Il ritorno dei fiori

Il ritorno dei fiori

Siccome non riusciva più ad accettare la cattiveria degli uomini, il più potente dei maghi aveva lasciato la regione per andare a vivere sulla vetta di un’alta montagna.
Dal giorno della sua partenza, tutti i fiori della prateria, quelli che spuntano sulle colline e nei boschi, quelli che fioriscono sui bordi dei fiumi, sulle rive dei laghi e del mare, appassirono e morirono.
Nessuno sopravvisse.
Il paese divenne un deserto, perché dopo la morte dei fiori, gli uccelli, le farfalle, le api e tutti gli insetti fuggirono lontano.
I vecchi abitanti della regione raccontavano ai bambini la bellezza dei fiori e degli insetti, ma i bambini non ci credevano.

“Sono soltanto storie!” dicevano.

Solo il figlio di una povera vedova credeva che esistessero ancora, da qualche parte, fiori e insetti.
E quando la mamma taceva, reclamava ancora un’altra storia, perché voleva sentir parlare della bellezza dei fiori.
“Ah!” diceva, “Quando sarò grande, andrò a cercare il mago per chiedergli di ridarci i fiori.”
Quando fu cresciuto, la sua passione per i fiori era sempre più forte.
Allora disse alla madre:
“Ho deciso: parto per cercare il mago e domandargli di ridarci i fiori!”
Sua madre, all’inizio si rifiutò di credergli.
“Figlio mio!
Io ti ho raccontato solo delle storie!
Ho sentito mia madre raccontarle, perché le aveva sentite da sua madre.
Ma non bisogna credere a queste storie!
Probabilmente i fiori non sono mai esistiti.
E quanto al mago, nessuno potrà mai ritrovarlo.
La montagna su cui vive è la più alta di tutte le montagne!”
Ma il giovane non la ascoltò neppure e un bel mattino partì.
La gente del paese che lo guardava allontanarsi sorrideva ironicamente.
“È proprio matto!” dicevano, “Bisogna essere pazzi per credere a queste storie!”

E i suoi amici lo prendevano in giro.

Il giovane si diresse a nord.
Camminò per tanto e tanto tempo.
Alla fine arrivò ai piedi di una montagna, così alta, ma così alta che non si intravedeva la cima.
Non si perse di coraggio.
Girò intorno alla montagna, ma non vide nessun sentiero, solo rocce ripide e levigate.
Per tre volte, lentamente, ripercorse la base della montagna.
“Se il mago ha trovato un modo per salire, lo troverò anch’io!” si diceva.
Dopo aver scrutato attentamente ogni più piccolo appiglio, si accorse che ad un certo punto una roccia aveva un’attaccatura, che formava come un minuscolo gradino.
Guardò meglio e poco più in alto ne scoprì un altro.
Si allontanò un po’ e vide che sulla parete della montagna era tracciata una scala che saliva a spirale.
Prese a salire, pieno di entusiasmo, senza mai voltarsi indietro perché aveva paura delle vertigini.
Dopo il primo giorno, la vetta della montagna non si vedeva ancora.

Neppure dopo il secondo e il terzo giorno.

Le forze cominciavano ad abbandonarlo quando, il quarto giorno, si rese conto tutto d’un colpo che la vetta era vicina e, al calar della notte, finalmente, riuscì a raggiungerla.
Poco sotto le rocce della cima gorgogliava una sorgente.
Stremato e assetato, il giovane s’inchinò e bevve l’acqua fresca.
Appena le sue labbra assaggiarono l’acqua tutta la sua stanchezza scomparve.
Si sentì rinvigorito e più forte che mai.
In quel momento, sentì una voce che gli chiedeva che cosa era venuto a cercare.
“Sono venuto,” rispose il giovane, “per chiedere al grande mago di ridarci i fiori e gli insetti.
Un paese senza fiori, senza uccelli e senza api, è triste e senza gioia.
Sono sicuro che gli abitanti del mio paese la farebbero finita con tutta la loro cattiveria se il mago ridonasse loro i fiori.”
Allora il giovane fu sollevato da mani invisibili.
Dolcemente fu portato verso la regione dei fiori eterni, e le mani invisibili lo deposero al suolo nel bel mezzo di un tappeto di fiori di tutti i colori.
Il giovane non credeva ai suoi occhi.

Non li aveva immaginati così belli i fiori!

