La leggenda del folletto Mazariol

La leggenda del folletto Mazariol

Quasi tutti i bambini hanno paura di qualcosa.
Io, vivendo in un clima famigliare rassicurante, di paure non ne ebbi molte.
Nella stalla della nostra famiglia, molto frequentata in quegli anni per i filò, arrivò un amico di mio padre, reduce della prima guerra mondiale.
Intratteneva tutti noi bambini con giochi e scherzi, ma soprattutto con racconti fantastici.
Una sera ci narrò del folletto Mazariol, personaggio appartenente alle favole del Veneto, famoso per gli eclatanti dispetti.
La sera successiva, in attesa dell’arrivo degli altri partecipanti al filò, mi mandò a comprare un sigaro nella vicina osteria.
Andai volentieri, sia perché dovevo percorrere poco meno di cento metri, sia perché l’oste spesso mi regalava una caramella.
Dopo pochi passi percepì uno strano fischio-fruscio, non ben definito, il quale aumentava quando acceleravo il passo, mentre smetteva quando mi fermavo.

Il buio non mi aiutava a capire.

Ricordando la storia raccontata la sera prima dall’amico di mio padre, pensai fosse il folletto Mazariol, che mi seguiva per punirmi delle mie marachelle.
Allorché mi spaventai tantissimo e tornai al filò ansimante e cadaverico, nonché con il cuore che batteva fortissimo.
Cercai di spiegare agli adulti quello che mi era successo, i quali capirono al volo la motivazione del mio spavento.
La causa del fischio-fruscio era dovuta, semplicemente, allo strofinamento dei pantaloni nuovi di velluto.
L’episodio lo descrissi più avanti in un tema a scuola.
La maestra, allora, ci spiegò che il folletto Mazariol, secondo la leggenda (che oggi si può trovare in Google), avesse perfino sconfitto Attila, il re barbaro degli Unni, ingannando la sua ferocia con i suoi scherzi da folletto, nella splendida cornice delle montagne della Val Belluna, tra fitti boschi e ampi prati.
Era vestito tutto di rosso, compreso il caratteristico copricapo e le scarpe a punta.
Si riparava nei “covoli”, così chiamati i “covi” (ricoveri) per ripararsi nella notte, e nelle grotte, cavità naturali formatesi da erosioni e fenomeni carsici.

Sono tante le narrazioni che lo riguardano.

Tra le più note, quelle che rivelano come si dedicasse alla pastorizia e di come fosse diventato un ottimo “casaro”, tanto da aver inventato la ricotta e il formaggio “Casatella Trevigiana”, omaggiando la terra pianeggiante che lo ospitava durante la transumanza, nei periodi più freddi dell’inverno.
Negli anni aveva trovato un posto bellissimo, di cui era l’unico privilegiato ospite, posto allo sbocco delle montagne.
Era un ampio “covolo”, formatosi come una grotta, lungo il fiume Piave.
Sulla roccia della sponda destra, aveva creato il suo laboratorio ed il suo magazzino, dove riponeva le sue casatelle di formaggio, realizzate con latte crudo.
In quel periodo la fame era tanta e dilagava la pellagra, malattia, questa, che portava allucinazioni e sonno.

Il folletto Mazariol, nonostante tutto era di buon cuore con gli sfortunati, ma terribile e dispettoso con i cattivi.

Infatti, appendeva sui rami degli alberi la casatella per sfamare i più sfortunati.
Però, quasi nessuno la conosceva e i più, credendo fosse un miraggio, vagavano oltre.
Oggi, grazie a lui, la “Casatella trevigiana” è un prodotto DOP (Denominazione di Origine Protetta) e approda nelle migliori tavole.
Il “covolo” abitato dal mitico folletto si presume dia il nome al bellissimo ed ospitale paese Covolo di Piave.
Solo alcune persone, però, conoscono la storia secondo la quale il folletto Mazariol amasse fare il bagno annuale e asciugare i panni sulla Grave di Ciano, dove le acque erano più tranquille.
Una volta fattosi bello raccoglieva i “Mammai” (la “Stipe Pennata” o “Lino delle Fate”) e faceva il romantico con le Fate del Montello, che proprio sulle Grave di Ciano amavano riunirsi per ballare e cantare, incantate dalla bellezza unica del posto.

