Gli alberi di ciliegio del portalettere

Gli alberi di ciliegio del portalettere

Luca lavorava alle poste come portalettere, e nei momenti liberi, aveva svariati passatempi.
Uno tra i suoi passatempi preferiti era quello di aver cura di un piccolo campicello, nel quale erano presenti dei bellissimi alberi di ciliegio.
Questi ciliegi maturavano in maniera scalare, e per questo riuscì a recuperare anche specie antiche e rare, tra cui le ciliegie bianche.

La sua passione era motivata dal ricordo del nonno, dal quale avuto in dono il fondo.

Il nonno si chiamava Gerardo, ed aveva lo stesso nome del santo protettore delle ciliegie, San Gerardo da Tintori.
Grazie alla passione di Luca, tramandata dal nonno, il 6 giugno in paese si faceva la festa della ciliegia, che attirava tutto il circondario.
Il nostro portalettere raramente vendeva le ciliegie perché generalmente le dava in dono.
Durante la stagione lo si vedeva spesso in giro dopo il lavoro con una borsa piena dei preziosi frutti che portava ad anziani, ad amici ed a gente bisognosa,

che Luca ben conosceva per via del suo lavoro.

Ultimamente, però, con l’espandersi del paese, era stato ricavato da una area abbandonata vicino al suo orticello un campetto di calcio ed i ragazzi, dopo le partite e durante le pause, facevano razzie di ciliegie, spezzando inoltre i rami, facendo così ammalare le piante.
Fu inutile mettere cartelli con divieti e recinzioni.
Decise, perciò, di nascondersi lì vicino e di provare ad acchiapparli.
Un giorno riuscì a sorprenderne uno, ma questo fu svelto a scendere dall’albero ed a scappare.
Si mise ad inseguirlo ed intimò al ragazzo:
“Fermati, fermati che ti ho riconosciuto!”

La risposta del ragazzo fu:

“Fermati tu, che nessuno ti corre dietro.”
Questo episodio capitò diverse volte, facendo ritornare in mente al portalettere la scena del film di “Guardie e ladri.” con Totò ed Aldo Fabrizi.
Alla fine con la mediazione del parroco e del sindaco, i ciliegi furono lavorati in compartecipazione con i ragazzi, che invece di devastare i ciliegi, ne aumentarono le cure e le rese.
Nessuno fece più inutili corse e fu tolta anche la rete di recinzione come segno di ritrovata fiducia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Giosuè e la luce dalla finestra

Giosuè e la luce dalla finestra

Una strana epidemia si abbatté sulla città all’improvviso.
Iniziava come un raffreddore:
i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri.
Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
“Ciò che conta sono i soldi.
Con i soldi si fa tutto.” sostenevano.
Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini.
In certi alloggi la porta d’ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka.
Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini.

I bambini chiedevano:

“Quanto mi date per sparecchiare?”
Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile.
Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio.
L’eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: “Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio.
È dovuta ad un virus che si chiama “sgrinfiacchiappa” ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra.
Si può sfuggire al contagio per un po’ di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c’è un solo rimedio: l’acqua della “Montagna che canta.”
Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato.
Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente.
Perché l’acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.

Logico, no?

Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell’impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla!”
“Noi aspetteremo. Tutti!” giurarono il sindaco e i consiglieri, “Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città!”
“…e vuota le casse comunali!” aggiunse l’assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus “sgrinfiacchiappa.”
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando:
“Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica!”
Si presentarono in duemila.
Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano.
Tutti, meno uno.
Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone.
Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la “Montagna che canta.”
“La cercherò.” disse tranquillamente Giosuè.

“Noi ti aspetteremo.” promise la gente.

“Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo!”
Giosuè mise un po’ di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma ed il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò:
“Anch’io ti aspetterò!”
Salutò tutti e partì.
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell’orizzonte.
“Una volta là, mi basterà cercare la “Montagna che canta.”
Non deve essere difficile.” pensava.
Ma si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all’orizzonte.
Ma Giosuè non si fermava.
Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.

Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo.
Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce.
Era il segno della speranza:
aspettavano l’acqua della generosità portata da Giosuè.
Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo:
“Non ce la ha fatta.
Non tornerà più!”
Ogni notte, c’era qualche luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili.

Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli.

Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la “Montagna che canta.”
Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava.
Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione.
Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse:
“La “Montagna che canta.”?
Certo che so dov’è.
Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti.
Ma è un accidenti di montagna!
Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione!”

“Chi è?” domandò Giosuè.

“Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna!”
“Pazienza, ma io devo salire lassù!” disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
“Buona fortuna!”
La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po’ stonato.
Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia.
Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri.
Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato.

Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò.

Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire.
Pesante com’era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare.
Dopo un po’ il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare.
Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell’acqua della generosità.
Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto:
la gente della città sarebbe tornata felice come prima.
Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua.
Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città.
Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri.
Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza.

La città era completamente avvolta dal buio.

Non c’erano luci sui davanzali delle finestre.
Nessuno lo aveva aspettato.
“È stato tutto inutile…
Se nessuno mi ha aspettato, l’acqua non farà effetto…
Tutta la mia fatica è stata inutile!”
Si avviò mestamente.
Aveva voglia di buttar via l’acqua che gli era costata tanto.
Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò.
C’era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.
“Qualcuno mi ha aspettato!” disse.
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa.
Riconobbe la finestra e la casa.
In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato.
Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il paese delle ombre

Il paese delle ombre

C’era una volta uno strano piccolo paese addossato ad una montagna altissima.
Un paesino per tanti aspetti come tutti, ma a renderlo unico nel suo genere era il fatto che gli abitanti, sindaco in testa, erano assillati da un problema che poteva sembrare ridicolo, eppure era reale e praticamente irrisolvibile:
eliminare le ombre!
Come fossero arrivati a farsi un problema delle ombre, non si sa:
ne succedono tante nel mondo!
Fatto sta che la cosa era diventata tanto preoccupante che tutti ne erano ossessionati.

Le ombre erano onnipresenti, di tutte le dimensioni!

Si fece persino un museo delle ombre, con dipinti e fotografie; si allestì anche una biblioteca.
Furono chiamati oratori famosi e grandi studiosi per analizzare il più profondamente possibile la grave situazione.
In concreto non si arrivò a nessuna conclusione pratica, a parte qualche tentativo, rivelatosi inutile, come quello di organizzare un gruppetto di pittori che, con pennelli e un secchio di calce pronti, dovevano eliminare le ombre con una mano di bianco.
Era veramente ridicolo vedere per il paese questi onnipresenti pittori alle prese con l’ombra di tutti.
Dove sorgeva un’ombra nuova si precipitavano e tutte le case e le mura erano ormai imbiancate.
Figurarsi quando arrivava uno straniero, era lavoro doppio!
Gli abitanti infatti da tempo, durante il giorno, per non creare nuove ombre rimanevano tappati in casa!
Alcuni poi cercarono, presi dalla mania collettiva, di risolvere il problema per conto proprio:
un vecchietto, per esempio, ogni mattina quando le ombre erano più lunghe, si affannava, spalle al sole, con un grosso piccone a distruggere la propria ombra.

Ma tutto era inutile:

l’ombra era una realtà indistruttibile!
Il peggio fu che, poco a poco, ogni altro problema vero fu lasciato da parte e il paese cadde nel più completo abbandono.
Nessuno più veniva ad abitarvi e tutti si guardavano bene dal prendere iniziative che creassero nuove ombre.
Solo verso sera il paese sembrava entrare nella normalità.
Era quando la grande ombra della montagna scendeva e ricopriva tutto.
Non c’erano più ombre perché c’era un’unica grande ombra, che sembrava estesa quanto il cielo.
Allora il paese si rianimava.
I pittori prendevano un po’ di fiato e di riposo.
Ma presto, con il calare della notte, tutto si immergeva nel silenzio e non si accendevano luci perché esse creavano ombre ancora più fastidiose, per cui in breve tutti si mettevano a letto, pensando al guaio grande di vivere in un paese zeppo di ombre.
Un giorno passò di là un poveraccio, saggio della saggezza di chi aveva camminato tutta una vita e ne aveva visto di tutti i colori in giro per il mondo.
Egli, al vedere quanto succedeva in quel paese, in un primo momento non seppe contenersi dalle risa:
si divertiva soprattutto a far correre i pittori nei punti più svariati del paese, erigendo di nascosto cartelli e sagome varie per creare ombre improvvise, sempre nuove e strane.
Il gioco non durò a lungo.