Un profumo delicato aleggiava nell’aria e i raggi del sole danzavano sui fiori multicolori.
La gioia del giovane fu così grande, che si mise a piangere.
Udì nuovamente la voce che gli disse di cogliere tutti i fiori che preferiva.
Si riempì le braccia di tutti i fiori che riuscì a raccogliere.
Poi le mani invisibili lo risollevarono e lo riportarono sulla cima della montagna.
Allora, la voce gli disse:
“Riporta questi fiori nel tuo paese che solo grazie alla tua fede e al tuo coraggio da questo momento non sarà mai più senza fiori.
Fioriranno dappertutto.
I venti del nord, del sud, dell’est e dell’ovest porteranno la pioggia che sarà il loro nutrimento e le api torneranno per donarvi il miele che esse ricaveranno dai fiori.”
Il giovane ringraziò e iniziò subito la discesa dalla montagna che, malgrado la quantità di fiori che portava, gli parve molto più facile della salita.
Quando gli abitanti del paese lo videro tornare con le braccia cariche di fiori, si misero a respirare il profumo e furono presi dalla voglia di cantare.
Non riuscivano a credere alla loro felicità.

Quando furono certi di non sognare, dissero:

“Ah! Lo sapevamo che i fiori esistevano e che le storie dei nostri vecchi dicevano il vero!”
Il paese ridivenne un grande giardino.
Sulle colline, nelle valli, sui bordi dei fiumi e dei laghi, nei boschi, nei campi, i fiori sbocciarono e si moltiplicarono.
I venti dei quattro punti cardinali si davano il cambio per innaffiarli.
Tornarono gli uccelli e le farfalle, gli insetti ronzanti e soprattutto le api.
Finalmente la gente poté riassaggiare il miele e la gioia tornò a regnare nel paese.
Quando gli uomini videro la loro terra trasformata grazie al giovane che aveva osato ciò che nessuno aveva creduto possibile, gli chiesero di essere il loro re.
Egli accettò e divenne un re buono, coraggioso e intelligente.
“Ricordiamoci sempre,” diceva, “che era stata la cattiveria degli uomini a provocare la scomparsa dei fiori dal nostro paese.”
E siccome nessuno voleva ricominciare ad abitare in un deserto ed essere privato del miele, si sforzavano tutti di essere più buoni che mai.

Brano tratto dal libro “Parabole e storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

I chicchi di frumento

I chicchi di frumento

Erano nati a primavera con i primi raggi del sole in un campo di un luminoso verde tenero!
Tutti nella loro culla, che mamma spiga aveva preparato con cura…
Tanti lettini allineati, che il vento cullava, mentre grilli e cicale cantavano la “ninna nanna”!
Dal verde tenero diventarono di un bel giallo brillante, sempre più grassottelli e chiacchieroni…
Dondolare in cima al lungo stelo della spiga insieme a migliaia di altri chicchi di frumento,
sempre più allegri e rubicondi, era molto divertente!
“Piano, ragazzi!” li ammoniva mamma spiga, “È ora che dimostriate un po’ di maturità:
presto comincerà la mietitura!”
“Che cos’è la mietitura?” chiese allora un chicco.
“È quando cominciate a fare quello per cui siete nati!” rispose la mamma.
In un’assolata giornata di fine Giugno, una grossa macchina rossa passò veloce fra le spighe mature e raccolse i chicchi di grano con la sua grossa bocca spalancata…

“Addio!”

“Arrivederci!”
“Buona fortuna!” si sentiva dire da tutte le parti.
I chicchi di grano furono raccolti in grossi sacchi e poi in enormi depositi!
Addio al sole, al vento, al canto dei grilli…
Nel deposito, era tutto buio!
“Che succederà, adesso?” chiese uno di loro.
Un vecchio topo con gli occhiali che da tempo immemore viveva tra due travi del granaio lo spiegò pazientemente ai più vicini, i quali lo raccontarono a quelli che avevano accanto, e così via…
“La missione dei chicchi di grano è una grande missione!” esordì il vecchio topo, “Seconda, appena, a quella dei topi che, come ognuno sa, sono la razza eletta della Creazione…
Alcuni di voi saranno seminati:
cioè, messi dentro la terra!”
Un brivido passò tra i chicchi.