Brano di Dino De Lucchi

Il crocifisso con il braccio destro staccato

Il crocifisso con il braccio destro staccato

In un’antica cattedrale, appeso ad altezza vertiginosa, c’è un imponente crocifisso d’argento che ha due particolarità.
La prima è la corona di spine sul capo di Gesù:
è tutta d’oro massiccio tempestato di rubini e il suo valore è incalcolabile.

La seconda particolarità è il braccio destro di Gesù:

è staccato e proteso nel vuoto.
Una storia ne spiega il motivo.
Molti anni fa, una notte, un ladro audace e acrobatico progettò un piano perfetto per

impadronirsi della splendida corona d’oro e rubini.

Si calò da uno dei finestroni del tetto legato ad una corda e oscillando arrivò al crocifisso.
Ma la corona di spine era fissata molto solidamente e il ladro aveva solo un coltello per tentare di staccarla.
Infilò la lama del coltello sotto la corona e fece leva con tutte le sue forze.

Provò e riprovò, sudando e sbuffando.

La lama del coltello si spezzò e anche la corda, troppo sollecitata, si staccò dal finestrone.
Il ladro si sarebbe sfracellato sul pavimento, ma il braccio del crocifisso si mosse e lo afferrò al volo.
Al mattino i sacrestani lo trovarono lassù, sano e salvo, tenuto saldamente (e affettuosamente) da Gesù crocifisso.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il passero ed il girasole

Il passero ed il girasole

In una discarica abusiva, in un angolo abbandonato di una zona industriale di una città, era nato un girasole, che aveva fatto amicizia con un passero!
Il fiore era triste:
sognava un prato verde e farfalle svolazzanti.
“A che servo io qui?” si chiedeva.
Ma l’uccellino guardava il girasole, raggiante, a becco aperto:
“Come sei bello!
Sei meraviglioso!” trillava.
“Ci sono molte cose più belle!” rispondeva il saggio girasole, “Guardati intorno!”
Il buon passero si guardava diligentemente intorno, ma finiva sempre per voltarsi verso il girasole e pigolare con aria ammirata:

“Il più bello di tutti sei tu!”

Così, ogni giorno, il girasole prendeva coraggio e cresceva, tanto da troneggiare, ormai, sul mucchio di rifiuti.
La sua corona d’oro splendeva sempre di più!
Ma un giorno, al sorgere del sole, il fiore attese invano il suo piccolo amico.
Solo nel tardo pomeriggio sentì un pietoso pigolio ai suoi piedi!
Si piegò e vide il passero che si trascinava con un’ala ferita.
“Piccolo amico mio, che cosa ti è successo?” gli chiese.
“Un gabbiano mi ha colpito e da alcuni giorni non riesco a trovare niente da mangiare.
È la fine per me!” bisbigliò l’uccellino.
“No no!” urlò il girasole, “Aspetta un attimo!”
Il bel fiore scosse con vigore la sua grande corolla e una pioggia di semi scese sul passero.

“Mangiali, amico mio!

Ti daranno nuova forza!” disse il girasole.
Giorni dopo, il passero aveva ripreso vigore e, riconoscente, si voltò a guardare il girasole.
Ma fu ferito da una dolorosa sorpresa:
lo splendido fiore aveva perso i colori, le foglie penzolavano grigiastre e i petali erano terrei!
“Che cosa ti è successo bellissimo fiore?” pigolò.
“Il mio tempo è finito!” rispose il girasole.
“Ma me ne vado felice!
Per tanto tempo mi son chiesto quale crudele destino mi avesse fatto nascere in una discarica.

Ora ho capito:

sono stato un dono per te e ti ho ridato la vita!
Come tu sei stato un dono per me perché mi hai sempre incoraggiato.
Mangia tutti i semi che vuoi ma lasciane qualcuno!
Un giorno germoglieranno e, chissà, forse qui sorgerà una splendida aiuola!”

Brano senza Autore

La fontana vicino al lago

La fontana vicino al lago

Il lago, limpido e silenzioso, aveva trascorso anni a rimirare la splendida fontana che sorgeva sulle sue rive e ad invidiare le belle forme che creava ed i suoni che, ininterrottamente, produceva.
“Quant’è piena di vita!
Quant’è vivace!
Non riposa mai:
non è mai stanca!
È sempre così viva!
Quanto vorrei essere una fontana!” pensava, “Quanto vorrei poter vivere la sua vita:

così varia e interessante!

Quante volte ho udito la gente meravigliarsi ed entusiasmarsi dei suoi giochi d’acqua!
Quando giungono sulle mie rive si limitano a passarmi davanti, in silenzio!
A volte qualche coppia se ne sta lì, mano nella mano:
ma non so bene il perché…
Altri, seduti sui prati o su una panchina, fissano il paesaggio statico e monotono che offro!
Quanto vorrei essere una fontana!
Ma, purtroppo, sono un lago e neppure dei più belli:
non sono particolarmente profondo, né grande, né suggestivo!
Sono così insignificante!”

Da anni, allo stesso modo, la fontana osservava il lago, limpido e silenzioso, e lo invidiava immensamente.

“Quant’è calmo!” pensava, “Guardatelo:

non cerca di impressionare nessuno!
Le sue acque non corrono, non si agitano!
Non gli servono acrobazie!
Io, invece, ho un bisogno compulsivo dell’attenzione altrui.
Faccio di tutto per attirare la gente, ma sono così stanca!
Quant’è felice, invece, il lago!
La gente passeggia sulle sue rive senza che lui debba intrattenere nessuno:
si siede sul prato e si gode il placido sciabordio delle sue piccole onde.
Un lago non fatica, non pena!
Se io smettessi di far tutti i miei giochi, chi verrebbe più a vedermi?
Niente è più patetico dello spettacolo di una fontana ferma e muta.
Ah, quanto vorrei essere un lago silenzioso e placido!
Darei qualunque cosa per cambiare la mia sorte con la sua, anche per poco!”

Accettare la propria vita non significa dire:

“Va tutto bene!”
Ma:
“C’è tutto!
C’è già tutto quello che può rendermi felice e realizzato!”

Brano senza Autore

La leggenda della farfalla blu

La leggenda della farfalla blu

La leggenda della farfalla blu narra di un uomo vissuto molti anni fa, rimasto vedovo e con due figlie di cui prendersi cura.
Le due bambine erano estremamente curiose, intelligenti e desiderose di imparare.
Per saziare la loro fame di conoscenza, riempivano in continuazione il padre di domande.
Talvolta egli dava loro risposte sagge, ma non sempre era facile convincere le due bambine o rispondere correttamente ai loro quesiti.
Notando l’inquietudine delle sue due figlie, l’uomo decise di mandarle in vacanza presso un saggio che viveva sull’alto di una collina,

per convivere insieme ed imparare da lui.

Il saggio si mostrò in grado di rispondere senza alcuna esitazione a qualsiasi quesito da parte delle due bambine.
Un giorno, però, le due sorelle decisero di architettare un’astuta trappola per il saggio per poter misurare la sua saggezza.
Una notte, le due si misero ad ideare un piano:
proporre al saggio una domanda alla quale egli non fosse in grado di rispondere.
“Come possiamo ingannare il saggio?
Quale domanda potremmo fargli per coglierlo impreparato?” domandò la sorella minore.
“Aspettami qui, te lo mostro subito.” rispose la più grande.
La sorella maggiore discese la collina, e passata un’ora, tornò con il grembiulino chiuso a mo’ di sacco, nascondendo qualcosa.
“Cos’hai lì?” chiese la sorella piccola.
La sorella maggiore infilò una mano nel grembiule e mostrò alla bambina una splendida farfalla blu.

“Che meraviglia!

Cos’hai intenzione di farne?” domandò allora la sorella piccola.
“Sarà questa l’arma che ci permetterà di ingannare il maestro con una domanda a trabocchetto.
Lo cercheremo e, una volta trovato, terrò la farfalla nascosta in una mano.
Domanderò poi al saggio di dirmi se la farfalla che ho in mano sia viva o morta.
Se egli mi dirà che è viva, stringerò forte la mano e la ucciderò.
Se risponderà che è morta, la lascerò libera.
Qualunque sia la sua risposta sarà dunque sempre errata!”
Accogliendo la proposta della sorella maggiore, entrambe le bambine si misero alla ricerca del saggio.
“Saggio,” disse la più grande, “sapresti indicarci se la farfalla che ho tra le mani è viva o morta?”

Al che il saggio, con uno scaltro sorriso, rispose:

“Dipende da te, essa è nelle tue mani!”

Il nostro presente e il nostro futuro sono unicamente nelle nostre mani.
Quando qualcosa va storto, non bisogna dare la colpa a nessuno.
Siamo sempre e solo noi gli unici responsabili di ogni nostra perdita e ogni nostra conquista.
La farfalla blu rappresenta la nostra vita.
Sta a noi decidere cosa fare di essa.

Leggenda Popolare.
Brano senza Autore.

La rosa nel diamante

La rosa nel diamante

Il più prezioso diamante del mondo era in origine deturpato da una screpolatura.
Avevano deciso di farne una tranciata di diamanti industriali, ma un abile intagliatore,

con infinita pazienza e molto tempo,

trasformò quella screpolatura in una splendida rosa.
Quella che oggi tutti ammirano, intagliata nel diamante.

La vita è piena di sorprese.
Ci sono giorni buoni e giorni cattivi.

Ci sono problemi e guai che ci fanno soffrire.

Ma ci tengono svegli.
E spesso ci costringono a tirar fuori la parte migliore di noi stessi.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il serpente a sonagli ed il giovane

Il serpente a sonagli ed il giovane

In una tribù indiana, i giovani venivano riconosciuti adulti dopo un rito di passaggio vissuto nella più stretta solitudine.
Durante questo periodo di solitudine dovevano provare a se stessi di essere pronti per l’età matura.
Una volta uno di loro camminò fino a una splendida valle verdeggiante di alberi e radiosa di fiori.
Guardando le montagne che cingevano la valle, il giovane notò una vetta scoscesa incappucciata di neve dal biancore abbacinante.

“Mi metterò alla prova contro quella montagna.” pensò.

Indossò la sua camicia di pelle di bisonte, si gettò una coperta sulla spalla e cominciò la scalata.
Quando arrivò in cima, vide sotto di sé il mondo intero.
Il suo sguardo spaziava senza limiti, e il suo cuore era pieno di orgoglio.
Poi udì un fruscio vicino ai suoi piedi, abbassò lo sguardo e vide un serpente.
Prima che il giovane potesse muoversi, il serpente parlò.
“Sto per morire!” disse, “Fa troppo freddo quassù per me e non c’è nulla da mangiare.

Mettimi sotto la tua camicia e portami a valle!”

“No!” rispose il giovane, “Conosco quelli della tua specie.
Sei un serpente a sonagli.
Se ti raccolgo mi morderai e il tuo morso mi ucciderà!”
“Niente affatto,” disse il serpente, “Con te non mi comporterò così.
Se fai questo per me, non ti farò del male!”

Il giovane rifiutò per un po’, ma quel serpente sapeva essere molto persuasivo.

