre della terra, una dopo l’altra.
Troverò certamente la pietra filosofale!” pensava.
In principio, sembrava una cosa semplice.
L’alchimista si era cinto i fianchi con una catena di ferro e aveva cominciato a toccarla con tutte le pietre che trovava.
Camminava e camminava e, appena vedeva una pietra, la prendeva e con essa toccava la sua catena.

Quel gesto era diventato tutta la sua vita.

Passarono gli anni e l’alchimista, con i capelli arruffati, coperti di polvere, il corpo ridotto a un’ombra, le labbra serrate come le porte chiuse del suo cuore, continuava a vagare in cerca della pietra magica.
Tutti ormai lo credevano pazzo.
Un giorno, un ragazzo del villaggio si avvicinò e gli chiese:
“Dimmi, dove hai trovato questa catena d’oro che ti cinge la vita?”

L’alchimista trasalì:

la catena, che una volta era di ferro, era proprio diventata d’oro e splendeva alla sua cintura.
Non era un sogno, ma quando era avvenuto questo mutamento?
Si colpì con violenza la fronte:
dove, oh dove, senza saperlo, aveva raggiunto la sua meta?
Si era ormai abituato a raccogliere pietre e toccare con esse la catena, e poi gettarle via senza guardare se la trasformazione era avvenuta.

Così il povero alchimista aveva trovato la pietra filosofale, e l’aveva perduta…

Tornò sui suoi passi per cercare di nuovo.
Ma ora il suo corpo era più curvo e privo di forze, il suo cuore più stanco e lui come un albero sradicato…

Brano senza Autore

La donna nella caverna

La donna nella caverna

Racconta la leggenda che una donna povera con un bimbo sulle braccia, passando davanti a una caverna udì una voce misteriosa che da dentro le diceva:
“Entra per otto minuti, prendi quanto desideri, ma non dimenticare la cosa più importante.

Ricorda ancora:

quando sarai uscita, la porta si chiuderà per sempre.
Perciò, approfitta della possibilità, ma non dimenticare la cosa più importante!”
La donna entrò nella caverna e vi trovò molte ricchezze.
Affascinata dall’oro e dai gioielli, mise il bimbo per terra e cominciò a raccogliere ansiosamente quanto poteva nel suo grembiule.

La voce misteriosa parlò di nuovo:

“Hai solo otto minuti!”
Passati gli otto minuti, la donna carica d’oro e pietre preziose corse fuori dalla caverna, e la porta si chiuse.
Quando fu fuori si ricordò che il bambino era rimasto dentro la caverna.
Ma la porta era ormai chiusa per sempre.
La ricchezza durò poco e la disperazione per sempre.

Lo stesso avviene spesso con noi.
Abbiamo circa ottant’anni di vita in questo mondo, e una voce sempre ci avverte:
“Non dimenticarti la cosa più importante!”
E la cosa più importante sono i valori spirituali:
la salvezza della nostra anima, la preghiera, la vigilanza, la famiglia, gli amici, la vita, Dio!
Così sprechiamo il nostro tempo quaggiù, e lasciamo da parte l’essenziale:

“I tesori dell’anima!”

E quando la porta di questa vita si chiuderà a niente serviranno i rimpianti.
Viviamo in un modo disperato perché abbiamo “dimenticato la cosa più importante!”

Brano senza Autore

Guarda Pin-hua sull’albero

Guarda Pin-hua sull’albero

C’era una volta un uomo che non sapeva far nulla.
A qualunque lavoro si dedicasse, non combinava che disastri.
C’erano da raccogliere i fichi?
Il cesto di Pin-hua (era questo il suo nome) si rovesciava, quando non era lui stesso a cadere dall’albero.
C’era da andare per legna?
I rami che raccattava Pin-hua erano o marci o ancor verdi, quando non si trattava di qualche insonnolito serpente.

Da intagliare il tek?

Alla larga da Pin-hua, poiché lo scalpello gli s’imbizzarriva in mano e non si sapeva dove andasse a colpire.
Pin-hua, insomma, con la sua inettitudine, era un pericolo non solo per sé ma per tutti; ed egli, che non era uno stupido, era il primo a soffrire di questa situazione.
Stava un giorno seduto sotto l’albero sacro del villaggio, quando gli si avvicinò un monaco:
“A che stai pensando?” gli chiese.
“Al fatto che non so far nulla!” rispose.
“Perché ti preoccupi?” gli disse il monaco, “Se non sai far nulla, fallo bene!”
Allora Pin-hua prese una canna e andò a pescare sul molo.
Naturalmente non prese un sol pesce, perché ruppe subito l’amo.
In compenso, meditò a fondo le parole del monaco e prese la sua decisione.

La notte, si arrampicò sull’albero sacro.