Poi il vecchio topo continuò:

“Altri saranno macinati!”
Un altro brivido percorse i granelli di frumento.
“Ma diventeranno farina e poi pane profumato o deliziosi biscotti!”
I baffi del topino vibravano di soddisfazione…
Tirò su con il naso e continuò:
“Gli uomini portano il pane a tavola, lo benedicono, lo dividono…
È molto importante per loro: porta gioia, porta la vita!
Sono grandi e grossi grazie al pane… Grazie, a voi!”
I chicchi di grano trattenevano il fiato, coinvolti dalle parole del vecchio topo.
Ora sapevano…
Ed erano orgogliosi della loro missione!
Solo un granello di frumento si lasciò scivolare in fondo al mucchio di chicchi e si nascose in una fessura presente nel pavimento del granaio…
Non voleva essere seminato!
Non voleva morire!
Non voleva essere sacrificato!

Voleva salvarsi…

Non gliene importava niente di diventare pane!
Né di essere portato a tavola!
Né tantomeno di essere benedetto e condiviso…
Non avrebbe mai donato vita!
Non avrebbe mai donato gioia!
Un giorno arrivò il contadino ed iniziò a fare pulizia e, con la polvere del granaio, spazzò via anche l’inutile granello di frumento…

Brano senza Autore

Il sovrano e la meridiana

Il sovrano e la meridiana

Un sovrano orientale portò, da un viaggio in Occidente, una meridiana per i suoi sudditi, che non conoscevano ancora le ore.
Quel regalo singolare cambiò la vita della gente del regno.
I sudditi, guardando la meridiana, impararono rapidamente a dividere la giornata in ore e a suddividere il tempo a loro disposizione.

Diventarono puntuali, ordinati, fidati e diligenti.

Così, in pochi anni, si guadagnarono agiatezza e ricchezza.
Quando il sovrano morì, i buoni e prosperi sudditi vollero erigere un monumento che lo ricordasse degnamente.
E siccome la meridiana era il simbolo della bontà del re e l’origine della loro ricchezza,

pensarono di costruirle intorno un magnifico tempio con una bella cupola dorata.

Quando il tempio fu completato e la cupola d’oro coprì la meridiana, i raggi del sole naturalmente non poterono più raggiungerla.
Quel filo d’ombra che, grazie al sole, aveva segnato il tempo per i cittadini, naturalmente scomparve insieme al punto d’orientamento costituito dalla meridiana stessa.

Alcuni cittadini smisero di essere puntuali,

altri tornarono ad essere poco precisi e altri ancora si scordarono la diligenza.
Ciascuno per la sua strada senza badare al prossimo.
E tutto il regno andò in rovina!

Brano senza Autore

La conchiglia e la beccaccia

La conchiglia e la beccaccia

Su di una spiaggia, una conchiglia si aprì per esporsi ai raggi del sole.
Una beccaccia passò di lì ed allungò il becco a punta con l’intenzione di cibarsi della polpa del mollusco.
La conchiglia, di fronte al pericolo, si richiuse,

imprigionando così il becco dell’uccello.

La beccaccia tentò di liberarsi dalla stretta… inutilmente!
Da parte sua la conchiglia, sempre attaccata al becco del volatile, non rischiava di abbandonare la presa.
Fu così che i due rimasero imprigionati l’uno all’altro.

L’uccello pensava:

“Cederà prima lei, per mancanza di acqua!”
La conchiglia si diceva:
“Aspetterò a liberare il becco, finché lui morirà di sete!”

Ad un certo punto, arrivò un pescatore.

S’impadronì della beccaccia e del mollusco e s’incamminò verso casa, soddisfatto del provvidenziale bottino…

Brano senza Autore

Lo scoiattolo Bernardo

Lo scoiattolo Bernardo

C’era una volta, nel parco di un vecchio castello, ormai diroccato, una grande, antica e generosa quercia.
Proprio nella quercia, alla biforcazione di due rami, cinque allegri scoiattoli striati avevano costruito la loro casa.
La casa degli scoiattoli aveva sette capaci magazzini, spalancati come bocche di uccellini sempre affamati.
Per tutta l’estate, gli scoiattoli non facevano che correre, giorno e notte, per riempirli di cibarie.
Sapevano che l’inverno era lungo e crudele e dovevano affrontarlo con la dispensa piena, se volevano arrivare a vedere la primavera.

Gli scoiattoli non si riposavano mai:

si davano da fare freneticamente per raccogliere ed ammassare grano e noci, ghiande e bacche.
Lavoravano tutti.
Tutti, tranne Bernardo.
Bernardo era uno scoiattolo dal musetto intelligente, le orecchie da filosofo, il pelame lucente e una bella coda folta.
Ma mentre i suoi compagni correvano avanti e indietro trafelati con le zampine cariche di provviste, se ne stava assorto con il muso all’aria e gli occhi chiusi.
“Bernardo, perché non lavori?” chiesero gli scoiattoli.
“Come, non lavoro?” rispose Bernardo un po’ offeso, “Sto raccogliendo i raggi del sole per i gelidi giorni d’inverno!”
E quando videro Bernardo seduto su una grossa pietra, gli occhi fissi sul prato, domandarono:

“E ora, Bernardo, che fai?”

“Raccolgo i colori!” rispose Bernardo con semplicità, “L’inverno è così grigio!”
Quattro scoiattolini correvano e correvano, sempre più affannati.
I magazzini si riempivano di nocciole e bacche e squisitezze.
Bernardo, invece, se ne stava accoccolato all’ombra di una pianta.
“Stai sognando, Bernardo?” gli chiesero con tono di rimprovero.
Bernardo rispose:
“Oh, no!
Raccolgo parole.
Le giornate d’inverno sono tante e sono lunghe.
Rimarremo senza nulla da dirci!”
Venne l’inverno e quando cadde la prima neve, i cinque scoiattolini si rifugiarono nella loro tana dentro la grande quercia.
I primi giorni furono pieni di felicità.
Gli scoiattolini facevano una gran baldoria, mentre fuori fischiava il vento gelido.

Suonavano le nacchere con i gusci di noce, cantavano e ballavano.

E prima di dormire con il pancino ben pieno si divertivano a raccontare storielle divertenti sugli allocchi allocchiti e sulle volpi rimbambite.
Ma, a poco a poco, consumarono gran parte delle provviste.
I magazzini si vuotarono uno dopo l’altro, finirono le nocciole, poi le ghiande (anche quelle amare), poi le bacche.
Rimasero solo le radici meno tenere.
Nella tana si gelava e nessuno aveva più voglia di chiacchierare.
Improvvisamente si ricordarono dello strano raccolto di Bernardo.
Del sole, dei colori, delle parole.
“E le tue provviste, Bernardo?” chiesero.

Bernardo si arrampicò su un grosso sasso e cominciò a parlare:

“Chiudete gli occhi.
Ora sentite i caldi, dorati raggi del sole che si posano sulla vostra pelliccia; sono lucenti, giocano con le foglie, sono colate d’oro…”
E mentre Bernardo parlava, i quattro scoiattolini cominciarono a sentirsi più caldi.
Che magia era mai quella?
“E i colori, Bernardo?” chiesero ansiosamente, “Chiudete gli occhi!”
E quando parlò dell’azzurro dei fiordalisi, dei papaveri rossi nel frumento giallo, delle foglioline verdi dell’edera, videro i colori come se avessero tanti piccoli campicelli in testa.
“E le parole, Bernardo?”
Bernardo si schiarì la gola, aspettò un attimo, e poi, come da un palcoscenico, disse:
“Nascosto nella corteccia di un albero, nel bel mezzo di una foresta meravigliosa, vive uno scoiattolo dal pelo rosso, lo sguardo brillante e la coda a pennacchio.
Questo straordinario piccolo scoiattolo porta sul capo una corona di noci.

È un genio:

possiede certi poteri e conosce molti segreti.
Quando un coniglietto è ferito da un cacciatore, è il genio scoiattolo che dice qual è la pianta utile per guarire la ferita.
Quando un uccellino si rompe un’ala è il genio scoiattolo che gli applica un supporto di sottili aghi di pino perché possa volare ancora.
Ma la cosa che gli riesce meglio è guarire i cuori malati di tristezza e di paura.”
“Ci vogliono tante coccole, per vivere,” dice il genio scoiattolo, “e tanta tenerezza.
Perché tutte le creature del bosco sono come i fiorellini che appassiscono se non sono baciati dai raggi di sole.
Quando un animaletto è triste, io faccio il raggio di sole.
E lui riapre i petali del suo cuore!”
Quando Bernardo tacque, i quattro scoiattolini applaudirono e gridarono:
“Bernardo, sei un poeta.”
Bernardo arrossì, si inchinò e disse modestamente:
“Lo so, cari musetti!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Due sassolini azzurri