Egli fu fermato e ammonito:

non si poteva scherzare sui problemi seri, su sforzi estenuanti di anni di ricerca e di tentativi.
Sulle prime il nostro forestiero fu tentato di andarsene.
Però quella gente gli faceva pena:
era sorta in lui una strana curiosità, un interesse che per la prima volta lo teneva bloccato nel suo vagabondare.
Man mano che passavano i giorni, il problema dell’ombra diventò anche per lui un’ossessione.
E fu proprio per scrollarsi di dosso questo incubo che un giorno si inerpicò tutto solo fin sulla vetta della montagna e di lassù vide il paesino illuminato dal sole, in tutta la sua pittoresca realtà.
Altro che ombre!
E’ il paese che esiste!
Il paese da lassù era un paese di case, di alberi, di persone che con la luce si rivelano.
Non era per niente un paese di ombre!
Aveva capito ciò in cui profondamente aveva sempre creduto in fondo al suo cuore e che gli abitanti di quel paese avevano, presi da una strana follia, dimenticato.
Scese di corsa e tutto trafelato andò dal sindaco e gli espose la sua intuizione, ma fu accolto con un sorriso ironico:
in un paese di pazzi il savio passa per matto.
“Sole o non sole, cose o non cose,” gli disse il sindaco “le ombre ci sono e questo è il nostro concreto.

Le ombre sono terribilmente ovunque e questo è evidente.

Tentare di risolvere il problema è il compito più importante che ci siamo assunti; in fondo è fare un servizio alla luce!”
Ormai si era prodotta una così grande distorsione mentale che si pensava alla luce in termini di ombra, come se si volesse decidere di fare il bene solamente cercando di eliminare il male.
Anche il parroco con le sue benedizioni non riusciva ad allontanare le ombre…
Il pover’uomo tornò alla sua capanna in fondo al paese un po’ meravigliato e un po’ sconsolato.
Però si sentiva come guarito da una malattia.
Non guardava più le ombre, anzi ricominciò a fare quello che aveva sempre fatto, ma ora con una grande gioia interiore:
accarezzava con lo sguardo tutte le cose che la luce rivelava.
Tutto era bello, nuovo, sembrava nascere allora.
Anche le ombre erano a loro modo belle perché contribuivano a delineare sempre meglio i contorni delle cose.
Non frequentò più il paese, anche perché quei poveri pittori, guardiani dell’ombra, un’istituzione benemerita, gli facevano pena.

Camminava solo per le strade dei prati o per i sentieri del monte.

Se parlava con qualcuno era per rivolgersi ai piccoli, perché i bambini credono a tutti.
Anzi ne aveva sempre intorno qualcuno che lo ascoltava nel suo raccontare di tante cose e nel dire soprattutto che le cose sono belle per quello che sono; che le ombre ci sono perché ci sono le case illuminate e che la luce è l’unica cosa bella perché ci fa vedere il volto delle persone, altro che l’ossessione di quel paese, dove si riconoscevano per l’ombra anziché per il volto!
I bambini che sono semplici e non capiscono i discorsi e i problemi dei grandi, tanto meno il problema delle ombre, crebbero con spontaneità e diventarono giovani un po’ contestatori, perché non badavano più alle ombre e si davano da fare per rinnovare il paese.
Gli anziani restarono sconcertati:
“Come si fa a ragionare con questa gioventù con idee così diverse!” si confidavano con amarezza e anche con segreta curiosità; e diffidavano chiunque dall’incontrare il forestiero.

Ma ormai il sortilegio era rotto.

A poco a poco il contagio dell’ombra passò.
Tutti cominciarono a guardare le cose per quello che erano e anche il paese delle ombre diventò un paese normale, il paese della realtà come tutti i paesi del mondo.
Il povero saggio da tempo si era rimesso in viaggio.
Il paese era guarito, e a lui era rimasta nel cuore una nuova profonda saggezza:
quando vedeva la sua ombra che fedelissima lo accompagnava, pensava al paese delle ombre e sorrideva dicendo tra sé:
“Se si guarda solo l’ombra, il male, non si vive più!
L’ombra e anche il male sono per la luce, per la vita, per il bene!” e dava un calcio alla propria ombra, un calcio all’aria, contento di vivere nella realtà.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Le ali dell’invidia

Le ali dell’invidia

Molto lontano da qui, in un luogo che non è segnato su nessuna carta geografica, esiste un paese, si trova ai piedi di una grande montagna.
Questo paese ha una particolarità, tutte le persone generose e di animo buono posseggono delle ali.
Si, proprio delle ali, per poter volare ed essere ancora più utili al prossimo.
Ogni anno, il sindaco con la sua giunta, eleggono i nuovi cittadini buoni donandogli delle magnifiche ali di soffici piume bianche.
Ovviamente i vincitori, essendo persone umili, quasi si imbarazzano nel ricevere questo meritato premio.
Purtroppo in questo particolare paese non esistono solo cittadini bravi, ve ne sono anche di cattivi; uno è particolarmente malvagio, se fa delle buone azioni è solo per ottenere qualcosa in cambio, è anche molto presuntuoso e invidioso, così tanto invidioso che vorrebbe a tutti i costi quelle magnifiche ali.
Così, ogni anno cerca di fare il buono per ottenere il tanto ambito riconoscimento, ma il sindaco non si fa ingannare facilmente e si accorge sempre che tutte le sue azioni sono false e per un secondo fine.
Così, il malvagio cittadino decide di avere quelle ali… costi quel che scosti.

Pensa e ripensa, escogita una perfida idea:

“Se nessuno mi regala le ali, me le costruirò da solo!
E non mi accontenterò di ali in sciocche piume bianche, le costruirò in modo da fare invidia a tutti:
le farò d’oro!”
Così si mise all’opera, ci volle parecchio tempo per costruire le ali ma, alla fine, il lungo lavoro terminò.
“Eccole finalmente!
Sono meravigliose!”
Pensò fiero di se l’uomo malvagio
“D’oro splendente, così tutti vedranno la mia ricchezza!

Rimarranno abbagliati dal loro splendore!”

Tutto questo avvenne proprio il giorno della nuova elezione dei cittadini buoni!
Quale migliore occasione per sfoggiare le sue splendenti ali davanti a tutti!!
Non restava che provare la sua opera, voleva essere visto da tutto il paese e così, con molta fatica, si mise le ali in spalla e si trascinò fino in cima alla montagna, tutti i suoi concittadini lo avrebbero visto volare fiero sopra le loro teste, visto che il paese si trovava proprio ai piedi della montagna.
Salito in cima, prese una lunga rincorsa e, arrivato all’orlo del precipizio, si lanciò nel vuoto!
In quel momento un grande bagliore provocato dal riflesso del sole sulle ali d’oro attirò l’attenzione di tutti i cittadini riuniti nella piazza per la grande manifestazione, i quali alzarono lo sguardo e videro inizialmente una grande luce, ma subito dopo un grande polverone, una valanga che si fermò solo dopo essere arrivata a valle.
Tutti i cittadini accorsero verso la “valanga” e videro, senza troppo stupore, che si trattava del loro concittadino malvagio, molti di loro cominciarono a deriderlo!

E lui?

Si vergognò profondamente!
Il peso del suo orgoglio, della sua malvagità, dell’arroganza, era tanto quanto l’oro pesantissimo delle sue ali che lo avevano fatto cadere rovinosamente così in basso!
Non si sa che fine abbia fatto lo spregevole individuo, non sappiamo se abbia cambiato le sue abitudini, ma di certo è stato un avvertimento per tutti coloro che hanno bramato più volte ali non meritate.

Brano senza Autore, tratto dal Web

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Il paese dei cani


Il paese dei cani

C’era una volta uno strano piccolo paese.
Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.
Facciamo un esempio.
Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.
Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c’era sempre qualcuno per la strada.
Facciamo un altro esempio.
Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni.
Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c’era sempre qualcuno spaventato.

Figurarsi se capitava un forestiero.

Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.
A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po’ sordi, e tra loro parlavano pochissimo.
Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.
Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare.

E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani.

Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di “bau bau” che faceva venire la pelle d’oca.
E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.
Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.
Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi.
I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro.
Domandò un’informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando.
Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
“Ho capito!” concluse Giovannino “È un’epidemia!”

Si fece ricevere dal sindaco e gli disse:

“Io un rimedio sicuro ce l’avrei.
Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate.
Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili.
Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo.”
Il sindaco gli rispose: “Bau! Bau!”
“Ho capito,” disse Giovannino “il peggior malato è quello che crede di essere sano!”
E se ne andò per i fatti suoi.
Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.

Brano tratto dal libro “Favole al telefono.” di Gianni Rodari

Lo spaccapietre di Estimj


Lo spaccapietre di Estimj

Fin dai tempi dei tempi esisteva a Vergny lo spaccapietre.
Il mestiere era antico e se lo trasmettevano di padre in figlio da trentotto generazioni.
Sullo spaccapietre di Vergny ci si poteva contare: guerra o pace, abbondanza o carestia, lui ci sarebbe sempre stato.
Chi andava a Vergny sapeva che ce l’avrebbe trovato.
Così si credeva ma così non fu per sempre.
Un giorno il Sindaco di Vergny si presentò all’ultimo degli spaccapietre e gli disse:
“Ho una bella sorpresa per te: finalmente smetterai di faticare!”

Lo spaccapietre abbassò il martello e rispose:

“Cosa potrebbe sostituirmi se non mio figlio, così come io sostituii mio padre?”
Il sindaco rise e lo invitò a seguirlo fino ad un casolare fuori città, proprio sotto la montagna.
Quindi lo introdusse in una grande stanza, dalle volte altissime, imbiancata di fresco.
Una volta dentro il Sindaco indicò un enorme telo al centro della stanza che copriva qualcosa di davvero imponente e, ancora ridendo, continuò:
“Ecco cosa ti sostituirà!”
Quindi tirò via il telo e scoprì una gigantesca macchina fatta di infiniti rulli ruotanti di varie dimensioni.
“Bella, vero?
È l’ultima novità del progresso meccanico nel campo delle pietre.
Siamo il primo comune ad averla, nel paese e nell’Europa intera.
Ci aspettano anni di prodigi e di traffici intensi.”
Lo spaccapietre rimase con la bocca aperta per qualche minuto.
Infine disse, iniziando a girare intorno alla struttura luccicante:
“Ma come sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire che da domani sei in pensione.
La fabbrica, come vedi, è già pronta.

Non sei contento?”

“Ma…” provò a replicare lo spaccapietre.
“Non preoccuparti: non morirai di fame.
La pensione che ti darò sarà congrua ai tuoi cinquanta anni di fatiche.”
Così detto schiacciò un bottone e la macchina prese a digerire sassi grossi quanto piccole montagne con la voracità di un dinosauro.
Lo spaccapietre si sentì gelare.
“E…” tentò nuovamente di rispondere lo spaccapietre.
“E tuo figlio dovrà trovarsi un altro mestiere, come ogni bravo giovane che si rispetti.
Non è il primo, non sarà l’ultimo.
Non c’è niente di male in questo.”
Il rumore divenne assordante.
“Però…” provò ad obiettare lo spaccapietre.
“La fabbrica andrà avanti da sola.
Come vedi è progettata per non essere governata da nessuno.
Uno dei nostri operai verrà qui di tanto in tanto per vedere se tutto funziona come deve.”
replicò il sindaco.

“Sì ma…”

Mentre parlava, lo spaccapietre venne interrotto nuovamente dal sindaco:
“Niente ferie, niente malattia.
In un giorno spaccherà le pietre che tu spaccavi in un anno, direttamente dentro la montagna.
Ti fa invidia, vero?
Vorresti avere la sua forza?
I suoi denti?
Le sue braccia possenti?
Niente da fare, sei solo un uomo.
Mettiti il cuore in pace.”
“E…” provò ad aggiungere inutilmente.
“Può bastare.
Ti accompagno a casa.
Sii felice e goditi la tua vecchiaia.
Il tuo mestiere lo lasci in buone mani.” concluse il sindaco.
Una volta a casa lo spaccapietre si accasciò davanti al camino.
Doveva dire a suo figlio, che già era apprendista spaccapietre, di cercarsi un altro mestiere.
Le lacrime gli scesero sulla zuppa e le mangiò insieme ai fagioli.
Sua moglie non seppe fare altro che massaggiargli i calli delle mani, come ogni sera.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non le venne tra le labbra nessuna buona parola.
Le uniche che seppe pronunciare furono:

“Ti insegnerò a ricamare le tovaglie!”

Dopo di queste non disse più niente.
Lo spaccapietre le prese per buone e non fu contento.
Sperava che avrebbe aiutato suo figlio fino alla morte, come suo padre con lui.
Quindi le rispose:
“Grazie, ma le tovaglie le lascio volentieri a qualcun altro.”
E così dicendo si addormentò piangendo.
Un mese dopo il figlio partì con il primo treno per il sud.
Era grande abbastanza per andare a cercarsi lavoro da solo, dovunque vi fosse stato.
Per consolare il padre, già sopra il treno, gli disse che quel mestiere, in fondo, non gli piaceva.
Che era felice di partire.
Che avrebbe trovato di meglio, senza dover rinunciare ad una famiglia, ad una casa e ad un buon pasto ogni giorno della settimana.
“Sei sicuro? Forse… cercando… insistendo…” chiese amorevolmente il padre.
“Sono sicuro!” rispose il figlio.
Lo spaccapietre fece finta di non sentire e lo lasciò partire.
Ricordava i giorni in cui gli spiegava i dettagli del suo lavoro.
Le prime pietre, immense, tra le mani.
I primi lavoretti d’apprendistato.

I primi calli.

Tutto era perduto.
Rimase con lo spaccapietre e sua moglie la giovane figlia.
Povera disgraziata!
Sarebbe cresciuta figlia di un pensionato senza mestiere, nessuno se la sarebbe presa in casa, nemmeno come serva.
Passarono così tre mesi senza gioie e senza miserie.
Finché una mattina lo spaccapietre si levò di buon’ora e si mise in cammino.
La pensione gli bastava per mangiare ma, da quando non aveva più un mestiere, non aveva più fame.
E poi c’era da mettere da parte la dote per la figlia, se la voleva maritare bene.
“Parto.” disse alla moglie.
“E dove vai? Sei vecchio.” lei gli rispose.
“Arriverò a Estimj e lì mi venderò al mercato.” replicò lui.
“E chi ti comprerà? Sei vecchio.” aggiunse lei.
“Qualcuno mi comprerà.
Poi tornerò e vi porterò con me.” rispose tranquillamente lui.
“Se tornerai!… sei vecchio.” ripetè nuovamente la moglie.

“Sai dirmi solo questo?” chiese lo spaccapietre.

Aveva deciso di passare la montagna per raggiungere Estimj, la grande città accanto al fiume.
Una volta lì avrebbe offerto la sua arte e la sua esperienza al miglior offerente.
Certo, sapeva fare soltanto lo spaccapietre, ma era già qualcosa.
Di sicuro avrebbe trovato qualcuno in grado di apprezzare le sue doti e la sua abilità.
Poi avrebbe richiamato con sé la sua famiglia e sarebbe invecchiato contento.
Avrebbe regalato alla figlia una bella dote e l’avrebbe sposata ad un uomo di giudizio.
Infine sarebbe morto come tutti i vecchi e al suo funerale la città avrebbe pianto.
Camminando su per la montagna giunse al grande fiume che divideva le due città di Vergny e di Estimj.
Si era già preparato a passare oltre quando vide che di là dal ponte la strada era interrotta.
Una grande frana, scendendo dalla montagna, l’aveva interamente sommersa.
“Come farò a raggiungere la città?” pensò.
Poi, vista la gravità della situazione, considerando che non aveva fretta, passò il ponte, si tolse la giacchetta e si mise subito a lavorare.
Era importante ripristinare quanto prima la via maestra.
Del resto erano mesi che non pesava più una sola pietra.

