La promessa di sorridere

La promessa di sorridere

Mi capitava di ridere senza motivo in classe e la maestra, la signorina Piromallo, s’indispettiva tanto che un giorno mi disse che voleva parlare con “un adulto di casa”.
Disse proprio così, e io le portai nonno che venne col cappello e se lo mise in grembo prima di disporsi all’ascolto di ciò che la maestra aveva da dire.

Lei mi accusò, s’indignò, pretese scuse e pentimento.

Lui annuì con la testa e poi le fece notare che il mandorlo del giardino della scuola era in fiore.
“E cosa c’entra?” chiese la Piromallo.
“Lei non trova strano che nonostante questo giugno piuttosto freddo il mandorlo sia fiorito lo stesso?” rispose nonno continuando a guardare l’albero in boccio.

“Affatto.

È nella natura dell’albero fiorire in primavera e comunque non è così freddo da impedirlo.
Siamo nella norma direi.” concluse lei con quella voce stridula che ancora ricordo.
“Bene!” disse nonno alzandosi e prendendomi per mano, “Anche il sorriso di mia nipote fiorisce nonostante il freddo che avverto qui dentro.
Com’è giusto che faccia un’anima giovane che impara ad essere felice.

Quindi direi che siamo nella norma.

I miei ossequi signorina Piromallo!”
Camminammo in silenzio fino a casa, poi sulla porta nonno mi fece promettere di non addormentarmi mai senza aver sorriso almeno dieci volte al giorno.
E io glielo promisi.

Brano di Milena Maggio

Quando ho cominciato ad amarmi davvero…

Quando ho cominciato ad amarmi davvero…

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene.
Da allora ho potuto stare tranquillo.
Oggi so che questa si chiama… Autostima.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che la sofferenza e il dolore emozionali sono solo un avvertimento che mi dice di non vivere contro la mia verità.
Oggi so che questa si chiama… Autenticità.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere.

Oggi so che questa si chiama… Maturità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama… Rispetto.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene:
cibi, persone, cose, situazioni e da tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso, all’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma oggi so che questo è…

Amore di sé.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro.
Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi.
Oggi so che questa si chiama… Semplicità.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione.
E così ho commesso meno errori.
Oggi mi sono reso conto che questa si chiama… Umiltà.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro.

Ora vivo di più nel momento presente, in cui tutto ha un luogo.

È la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo… Pienezza.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare, mi sono reso conto che il mio pensiero può
rendermi miserabile e malato.
Ma quando ho imparato a farlo dialogare con il mio cuore, l’intelletto è diventato il mio migliore alleato.
Oggi so che questa si chiama… Saper vivere!

Brano di Sir Charles Spencer “Charlie” Chaplin

Noi dobbiamo correre il rischio!

Noi dobbiamo correre il rischio!

Ridere, è rischiare di apparire matti!
Piangere, è rischiare di apparire sentimentali!
Tendere la mano, significa rischiare di impegnarsi!

Mostrare i sentimenti, è rischiare di esporsi!

Far conoscere le proprie idee ed i propri sogni, è rischiare di essere respinti!
Amare, è rischiare di non essere contraccambiati!
Vivere, è rischiare di morire!

Sperare, è rischiare di disperare!

Tentare, è rischiare di fallire!
Ma noi dobbiamo correre il rischio!
Il più grande pericolo nella vita è quello di non rischiare.

Colui che non rischia niente…

Non fa niente!
Non ha niente!
Non è niente!

Brano di Joseph Rudyard Kipling

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

C’era una volta una città che si chiamava Cittallegra.
In quella città alla gente piaceva ridere, parlare e riunirsi per fare festa.

I giorni più belli erano le domeniche.

La gente trovava bello riunirsi in chiesa, ascoltare il sacerdote, cantare i canti religiosi e poi tornare a casa per mangiare insieme l’arrosto.
Cittallegra era una cittadina molto carina, solo che la gente non riusciva a diventare ricca!
Le loro case erano più piccole delle case di altre città e le stradine più strette.
Quando andavano a visitare altre città, i cittallegrini si vergognavano.
“Qualcosa deve cambiare!” decisero i cittadini, e si riunirono per stabilire da dove cominciare.
“Aboliamo le domeniche e le feste, ci saranno giorni in più per lavorare!” fu la prima proposta che incontrò il favore di tutti.
“Ci servono più lavoratori!” e perciò si decise di mandare nelle fabbriche anche le donne.
Ma le donne avevano già tanto da fare a casa per la famiglia e per la cura dei genitori o dei nonni.

