La strategia del doppio

La strategia del doppio

Un giovanotto si era invaghito di una bella ragazza di un paese vicino.
L’aveva notata per la prima volta durante una sagra paesana, e questo interesse sembrava essere ricambiato.

Decise di andare a farle visita durante il filò nella sua casa colonica.

(“Far filò” voleva dire discorrere del più del meno di sera, tra vicini di casa, tra “contraenti”, cioè abitanti nello stesso gruppo di case, tra gruppetti di persone, tra parenti e amici.”)
In questa occasione, chiese informazioni ed apprese che il padre avrebbe concesso la mano della figlia prediletta solamente a chi le garantisse una sicurezza economica e a colui che avesse dimostrato anche grandi doti umane.
Per verificare ciò, lo spasimante sarebbe stato sottoposto ad un serrato interrogatorio.

Il ragazzo decise, allora, di portare con se un suo fidato amico per fargli da spalla.

Alle domande del padre circa casa, campi, animali, etc, avrebbe dovuto replicare che tutto era il doppio di quanto affermava.
L’“interrogatorio” procedette bene, il padrone di casa era sodisfatto dell’umiltà del giovane ma anche della sua consistenza economica.
Stava per congedarsi, soddisfatto del successo, quando emise un colpo di tosse ed il padre della ragazza chiese:

“Raffreddore?”

L’amico non attese la risposta e replicò con la tecnica del doppio, per fargli fare bella figura:
“No, sta giusto per morire!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’ombrello giallo

L’ombrello giallo

C’era una volta un paese grigio e triste, dove, quando pioveva, tutti gli abitanti giravano per le strade con degli ombrelli neri.
Sempre rigorosamente neri.
E sotto l’ombrello tutti avevano una faccia aggrondata e triste.
Come, del resto, è giusto che sia sotto un ombrello nero.
Ma un giorno che la pioggia scrosciava, proprio nell’ora di punta, si vide circolare un signore un po’ bizzarro che passeggiava sotto un ombrello giallo.
E come se non bastasse, quel signore sorrideva.
Alcuni passanti lo guardavano scandalizzati e mugugnavano:
“Guardate che indecenza!
E veramente ridicolo con quel suo ombrello giallo.

Non è serio.

La pioggia invece è una cosa seria e un parapioggia deve essere nero.”
Altri montavano in collera e dicevano forte:
“Ma che razza di idea è mai quella di andare in giro con un ombrello giallo?
Quel tipo è solo un esibizionista, uno che vuol farsi notare a tutti i costi.
Non è per niente divertente!”
In effetti non c’era niente di divertente in quel paese, dove pioveva sempre e gli ombrelli erano tutti neri.
Solo la piccola Marta non sapeva che cosa pensare.
Un pensiero le ronzava nella mente:

“Quando piove, un ombrello è un ombrello.

Che sia giallo oppure nero, quello che conta è avere l’ombrello.”
D’altra parte, quel signore aveva proprio l’aria felice sotto il suo ombrello giallo e Marta si chiedeva perché.
Un giorno, all’uscita della scuola, Marta si accorse di aver dimenticato il suo ombrello nero a casa.
Scosse le spalle e si incamminò verso casa a testa scoperta, mentre la pioggia le bagnava i capelli.
Dopo un po’, incrociò l’uomo dell’ombrello giallo che le propose sorridendo:
“Vuoi ripararti?”
Marta esitava:
se accettava e si riparava sotto l’ombrello giallo, tutti l’avrebbero presa in giro, ma poi pensò:
“Quando piove, un ombrello è un ombrello.
Che sia giallo oppure nero, è sempre meglio avere l’ombrello che non averlo per niente!”
Così accettò e si riparò sotto l’ombrello giallo accanto al signore gentile.

E allora Marta capì perché quel signore era sempre felice:

sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più!
C’era un gran sole caldo nel cielo azzurro, e degli uccellini che cinguettavano.
Marta aveva un’aria cosi sbalordita che il signore scoppiò in una risata:
“Lo so!
Anche tu mi prendi per un pazzo, ma voglio spiegarti tutto.
Un tempo, ero triste anch’io, in questo paese dove piove sempre.
Avevo anch’io un ombrello nero.
Ma un giorno, uscendo dall’ufficio, dimenticai l’ombrello e partii verso casa a testa scoperta.
Per strada, incontrai un uomo che mi propose di ripararmi sotto il suo ombrello giallo.
Come te, esitavo perché avevo paura di farmi notare e di rendermi ridicolo, ma poi accettai perché avevo più paura ancora di buscarmi un raffreddore.
Mi accorsi che sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più.
Quell’uomo mi insegnò che le persone erano tristi perché non si parlavano da un ombrello all’altro.
Poi, improvvisamente, l’uomo se ne andò e mi accorsi che avevo il suo ombrello giallo in mano.
Lo rincorsi, ma non riuscii più a trovarlo:

era scomparso.

Ho conservato l’ombrello giallo e il bel tempo non mi ha più lasciato.”
Marta esclamò:
“Che storia!
E non sente imbarazzo a tenersi l’ombrello di un altro?”
Il signore rispose:
“No, perché so bene che questo ombrello è di tutti.
Quell’uomo l’aveva senza dubbio ricevuto anche lui da qualche altro.”
Quando arrivarono davanti alla casa di Marta, si dissero arrivederci.
Marta allora si accorse di tenere in mano l’ombrello giallo, ma il signore gentile era già scomparso.
Così Marta conservò l’ombrello giallo, ma sapeva già che quell’ombrello speciale avrebbe ben presto cambiato proprietario e sarebbe passato in tante altre mani, per riparare dalla pioggia tante altre persone e portare loro il bel tempo.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero