L’importanza del latino

L’importanza del latino

Un nipote chiese a suo nonno:
“Nonno, perché dovrei studiare il latino dato che è così ostico e tedioso?”

“Per tante ragioni!

E non solo per quelle scolastiche!” rispose il nonno, che poi proseguì, “Levada durante la prima guerra mondiale si ritrovò (involontariamente) in prima linea.
In tutte le case del paese vennero rimosse le travi portanti e, queste, furono portate via con le tavole, affinché potessero essere usate per costruire delle trincee.
Un contadino più curioso degli altri, negli anni, aveva imparato il latino con l’aiuto del parroco, per capire i classici e le sacre scritture e, inoltre, per poter fare con lui delle dissertazioni in un alone di mistero per gli altri,

che nulla capivano dei loro discorsi.

Erano in tanti a criticarlo, perché, in quel modo, aveva sottratto tempo ai lavori campestri, ma, con il senno di poi, dovettero ricredersi.
Questi, prima di partire per raggiungere il campo profughi approntato per l’occasione, scrisse sulla sua casa, con la carbonella, questa frase in latino:
“In hoc domo, licet abitare, nolite ean vastare!”

(Si può vivere in questa casa, ma senza devastarla!)

Finita la guerra, l’unica casa del borgo a non subire danni fu proprio quella di questo contadino, siccome gli ufficiali, avendo studiato il latino, diedero l’ordine di non toccarla, convinti che il proprietario fosse una nota personalità.
Aver studiato il latino si rivelò fondamentale per questo contadino!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il tesoro nel gelso

Il tesoro nel gelso

Il territorio di Levada è situato lungo il fiume Piave e durante la prima guerra mondiale subì massicci bombardamenti a tappeto da parte dell’artiglieria Austro-Ungarica, che inoltre disseminò il terreno di mine, alcune delle quali rimasero inesplose, e di schegge di granate.

I contadini, nel riprendere i lavori agricoli,

bonificarono i terreni mettendo per comodità i residui bellici dentro i tronchi cavi degli alberi di gelso, utilizzati per l’allevamento del baco da seta, molto in auge in quel periodo.
I gelsi, crescendo, incorporarono il tutto nel loro interno, rendendo il metallo non sempre visibile.
Per la festa della parrocchia era abitudine usare della legna di gelso da ardere.
Questo tipo di legna, per la presenza di nodi e di metalli, era tra le più difficili da tagliare, anche perché, con molta facilità, venivano rotte accette e seghe.
Il parroco, per poter comunque avere questa legna per la festa, faceva affidamento su dei volontari, i quali si arrendevano quasi subito, o per la fatica immane, o lamentando strappi alla schiena, o che,

per giustificarsi del ritiro, rompevano volutamente il manico delle accette.

Dopo diverse ricerche, solamente un parrocchiano accettò di portare a termine il lavoro.
Non a caso era il balordo del paese, che pretese in cambio un fiasco di vino e la deroga di dire in libertà qualche imprecazione non tanto ortodossa, strappando inoltre l’accordo di tenere per se tutto il metallo presente nei tronchi, che avrebbe separato dalla legna, in modo da poterlo vendere.
Questo buon uomo era anche motivato da una leggenda ascoltata in osteria.
Secondo questa leggenda, i gelsi non celavano solo schegge di granate ma anche un tesoro nascosto da un ladro, il quale, dopo la sua rocambolesca fuga, non tornò più a riprenderlo.

La sorte fu benigna con l’intraprendente taglialegna,

infatti trovò all’interno dell’ultimo tronco il tesoro, composto da un bel po’ di sonanti monete d’argento.
Tutto ciò accadde sotto gli occhi stupefatti del parroco, che come da accordi precedentemente presi, confermò allo spaccalegna che tutto il metallo fosse suo, dicendo:
“Con i miei occhi ho visto qualcosa che mi ha fatto ripensare alle Sacre Scritture.
Così come la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo, così il tronco che nessuno voleva spaccare è diventato per te un tesoro meritato!”

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il ragazzo, la cesta e l’acqua

Il ragazzo, la cesta e l’acqua

C’era una volta un ragazzo che viveva con suo nonno in una fattoria.
Ogni mattina il nonno, che era cristiano, si alzava presto e dedicava del tempo a leggere le Scritture.
Il nipote cercava di imitarlo in qualche modo, ma un giorno chiese:
“Nonno, io cerco di leggere la Bibbia ma anche le poche volte che riesco a capirci qualcosa, la dimentico quasi subito.
Allora a cosa serve?

Tanto vale che non la legga più!”

Il nonno terminò tranquillamente di mettere nella stufa il carbone che stava in una cesta, poi disse al nipote:
“Vai al fiume, e portami una cesta d’acqua!”
Il ragazzo andò, ma ovviamente quando tornò non era rimasta acqua nella cesta.
Il nonno ridacchiò e disse:
“Beh, devi essere un po’ più rapido.
Dai riprova, muoviti, torna al fiume e prendi l’acqua!”

Anche questo secondo tentativo, naturalmente, fallì.

Il nipote, senza fiato, si lamentò dicendo che era una cosa impossibile, e si mise a cercare un secchio.
Ma il nonno insistette:
“Non ti ho chiesto un secchio d’acqua, ma una cesta d’acqua.
Torna al fiume!”
A quel punto il giovane sapeva che non ce l’avrebbe fatta, ma andò ugualmente per dimostrare all’anziano nonno che era inutile.
Per quanto fosse svelto l’acqua filtrava dai buchi della cesta.

Così tornò al fiume e portò la cesta vuota al nonno, dicendo:

“Vedi? Non serve a niente!”
“Sei sicuro?” disse il nonno, “Guarda un po’ la cesta!”
Il ragazzo guardò con attenzione:
la cesta, che prima era tutta nera di carbone, adesso era perfettamente pulita!

Brano senza Autore, tratto dal Web