Due sassolini azzurri

Due sassolini, grossi sì e no come una castagna, giacevano sul greto di un torrente.
Stavano in mezzo a migliaia di altri sassi, grossi e piccoli, eppure si distinguevano da tutti gli altri.
Perché erano di un intenso colore azzurro.
Loro due sapevano benissimo di essere i più bei sassi del torrente e se ne vantavano dal mattino alla sera.
“Noi siamo i figli del cielo!” strillavano, quando qualche sasso plebeo si avvicinava troppo.
“State a debita distanza!
Noi abbiamo il sangue blu.
Non abbiamo niente a che fare con voi!”
Erano insomma due sassi boriosi e insopportabili.
Passavano le giornate a pensare che cosa sarebbero diventati, non appena qualcuno li avesse scoperti:
“Finiremo certamente incastonati in qualche collana insieme ad altre pietre preziose come noi!”

“Sul dito bianco e sottile di qualche gran dama!”

“Sulla corona della regina d’Olanda!”
Un bel mattino, mentre i raggi del sole giocavano con le trine di spuma dei sassi più grandi, una mano d’uomo entrò nell’acqua e raccolse i due sassolini azzurri.
“Evviva!” gridarono i due all’unisono, “Si parte!”
Finirono in una scatola di cartone insieme ad altri sassi colorati.
“Ci rimarremo ben poco!” dissero, sicuri della loro indiscussa bellezza.
Poi una mano li prese e li schiacciò di malagrazia contro il muro in mezzo ad altri sassolini, in un letto di cemento tremendamente appiccicoso.
Piansero, supplicarono, minacciarono.
Non ci fu niente da fare.
I due sassolini azzurri si ritrovarono inchiodati al muro.
Il tempo ricominciò a scorrere, lentamente.
I due sassolini azzurri erano sempre più arrabbiati e non pensavano che ad una cosa: fuggire.
Ma non era facile eludere la morsa del cemento, che era inflessibile e incorruttibile.

I due sassolini non si persero di coraggio.

Fecero amicizia con un filo d’acqua, che scorreva ogni tanto su di loro.
Quando furono sicuri della lealtà dell’acqua, le chiesero il favore che stava loro tanto a cuore. “Infiltrati sotto di noi, per piacere.
E staccaci da questo maledetto muro!”
Fece del suo meglio e dopo qualche mese i sassolini già ballavano un po’ nella loro nicchia di cemento.
Finalmente, una notte umida e fredda, Tac! Tac!:
i due sassolini caddero per terra.
“Siamo liberi!” esclamarono.
E mentre erano sul pavimento, lanciarono un’occhiata verso quella che era stata la loro prigione:
“Ooooh!”
La luce della luna che entrava da una grande finestra illuminava uno splendido mosaico.
Migliaia di sassolini colorati e dorati formavano la figura di Nostro Signore.
Era il più bel Gesù che i due sassolini avessero mai visto.
Ma il volto… il dolce volto del Signore, in effetti, aveva qualcosa di strano.

Sembrava quello di un cieco.

Ai suoi occhi mancavano le pupille!
“Oh, no!” I due sassolini azzurri compresero.
Loro erano le pupille di Gesù.
Chissà come stavano bene, come brillavano, come erano ammirati, lassù.
Rimpiansero amaramente la loro decisione.
Quanto erano stati insensati!
Al mattino, un sacrestano distratto inciampò nei due sassolini e, poiché nell’ombra e nella polvere tutti i sassi sono uguali, li raccolse e, brontolando, li buttò nel bidone della spazzatura.

Brano di Bruno Ferrero

Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

La sfida tra il sole ed il vento

La sfida tra il sole ed il vento

Un giorno il vento e il sole cominciarono a litigare.
Il vento sosteneva di essere il più forte e a sua volta il sole diceva di essere la forza più grande della terra.

Alla fine decisero di fare una prova.

Videro un viandante che stava camminando lungo un sentiero e decisero che il più forte di loro sarebbe stato colui che sarebbe riuscito a togliergli i vestiti.
Il vento, così, si mise all’opera: cominciò a soffiare, e soffiare, ma il risultato fu che il viandante si avvolgeva sempre più nel mantello.
Il vento allora soffiò con più forza, e l’uomo chinando la testa si avvolse un sciarpa intorno al collo.