Un po’ di sana fatica l’avrebbe ritemprato.

Dopo alcune ore di lavoro, spostando e spezzando pietra su pietra, con attrezzi rudimentali, si trovò fra le mani il corpo di una giovane donna.
La ragazza, ferita, era svenuta ma ancora in vita.
Aveva soltanto bisogno di calore, riposo e cure.
“Adesso devo andare in città.
Questa giovane ha bisogno d’essere medicata.
E manca poco all’apertura del mercato.
Fortuna che ho quasi finito.
Il resto del lavoro, poche pietre, lo potrà compiere qualcuno degli addetti alla manutenzione delle strade.”
Detto questo si caricò la giovane sulle spalle e partì.
Appena in città lo spaccapietre consegnò la giovane ad un’infermiera dell’ospedale e si recò al mercato.
“Hei… lei… dove scappa?” chiese l’infermiera.
“Devo andare assolutamente al mercato!” rispose il vecchio spaccapietre.

“Ma questa giovane?” continuò l’infermiera.

“Era sepolta sotto una frana, accanto al ponte.
Presto, non perda tempo con me: è ancora in vita!” replicò lui.
“Ma lei: come si chiama?
Qualcuno vorrà sapere!” provò ad aggiungere l’infermiera.
“Che importa, infermiera: le salvi la vita, il resto andrà da sé!” concluse.
“Vendesi fatica di spaccapietre esperto.
Cinquant’anni di lavoro e di maestria.
Opere pulite e senza polvere…”
Il mercato era pieno d’ogni ben di dio.
Lo spaccapietre si mise in mostra, urlò come tutti gli altri e aspettò per l’intera mattinata.
Non lo volle comprare nessuno.
Qualcuno gli chiese di dare dimostrazione della sua forza.
Ci provò ma era talmente stanco, dopo tutto quel lavoro notturno, che non riuscì a sollevare nemmeno un sassolino.
“A Vergny c’è una macchina che trita la montagna senza una sola goccia di sudore!” gli dissero.
“Che costa poco e che lavora parecchio.

Soprattutto senza un’ombra di difetto.

Si dice che nessuno le faccia da guardia e che faccia tutto da sola.
A Vergny stanno arricchendo a vista d’occhio.
Tutti vanno a Vergny per le pietre.
A che serve, ormai, uno spaccapietre?”
Era seduto sconsolato sui gradini del Duomo, a stomaco vuoto, quando sentì da una radio accesa accanto ad una finestra aperta la seguente notizia:
“Questa mattina la figlia del Gran Magnate del Tabacco di Estimj, ancora priva di sensi, è stata lasciata in ospedale da uno sconosciuto.
La giovane, sveglia da circa un’ora, ha raccontato d’aver perso conoscenza vicino a Ponte Salvo, sepolta da una frana.
Sta bene e, per sua fortuna, non ha riportato alcuna lesione né interna né esterna.
Solo qualche graffio e qualche esile ferita.
Ma poteva andarle molto peggio.
Il Sindaco di Estimj si è detto disponibile, come segno di riconoscenza e a nome della città tutta, ad esaudire qualsiasi desiderio gli sia fatto pervenire dallo sconosciuto salvatore, purché si presenti!”
La notizia sollevò il morale dello spaccapietre, che si alzò e si mise in cammino verso il Municipio della grande città.
“Gli chiederò la grazia di darmi lavoro come spaccapietre in questa città.

È grande e ne avrà bisogno.