Non ne sarebbe mai più disceso.
La gente, un po’ lo compianse, un po’ ne rise, un po’ si preoccupò:
e se si fosse messo a pregare, che guai avrebbe combinato?
Ma Pin-hua non combinò più alcun guaio:
si limitò ad esserci, nel villaggio.
E poco alla volta la gente cominciò a sentire il beneficio di quella presenza.
“Perché te la prendi tanto?” si diceva a chi si affannava oltre misura, “Guarda Pin-hua sull’albero:
non fa nulla eppure trova sempre chi gli offre una ciotola di riso.”
“Perché litigate tra voi?” si diceva a chi si odiava per un palmo di terra, “Guardate Pin-hua sull’albero:

non ha nulla eppure canta dal mattino alla sera.”

“Perché ti arrabbi coi figli?” diceva la moglie al marito, “Guarda Pin-hua sull’albero:
le formiche lo tormentano persino nel sonno, eppure l’hai mai sentito lagnarsi?”
Ma, soprattutto, quando qualcuno faceva male qualcosa, gli si diceva:
“Perché tanta negligenza?
Guarda Pin-hua sull’albero:
non fa niente, ma lo fa bene.”

Brano senza autore

La leggenda del radicchio di Treviso

La Leggenda del radicchio di Treviso

È biblicamente noto che, durante la permanenza di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, tutte le cose buone erano a portata di mano e non costavano alcun sforzo.
In seguito al peccato originale e ad essere stati allontanati dal paradiso terrestre, i due si trovarono in grosse difficoltà poiché dovevano procurarsi il cibo con fatica e sudore.
Inizialmente Adamo ed Eva erano molto pigri e cercavano di nutrirsi mangiando solamente le cose più vicine e più facili da raccogliere.

Uno dei loro cibi preferiti era il radicchio.

Si narra che originariamente i radicchi erano dolci.
Al buon Dio non piacque questo e mise nei radicchi un po’ di amaro, lasciandogli però tutte le altre proprietà, perché voleva che Adamo ed Eva mettessero un po’ di impegno a cercar dell’altro cibo e variassero la loro dieta per esser sani e idonei a popolar la terra.
Al radicchio a foglia allungata, che era tra i più facili da strappare e raccogliere, toccò la stessa sorte degli altri ma riservò ad esso, se lavorato, di essere al contempo dolce e tenero.
L’uomo ci mise un po’ di tempo a scoprirlo e questo privilegio fu riservato ai Trevigiani che per invettiva e lavoro non sono secondi a nessuno.

Una volta lavorato è il più pregiato e ricercato:

reminiscenza del paradiso terrestre.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le castagne nei ricci

Le castagne nei ricci

C’erano una volta due fratelli che vivevano in campagna con la loro famiglia.
Il più grande un giorno decise di andare a raccogliere delle castagne.
Arrivato nel bosco sotto gli alberi di castagno iniziò a vedere i primi ricci contenenti questo frutto prelibato.
Contò tre castagne in un riccio e dopo essersi messo i guanti per non pungersi, aprì la sua busta in tela ed iniziò a riempirla con i ricci di castagna.

Alla fine del pomeriggio, prima di rientrare a casa contò di aver raccolto 200 ricci.

Appena rientrato a casa invitò tutti i suoi amici per la sera, per far loro assaggiare le sue castagne.
Prima che la serata iniziasse, chiese aiuto al fratello minore per sgusciare i ricci, aprire le castagne e metterle sul fuoco, mentre lui preparava la serata.
Il fratello più piccolo in poco meno di 30 minuti preparò tutte le castagne e iniziò a cucinarle.
Quando gli amici del fratello più grande iniziarono ad arrivare, il più piccolo era seduto di fronte al camino che cuoceva sulla brace le castagne, usando una grande padella.
Appena pronte, le servì agli amici che nel frattempo erano tutti arrivati.

C’erano più di 20 persone sedute intorno al tavolo:

le castagne terminarono in pochissimi minuti, prima di quanto il fratello maggiore avesse previsto.
“Che cosa hai combinato con tutte le castagne che ti ho portato?” esclamò arrabbiato il fratello grande verso il più piccolo.
“Le ho preparate tutte, come mi hai chiesto!” rispose.
“Non è possibile!” esclamò il primo.
“Erano oltre 600 castagne! Siamo in 20.
Avrebbero dovuto esserci almeno 30 castagne per ognuno, invece sono finite subito.
E io nemmeno le ho assaggiate!”