Fu quindi la volta del sole, che cacciando via le nubi,

cominciò a splendere tiepidamente.
L’uomo che era arrivato nelle prossimità di un ponte, cominciò pian piano a togliersi il mantello.
Il sole molto soddisfatto intensificò il calore dei suoi raggi, fino a farli diventare incandescenti.
L’uomo rosso per il gran caldo, guardò le acque del fiume e senza esitare si tuffò.

Il sole alto nel cielo rideva e rideva!

Il vento deluso e vinto si nascose in un luogo lontano.

Favola di Esopo

L’uomo con la falce

L’uomo con la falce

Diversi anni fa, in una calda giornata di primavera, due comari stavano camminando lungo un alberato viottolo di campagna, raccontandosi, tra sonore risate, gli avventurosi tradimenti fatti ai rispettivi mariti, vantandosi a vicenda.
Arrivate vicino ad una radura, scorsero da lontano un uomo mai visto prima,

molto magro, tanto alto quanto pallido.

Portava un grande cappello di una foggia strana e falciava a grandi bracciate l’erba, nella zona in cui predominavano i papaveri.
La lama della falce, colpita dai raggi del sole, diventava sempre più luccicante.
Lo sconosciuto falciava con così tanta lena che la falce, quando sfiorava la terra, nel tagliare l’erba impregnata di rugiada emetteva un incerto sibilio, che sembrava dicesse:

“Duecento! Trecento!”

Vedendo questa scena ed udendo questo sibilio, le due signore scapparono via spaventate, tornando di corsa al villaggio.
Non appena ebbero ripreso fiato dissero ai propri compaesani:
“Abbiamo appena visto l’uomo della morte con la falce.

Ci ha avvisato che se non cambiamo vita farà duecento, trecento morti!”

Il villaggio, memore di una antica pestilenza che aveva decimato il borgo, credette alle due donne e tutti si misero in riga, dato che erano in tanti, ed in vario modo, a violare le leggi del Signore e della comunità.
Il falciatore altro non era che un povero bracciante venuto da fuori regione, testimone della vita che mai si arrende.
Il suo lavoro era un inno alla vita.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La farfalla ed il cavolfiore

La farfalla ed il cavolfiore

Era una bella mattina di primavera e il sole scaldava il prato verde, trapuntato di fiori.
Su uno di essi aveva dormito una bella farfalla che, stiracchiandosi, distese le ali variopinte per asciugarle ai tiepidi raggi del sole e poi si librò nell’aria, cominciando a curiosare qua e là.

Giunta sulla riva d’uno stagno, si rimirò nell’acqua ferma che le faceva da specchio.

“Quanto sono bella!” pensò la farfalla e, felice, si mise a volare in giro per farsi vedere ed ammirare da tutti.
Ad un certo punto, però, cominciò a sentire un po’ d’appetito.
Istintivamente volò verso un orto dove c’era una distesa di cavoli freschi e turgidi.
Si fermò sul più grosso e bello, provò ad assaggiarlo, succhiò un po’, ma subito si ritrasse disgustata.
“Puah!

Che cattivo odore e che saporaccio!

Ho fatto male a venire qui nell’orto, dovevo andarmene in qualche bel giardino ricco di rose e garofani, di dalie e giunchiglie profumate.
Il cibo dell’orto non fa per me, io ho bisogno di cose più delicate.
“Hai cambiato gusto a quel che sembra!” osservò ironicamente il cavolfiore offeso, “Ti ho conosciuto in ben altre condizioni, bella mia, quando eri meno elegante e colorata.
Ricordo bene quando eri un bruco nudo e crudo, per niente bello da vedere, e fui proprio io a darti cibo e alloggio.”
“Il cibo dell’orto non fa per me, io ho bisogno di cose più delicate!” rispose risentita la farfallina.
“Allora il sapore delle mie foglie ti sembrava buono e appetitoso.
Ora che sei cresciuta, cambiata, rivestita di seta e di splendidi colori, frequenti giardini profumati e disdegni i buoni amici d’un tempo…

Hai poca memoria e troppa boria!

Sei bella, sì…
ma non sei buona se disprezzi chi ti ha cresciuta senza chiederti niente.”
La farfalla, tutta rossa per la vergogna, se ne volò via.

Brano tratto dal libro “Orizzonti della scuola primaria 2: Guida didattica digitale sfogliabile di italiano.” Casa Editrice Tredieci Srl.