E inoltre di permettermi di trasferire con me anche mia moglie e mia figlia e di trasmettere la mia arte e il mio mestiere a mio figlio, come da trentotto generazioni avviene nella mia famiglia.
E di farmi vivere contento finché non sarò sepolto.”
Al Municipio lo spaccapietre fu ammesso a colloquio ma non fu creduto.
La storia che raccontò sembrava combaciare con quella narrata dalla figlia del Gran Magnate del Tabacco, ma chi la raccontava era troppo vecchio per una simile opera, gli rispose il Sindaco in persona, e troppo stolto.
“Le assicuro che ero proprio io, sulla montagna…” disse lo spaccapietre.
“Basta così! L’accuso di attentare al buon nome della città, nonché alla mia buona fede personale e a quella del Gran Magnate del Tabacco.”
Così dicendo il Sindaco chiamò le guardie e lo fece rinchiudere in galera.
La notizia dell’arresto corse in fretta per l’intera città e anche oltre:
“Un vecchio spaccapietre, licenziato dal suo lavoro per inedia, ha rivendicato il salvataggio della giovane figlia del Gran Magnate del Tabacco.
Fonti ben informate raccontano che, per la sua buona azione, abbia chiesto in ricompensa una casa, un lotto di terra, un conto milionario in una banca fuori paese, un posto alle Poste per il figlio debosciato, un marito barone per la figlia svergognata, una pensione d’invalida per la moglie nullatenente e per se stesso una vasca idromassaggio, un cane di razza e un’amante fotomodella di non più di ventidue anni.

È stato arrestato per menzogna acclamata.”

Fortunatamente i giornali pubblicarono anche la sua foto.
La città ci sputò sopra ma l’infermiera che quella mattina aveva accolto la ragazza lo riconobbe e testimoniò per lui in tribunale.
Il pianto della giovane donna salvata, nel sentire la voce dell’anziano spaccapietre mentre raccontava ancora una volta tutta la storia, fu la prova decisiva della sua buona fede.
Il Gran Magnate del Tabacco pianse con la figlia e gli regalò una scatola di sigari in legno d’abete.
Dopo quindici mesi lo spaccapietre di Vergny venne così rilasciato con le scuse della Magistratura, del Tribunale, della Corte, del Guardiacella e del Sindaco in persona.
“Mi chieda qualsiasi cosa: ho con lei un enorme debito da saldare!”
Lo spaccapietre non sapeva più cosa chiedere.
In tutto quel tempo il figlio aveva trovato un buon lavoro come netturbino, la figlia si era fidanzata con un promettente banchiere figlio di banchieri e lui era invecchiato a vista d’occhio.
Adesso le pietre le poteva solo carezzare.
“Vorrei tornare a casa, e niente più.”
Il Sindaco crollò di schianto.
Stava preparando la sua ricandidatura al seggio più alto della città e voleva presentarsi ai suoi concittadini con un gesto di grande impatto emotivo.
Tirò le somme e pronunciò:
“Se non chiede nulla le darò io qualcosa.”
Così detto tirò fuori da un cassetto una grossa chiave d’oro.
“Le consegno le chiavi della città!

Da oggi sarà questa la sua casa!”

“Il Municipio?” chiese il vecchio spaccapietre, ingenuamente.
“Ma no!” proseguì il Sindaco ridacchiando:
“La città intera.
Scelga una casa e sarà sua.
Un giardino e sarà suo.
Un pezzo di terra e sarà suo.
Al resto penserò io, purché si sappia.
Le farò avere un congruo compenso e una congrua pensione.
Il tutto a spese del paese.
Lo spaccapietre ringraziò per l’offerta e scelse la casa più modesta.
La scelse perché da ogni finestra si poteva vedere la montagna.
Che poi avesse un solo bagno, due stanze e una cucina non gli importava.
Si fece fare pure una rimessa per i suoi attrezzi e le sue pietruzze.
Già si vedeva a fabbricare piccoli portavasi in marmo sotto l’ombra di un pino nei pomeriggi estivi.
Quindi invitò la moglie a raggiungerlo e maritò la figlia e il figlio; e tutto proseguì per il meglio.
La conclusione, dopo tanti anni, si può ancora leggere nella targa affissa a Estimj in Piazza Mastù, proprio di fronte al Duomo:
“Qui riposò un giorno lo spaccapietre che spostò una montagna, salvò una donna e recitò canzoni per il carcere circondariale.”

Brano senza Autore, tratto dal Web