Il più piccolo ribatté spazientito:

“Come fai a dire che mi hai portato 600 castagne? Io ne ho contate meno di 200.”
“Non è possibile!” replicò il fratello maggiore “Ho aperto un riccio e c’erano ben 3 castagne!”
Il più piccolo sorrise e rispose:
“Se tu avessi aperto anche gli altri 199 ricci ti saresti accorto che solo pochissimi contenevano 3 castagne; qualcuno conteneva 2 castagne; la maggior parte ne conteneva solo una; c’erano anche ricci vuoti e altri che contenevano una castagna marcia!”
Il maggiore dei due fratelli rimase a bocca aperta, riflettendo sul suo errore, cercando le parole da rivolgere ai suoi invitati delusi, per scusarsi con loro.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il professore e gli studenti di sociologia

Il professore e gli studenti di sociologia

Un docente universitario inviò i suoi studenti di sociologia nei quartieri poveri di Baltimora per raccogliere dati sulla situazione sociale di duecento ragazzi.
Gli studenti dovevano scrivere una valutazione sul futuro di ciascun ragazzo.

In ogni valutazione scrissero:

“Non ha possibilità.”
Venticinque anni dopo, un altro docente di sociologia trovò per caso lo studio precedente e incaricò i suoi allievi di compiere un’indagine di controllo per vedere che cosa ne fosse stato di quei ragazzi.
Con l’eccezione di venti di loro che si erano trasferiti o erano morti, si apprese che 176 dei rimanenti 180 avevano ottenuto un successo superiore alla media in qualità di avvocati, medici e uomini d’affari.

Il professore rimase sbalordito e decise di approfondire l’argomento.

Per fortuna tutti gli uomini si trovavano nella zona e il professore fu in grado di domandare a ciascuno:
“Come spiega il suo successo?”
In ogni caso la risposta emozionata fu:

“Merito dell’insegnante!”

L’insegnante era ancora viva, per cui il professore la rintracciò e domandò all’anziana, ma ancora arzilla signora, quale formula magica avesse usato per far uscire quei ragazzi dai bassifondi e dar loro un futuro di successo.
Gli occhi dell’insegnante brillarono e le labbra si incresparono in un lieve sorriso:
“Davvero è molto semplice.” disse, “Ho voluto bene a quei ragazzi!”

Brano tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima. Volume I” di Jack Canfield e Mark Victor Hansen

Salvati dai cardi

Salvati dai cardi

Il cardo non è certamente un fiore che la gente ama raccogliere.
Non è molto bello e ha le foglie coperte di spine che producono delle punture dolorose.
Ma il brutto e spinoso cardo è una pianta venerata in Scozia.
E questo perché una vecchia leggenda scozzese racconta che i cardi salvarono

un re scozzese ed i suoi sudditi dai Vichinghi.

I Vichinghi erano feroci guerrieri che venivano dalla Scandinavia.
Navigavano alla volta di terre straniere e assalivano città e castelli.
Spesso uccidevano tutti gli abitanti, rubavano tutte le ricchezze e incendiavano case, campi, pagliai, ogni cosa.
Racconta la leggenda che più di mille anni fa approdarono in Scozia alcuni Vichinghi.

Durante la notte circondarono il castello del re.

Tutti al castello dormivano profondamente e non si erano accorti che i Vichinghi si preparavano ad attaccare.
Il castello era circondato da un fossato largo e profondo che, solitamente, era pieno d’acqua; perciò i Vichinghi si levarono i calzari per attraversare a guado il fossato.
Purtroppo, a causa del buio, non avevano notato che il fossato non era pieno d’acqua:

era asciutto ed era coperto da migliaia di cardi spinosi!

Quando misero i piedi nudi sui cardi i Vichinghi urlarono di dolore.
Le loro urla svegliarono gli abitanti del castello che riuscirono a sconfiggerli e a scacciarli dalla loro terra.
Oggi il cardo è l’emblema nazionale di Scozia.

Leggenda Scozzese.
Brano senza Autore, tratto dal Web

L’asino ed i pesi “invisibili”

L’asino ed i pesi “invisibili”

C’era una volta un asino che con il suo padrone saliva ogni giorno su per la montagna a raccogliere il legname.
Un giorno come tanti altri, raggiunta la cima il padrone iniziò a raccogliere la legna e la caricò sull’asino.

Quel giorno però decise di scendere da un sentiero di montagna che non frequentava spesso.

Percorrendo il tragitto trovò a terra un pezzo di legno e decise di aggiungerlo al carico dell’asino, pensando che un solo piccolo pezzo non potesse fare tanta differenza.
Scendendo verso valle, trovò nuovamente altri pezzi di legno isolati,

che ogni volta raccoglieva e aggiungeva al carico del povero asino,

pensando ogni volta che un poco di legna in più non potesse nuocere all’asino.
Finché ad un certo punto l’asino, esausto, crollò a terra a causa dell’eccessivo peso.
E morì.

Brano senza Autore, tratto dal Web