Allora i cittadini decisero:

“I bambini vanno all’asilo, i vecchi all’ospizio e i malati all’ospedale!”
Cittallegra diventò un grande cantiere e le imprese edili crescevano sempre di più; esse demolivano, ricostruivano, spianavano piazze, allargavano le strade!
“Perché la nostra città si chiama Cittallegra?” chiese un cittadino, “Sarebbe molto meglio chiamarla Cittalavoro!”
Questa proposta piacque tanto che venne subito accolta.
Cittalavoro cresceva sempre di più:
divenne grande, grigia, rumorosa, noiosa, pericolosa.
Sulle strade correvano le macchine e i pedoni avevano paura.
La gente non si incontrava più come una volta, anzi le persone non si conoscevano più, non si salutavano più.
La domenica era un giorno come gli altri.
Un giorno, i bambini dell’asilo andarono nell’ospizio dei nonni.
“È vero che Cittalavoro prima si chiamava Cittallegra?” chiesero i piccoli.

“Sì, questo è vero!” risposero i nonni.

“Ed era anche una città più allegra?” chiesero allora i bambini.
“Molto più allegra!” spiegarono i nonnini.
“Come mai, poi, tutto è cambiato?” proseguirono i bambini.
“Tutto cominciò quando tolsero le domeniche e le feste!” conclusero i nonni.
I bambini spalancarono gli occhi e domandarono:
“Feste?
Che cosa sono le feste?”

Brano tratto dal libro “I dieci comandamenti raccontati ai bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Che cos’è il virtuale?

Che cos’è il virtuale?

Un giorno entrai di fretta e molto affamato in un ristorante.
Scelsi un tavolo lontano da tutti, poiché volevo approfittare dei pochi minuti che avevo a disposizione quel giorno, per mangiare e per continuare a programmare un sistema che stavo creando.
Avevo, inoltre, voglia di progettare le mie vacanze che, ormai, da molto tempo, non sapevo cosa fossero…
Ordinai del salmone, insalata e succo d’arancia, cercando di conciliare la mia fame con la mia dieta.
Aprì il mio notebook e nello stesso tempo mi spaventai per quella voce bassa dietro di me:
“Signore, mi dà qualche soldo?”

“Non ne ho, piccolo!” gli risposi.

“Solo qualche spicciolo per un pezzo di pane.” insistette lui.
“Va bene, te ne compro uno io!” esclamai.
Tanto per cambiare la mia casella di posta elettronica era piena di e-mail.
Rimasi un po’ distratto a leggere alcune poesie, bei messaggi, a ridere di quei banali scherzi.
Ahhh! Quella musica mi portava a Londra, ricordando un bellissimo tempo passato.
“Signore, chieda che venga messo un po’ di burro e formaggio nel mio panino!” continuò il bambino.
Lì mi accorsi che era ancora al mio fianco.
“Ok! Ma dopo mi lasci lavorare, sono molto occupato, d’accordo?” domandai.
Arrivò il mio pranzo e con esso la realtà.
Feci la richiesta del piccolo e il cameriere mi chiese se avessi voluto che il bambino fosse allontanato.
La mia coscienza mi impedì di prendere una decisione, ed alla fine risposi:
“No, va tutto bene!
Lo lasci pure stare, gli porti il suo panino e qualcos’altro di decente da mangiare.”
Allora il bambino si sedette di fronte a me e mi chiese:

“Signore, che sta facendo?”

“Leggo le e-mail!” risposi.
“E che sono le e-mail?” mi domandò.
“Sono messaggi elettronici inviati dalle persone via internet.”
Sapevo che non avrebbe capito nulla, e per evitare ulteriori domande dissi:
“È come se fosse una lettera ma si invia tramite internet.”
“Signore, lei ha internet?” mi chiese allora.
“Si ce l’ho, è essenziale nel mondo di oggi!” risposi.
“E cos’è Internet, signore?” proseguì il bambino.
“È un posto nel computer dove possiamo vedere e ascoltare molte cose, notizie, musica, conoscere gente, leggere, scrivere, sognare, lavorare, imparare.
Ha tutto, ma in un mondo virtuale.” gli spiegai.

“E cos’è il virtuale, signore?” domandò.

Decisi di dargli una spiegazione molto semplice, con la consapevolezza che capirà ben poco, ma così mi lascerà in pace e mi farà pranzare liberamente…
“Virtuale è un posto che noi immaginiamo, qualcosa che non possiamo toccare, raggiungere.
Un luogo in cui creiamo un sacco di cose che ci piacerebbe fare.
Creiamo le nostre fantasie, trasformiamo il mondo quasi in quello che vorremmo che fosse.” gli dissi.
“Che bello, mi piace!” esclamò il piccolo.
“Piccolo, hai capito cos’è il virtuale?” chiesi, allora, io.
“Si signore, vivo anche io in quel mondo virtuale.” replicò il bimbo.
“E tu hai il computer?” gli domandai

“No, ma anche il mio mondo è di quel tipo lì… virtuale!” mi disse, e poi continuò:

“Mia madre passa fuori l’intera giornata, arriva molto tardi e spesso non la vedo neanche.
Io bado a mio fratello piccolo che piange sempre perché ha fame, così io gli do un po’ d’acqua e lui pensa che sia la minestra.
Mia sorella grande esce tutto il giorno, dice che va a vendere il proprio corpo, ma io non capisco, visto che poi ritorna sempre a casa con il suo corpo.
Mio padre è in carcere da molto tempo.
Ed io immagino sempre tutta la famiglia insieme a casa, molto cibo, molti giocattoli a Natale, ed io che vado a scuola per diventare un giorno un grande medico.
Questo non è virtuale, signore?”
Chiusi il mio notebook, non prima che le mie lacrime cadessero sulla tastiera.
Aspettai che il bambino finisse letteralmente di “divorare” il suo piatto, pagai il conto e lasciai il resto al piccolo, che mi ripagò con uno dei più bei sorrisi che io abbia mai ricevuto in vita mia, dicendomi:
“Grazie signore, lei è un maestro!”
Lì, in quel momento, ebbi la più grande dimostrazione di virtualismo insensato in cui viviamo ogni giorno, circondati da una vera cruda realtà e spesso facendo finta di non percepirla!

Brano senza Autore

La pallina d’oro

La pallina d’oro

Molto tempo fa c’era un giovane che se ne andava in giro tra i boschi pensando a cosa dovesse fare della sua vita, quale fosse la strada giusta da imboccare e come poteva fare per guadagnarsi un pezzo di pane.
Mentre camminava sentì una voce che lo chiamava e, dopo aver guardato in giro, scoprì un fringuello su un ramo che gli parlava con voce umana:
“Bel giovane, fermati e ascolta.
Adesso canterò la mia canzone; mentre la canto dovrai prendermi e scuotermi senza farmi male.

Vedrai che dal becco mi uscirà una pallina d’oro:

raccoglila e mettila in tasca, così diventerai capace di saper sempre ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e, in ogni momento saprai che cosa è meglio per te.
Quanto a me mi addormenterò nel cavo dell’albero e tu potrai andartene per la tua strada!”
Così andarono le cose e il giovane riprese il cammino con la pallina d’oro in tasca, finché arrivò in una città con ricche botteghe e bei palazzi, dove la gente vendeva e comprava, mangiava e dormiva, leggeva e scriveva, discuteva e correva come in tutte le città del mondo.
Solo che qui tutti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, piangevano a dirotto senza mai smettere.
Il giovane sentì che la pallina, misteriosamente, gli impediva di tirare dritto ed una vocina gli suggeriva.
“Tu devi fare qualcosa per questa gente!”
Sentendosi pieno di coraggio, andò subito dal re che singhiozzava sul suo trono e gli disse di non preoccuparsi perché era arrivato ad aiutarli.
“Ad aiutarci?” rispose il re piangendo ancora più forte, “Non sai che la nostra città è minacciata da un terribile drago che mangerà tutti noi se non gli consegniamo ad una ad una le nostre ragazze più belle?

Ne ha già prese nove e l’ultima è mia figlia!”

Il giovane sentiva che la pallina gli infondeva sempre più coraggio e con sua stessa sorpresa rispose:
“Vi do la mia parola che domani vi porterò la testa e la coda del drago, così le vostre disgrazie finiranno!”
Il re pensò che fosse pazzo:
i suoi più bravi cavalieri avevano fallito nell’impresa, come poteva un ragazzo così giovane e senza spada e armatura far meglio di loro?
Il giovane indovinò i suoi pensieri, sorrise chiese una spada e dei viveri.
Gli portarono due spade:
una di purissimo acciaio intarsiato d’oro e d’argento che mandava bagliori in tutta la sala e l’altra semplice, ordinaria e pensante che sapeva di sudore e fatica.
Il giovane stava allungando la mano per prendere la prima quando la pallina d’oro fece sentire la sua voce consigliando di prendere l’altra:
“Non tutto ciò che luccica è utile, le cose serie, il più delle volte, non hanno un aspetto attraente!”
Il giovane prese la vecchia spada e partì verso la collina.
Lassù il drago si era costruito un castello di ferro con sette porte e sette torri, circondato da un fossato pieno d’acqua sporca ed enormi coccodrilli.
Il giovane percorse il ponte ed arrivò alla prima porta, bussò e il drago aprì.
Quando lo vide e sentì le richieste del giovane che lo invitava a lasciar stare gli abitanti del paese e a restituire le ragazze, scoppio a ridere e la porta si chiuse con un terribile tonfo e il ponte dietro il giovane crollò.

Al ragazzo non restava che andare avanti.

Si avviò verso le porte e vide che ognuna portava una scritta, “Porta dei Re”, “Riservata ai Principi”, “Di qui passano i cavalieri” e così via finché sulla settima trovò scritto:
“Entrata.”
Pensò, su suggerimento della pallina, di non essere un nobile e quindi aprì la settima porta.
Si udì il grido infuriato del drago che non capiva come il giovane avesse trovato la porta giusta, infatti, dietro alle altre c’erano numerose trappole e trabocchetti e centinaia di cavalieri che vi erano caduti dentro.
Il giovane, attraversato un lungo corridoio, arrivò in un’ampia sala dove giovani e ragazzi elegantemente vestiti, ridevano, ballavano e mangiavano cibi dal profumo invitante.
Lo presero invitandolo a stare con loro e a divertirsi lasciando perdere l’idea di aiutare gli abitanti piagnoni, tanto nessuno lo avrebbe ricompensato.
Il giovane esitò, ma la pallina d’oro bruciava come fuoco.
Emise un gran sospiro e disse:
“Ho dato la mia parola!” e passò oltre.
La parete si aprì, tutti svanirono poiché erano illusioni create dal drago e il giovane si trovò davanti allo stesso drago.
Era arrivato il momento del combattimento ma il drago prima offrì al giovane un’armatura preziosa.
“Fossi matto, questa renderebbe i miei movimenti goffi e impacciati” e, così dicendo, rifiutò.
La pallina d’oro approvò la decisione, il drago era terrorizzato e con due colpi di spada il giovane gli tagliò la testa e la coda.
Dal castello uscirono una dopo l’altra le otto ragazze che teneva prigioniere, ma mancava l’ultima:

la figlia del re.

Gli raccontarono che era stata trasformata in un fringuello ed era riuscita a fuggire nel bosco.
Il giovane si ricordò dell’uccello che gli parlò con voce umana e corse nel bosco.
Addormentata sotto all’albero c’era la principessa, il giovane la svegliò e la riportò a casa insieme alle altre ragazze.
La tristezza nel paese finì e, come succede nelle fiabe, il giovane povero sposò la figlia del re.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Tonto Zuccone, girovagando

Tonto Zuccone, girovagando
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La macchina

A Venezia

Il risotto con le mosche

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“La macchina”

Tonto Zuccone, dopo ripetuti tentativi ed una raccomandazione non tanto trasparente, prese la patente di guida per la macchina.
Stupì tutti perché acquistò una macchina nuova, rosso fiammante, invece di una usata per impratichirsi nella guida.
Scorrazzava felice per le vie del paese, esibendo il suo gioiello rosso con uno stuolo di amici a bordo.
Mutò d’umore quando svoltando a destra sentiva uno strano rumore in macchina e lo stesso quando girava a sinistra.

Andò a farla benedire da un sacerdote amico credendola stregata, ma niente, i rumori persistevano.

Tornò dal concessionario, deluso, per la riparazione o per una eventuale sostituzione essendo ancora in garanzia.
I meccanici incuriositi dallo strano caso fecero un giro di prova e tornarono quasi subito ridendo per quello che avevano scoperto.
Il rumore era causato da due latine di Coca Cola vuote, abbandonate dagli amici di scorribande, che ruzzolavano nella parte posteriore della vettura ad ogni sterzata o sobbalzo.
L’episodio bastò a far perdere a Tonto ogni interesse per la macchina, il quale tornò alla sgangherata bicicletta.

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“A Venezia”

Tonto Zuccone andò per la prima volta a visitare, da solo, la tanto desiderata Venezia.
Dopo aver chiesto informazioni, gli fu indicato di prendere un vaporetto per fare un giro turistico per le vie d’acqua e poter, così, ammirare la meraviglia dell’Adriatico con i suoi palazzi, calli e canali.
Si recò alla biglietteria con una certa titubanza e l’addetto in divisa, vedendolo impacciato, gli chiese dove volesse recarsi.

Tonto gli diede una grossa banconota e gli disse:

“Dovunque e da nessuna parte!”
Il bigliettaio, abituato ad aver a che fare con turisti da tutto il mondo, intuì con chi stava parlando e replicò:
“Si vede anche da lontano che sei Tonto in visita a Venezia!”
La cosa stupì lo spaesato campagnolo che domandò stupito:
“Come fate a conoscermi anche qui?
Non credevo di essere così famoso!”

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“Il risotto con le mosche”

Il risotto è un piatto tipico della tradizione del nord Italia e sta diventando sempre di più un piatto nazionale.
Forti del primato produttivo e qualitativo del riso nostrano, essendo degli storici e accorti produttori, non temiamo il confronto con quelli di dubbia importazione e dal prezzo stracciato.
I nostri bravi chef, di tramandata e gloriosa tradizione gastronomica, lungo tutto lo stivale, propongono i risotti nelle varianti con il prezioso zafferano, con le verdure di stagione, ai funghi, con carni e pesci e, chi più ne ha, più ne metta.

Alcuni anni fa, Tonto Zuccone fu invitato ad un pranzo di battesimo da un amico in terra Feltrina, nel Bellunese.

Dopo gli antipasti di rito, nel menù non poteva mancare di certo il risotto fatto secondo la tradizione locale, con i resti della carne di cacciagione, tagliati a sottili pezzettini che risultavano alla vista di colore scuro, chiamato per questo motivo risotto con le mosche, per la somiglianza con gli insetti dittari.
La neo mamma, nonché provetta cuoca, era particolarmente fiera di questo piatto tramandato gelosamente dalle sue ave e chiese con un pizzico di orgoglio a Tonto se gradisse il suo risotto con le mosche e se lo avesse mai gustato prima.
Tonto a sentirlo nominare ed alla vista della portata ebbe una reazione di disgusto e di netto rifiuto.

Questo evento fece ridere la cuoca, ma anche gli altri commensali, a crepapelle.

Ascoltata la risposta di Tonto, la padrona di casa disse scherzando che ad ogni mosca aveva tolto la testa e le zampe, soprattutto per omaggiare il gradito ospite.
Tonto non volle sentire ulteriori spiegazioni, fu sufficiente vedere ed ascoltare il nome del piatto per rimanere, ancor di più, perplesso e basito della strana, per lui, cucina locale.
Rinunciò ad ottimo risotto, eseguito con cottura e mantecatura perfette.
Il risotto con le mosche è una specialità tutta feltrina, di nicchia gastronomica, non contemplata nei manuali di cucina e gelosamente tramandata da generazione in generazione, che solo un “tonto” come Tonto poteva rifiutare a priori.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Aiutare

Aiutare

Marito e moglie erano sulle scale alle prese con un pesante cassettone.
Li vide un cognato.
“Vi do una mano!” disse accorrendo.

E afferrò un angolo del mobile.

Qualche minuto dopo, incapaci di muovere il cassettone anche di un solo centimetro, i tre si concedettero qualche minuto di riposo.
“Che fatica portare su questo cassettone!” commentò il cognato.

Marito e moglie scoppiarono a ridere:

“Noi stavamo cercando di portarlo giù!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il giardino più bello del mondo

Il giardino più bello del mondo

C’era una volta un giardino, chiuso da altissime mura, che suscitava la curiosità di molti!
Finalmente, una notte, quattro uomini si munirono di un’altissima scala per vedere cosa mai ci fosse dall’altra parte del muro.

Quando il primo raggiunse la sommità del muro,

si mise a ridere forte e saltò nel giardino.
Salì a sua volta il secondo, si mise a ridere e saltò anch’egli.
Così il terzo!
Quando toccò al quarto, questi vide dall’alto del muro uno splendido giardino con alberi da frutta, fontane, statue,

fiori di ogni genere e mille altre delizie…

Forte fu il desiderio di gettarsi in quell’oasi di verde e di quiete ma un altro desiderio ebbe il sopravvento:
quello di andare per il mondo a parlare a tutti dell’esistenza di quel giardino e della sua bellezza!

Brano tratto dal libro “Nuovi Incontri per i genitori.” di Don Giuseppe (Pino) Marelli. Edizione ElleDiCi.

Il clown

Il clown

Nello studio di un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben equilibrato, serio ed elegante.
Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell’uomo era intimamente abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua e assillante.
Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e,

al termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente:

“Perché questa sera non va al circo che è appena arrivato nella nostra città?
Nello spettacolo si esibisce un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo:
tutti parlano di lui, perché è unico.

Le farà bene, vedrà!”

Allora quell’uomo scoppiò in lacrime, dicendo:
“Quel clown sono io!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.