Alla fine, il giovane se lo mise sotto la camicia e lo portò con sé.
Quando furono giù a valle, lo prese e lo depose delicatamente a terra.
All’improvviso il serpente si arrotolò su se stesso, scosse i suoi sonagli, scattò in avanti e morse il ragazzo a una gamba.
“Mi avevi promesso…” gridò il giovane.
“Sapevi che cosa rischiavi quando mi hai preso con te!” disse il serpente strisciando via.

Brano tratto dal libro “L’importante è la rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione Elledici.

I mille ducati

I mille ducati

Il giorno delle nozze, un principe fece il suo ingresso nella capitale del suo regno accanto alla sposa novella.
I due sposi avanzavano in una splendida carrozza, mentre ai lati della strada due ali di folla applaudivano.
Ma, nella piazza davanti al castello, tutti ammutolirono.
Su un alto patibolo, un malfattore stava per essere impiccato.
Il condannato aveva già infilato la testa nel cappio.

La principessa scoppiò in lacrime.

Il principe chiese al giudice se era possibile annullare l’esecuzione, come dono di nozze alla sua sposa.
La risposta fu un secco no.
“Ci sono dunque delitti che non possono trovare perdono?” chiese la principessa con un filo di voce.
Uno dei consiglieri del principe fece notare che, secondo un’antica consuetudine della città, qualsiasi condannato poteva riscattarsi pagando la somma di mille ducati.
Una somma enorme.
Dove si poteva trovare tanto denaro?
Il principe aprì la sua borsa, la svuotò e ne uscirono ottocento ducati.
La principessa, frugando nel suo elegante borsellino, ne trovò altri cinquanta.
“Non potrebbero bastare ottocentocinquanta ducati?” chiese.

“La legge ne vuole mille!” ribatterono.

La principessa scese e fece una colletta tra paggi, cavalieri e passanti.
Fece il conto finale: novecentonovantanove ducati.
E nessuno aveva più un ducato.
“Dunque per un ducato quest’uomo sarà impiccato?” esclamò la principessa.
“È la legge!” rispose impassibile il giudice e fece cenno al boia di cominciare l’esecuzione.
A quel punto la principessa gridò:
“Frugate nelle tasche del condannato, forse qualcosa ce l’ha anche lui!”
Il boia ubbidì e da una delle tasche del condannato saltò fuori un ducato d’oro.

Quello che mancava per salvargli la vita.

Nel cuore di ognuno c’è quanto basta a salvargli la vita.
La bontà, l’amore, la felicità in molti sono come stoppini spenti.
Basta un piccolo fiammifero per accenderli.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero

L’aquilone

L’aquilone

Un padre mette sempre a disposizione la sua allegria, la sua inventiva, la sua esperienza per trascorrere dei bei momenti con i propri figli.
Questo è un dono talmente meraviglioso che ogni gioco e ogni attività si trasformano per i ragazzi in appassionanti avventure.
L’aquilone, che con cannucce, carta da pacchi e colla il padre confeziona per i bambini, quando si libra nel cielo può quasi sembrare il simbolo di una situazione magica di rapporti fra padre e figli.

Uno Scoglio d’Isola rappresentò per varie estati la realizzazione dei nostri sogni di ragazzi, quando dall’obbligo e dalla fatica della scuola la nostra immaginazione correva alla libertà delle vacanze.

Ma una di quelle estati, tutte belle, fu per noi specialmente splendida:

l’estate in cui nostro padre, che di solito stava con noi per pochi giorni, decise di prendersi anche lui una vacanza completa.
Diventava un nostro compagno maggiore, la nostra guida; noi ci affidavamo a lui, come una vela s’affida al vento favorevole, come una squadra s’affida al suo capo geniale.
La casetta in cui abitavamo, si trasformava in certi giorni in una officina; i campi delle nostre gesta erano il gran prato sopra lo scoglio e lo specchio di mare davanti ad esso.
Un giorno papà veniva a casa con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti:
per una settimana, con disperazione della mamma, noi assordavamo l’aria di fischi e nessun passaggio all’aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi.
Un altro giorno vedevamo papà manipolare misteriosamente ogni sorta di stracci; noi eravamo stati sguinzagliati a procurargliene e non gli bastavano mai:
ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa.

Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato,

divisi in due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per afferrarla a volo; e che urti, certe volte, da stramazzare a terra!
I primi giorni, nell’entusiasmo, il sole tramontava e noi eravamo ancora sudati e pesti ad accanirci nel gioco, senza neppure udire i ripetuti richiami che ci invitavano a rientrare in casa per la cena.
Quell’anno delle meraviglie fu anche Panno delle nasse.
Papà, che era andato a Trieste, tornò una sera con due strane gabbie di fil di ferro lucido; noi, andati a prenderlo al vaporetto, gli saltammo intorno inebriati dalla novità e dietro a noi gli altri ragazzi dell’isola, curiosi di vedere e di toccare quelle belle nasse (antichi attrezzi da pesca), fiammeggianti, di tipo tanto diverso dalle vecchie di vimini a cui erano abituati.
Il giorno dopo, visto il tramonto, prese tutte le precauzioni e determinato ben bene il posto davanti allo Scoglio, dalla barca calammo a fondo le nasse.
Quella notte non dormimmo, nell’attesa dell’alba, per tirarle di nuovo su.
Fu veramente un entusiasmo di gioia quando, nel risollevarle a bordo, vedemmo dentro quelle gabbie dibattersi un mucchio di pesci fra i quali molte bellissime varietà di sarago ed un’orata di un quarto di chilo.

Ma il divertimento delle nasse durò ben poco.

Un brutto giorno, cerca e ricerca, perdemmo due ore a scandagliare il fondo inutilmente:
le nasse, che facevano troppa gola anche ai pescatori, ci erano state rubate.
A consolare il nostro dolore venne presto un’altra trovata di nostro padre.
Una mattina lo vedemmo davanti la casa, affaccendato con grandi fogli di carta d’impacco, con lunghe stecche ricavate da canne con barattoli di colla, di farina, con gomitoli di spago.
Fu una giornata indimenticabile; il lavoro durò ininterrotto per ore ed ore.
Il risultato fu un aquilone spettacolare, robusto come un aeroplano, con una coda lunghissima e, per reggerlo, un gomitolo di spago sforzino che non ci stava nelle mani.
Trasportammo il drago sul prato, come un trofeo.
I nostri cuori battevano, quando papà ci dette tutte le istruzioni per il via.
Noi dovevamo sollevare quel drago enorme quanto più in alto potessimo, reggergli la lunghissima coda e, a un suo ordine, mollare tutto,
Lui, che teneva il grosso gomitolo dello spago, dopo aver spiato il vento prese a un tratto la rincorsa in direzione opposta e ci gridò di mollare.
Trepidanti seguimmo il mostro, che barcollò, poi trasportato dal vento, cominciò a salire, salire e ad allontanarsi nel cielo.
Fra lo stupore commosso di tutti noi, si levò più su del campanile.
Lo vedevamo piccolo come un falchetto, superbo nel volo, e il filo vibrava e noi facevamo fatica a trattenerlo.
Il nostro aquilone fu per parecchi giorni la meraviglia d’Isola e tutti venivano sullo Scoglio a vederlo.

Brano di Giani Stuparich

La ricerca di Dio

La ricerca di Dio

Tre giovani avevano compiuto diligentemente i loro studi alla scuola di grandi maestri.
Prima di lasciarsi fecero una promessa:
avrebbero percorso il mondo e si sarebbero ritrovati, dopo un anno, portando la cosa più preziosa che fossero riusciti a trovare.
Il primo non ebbe dubbi:
partì alla ricerca di una gemma splendida ed inestimabile.
Attraversò mari e deserti, salì sulle montagne e visitò città fino a quando non l’ebbe trovata:

era la più splendida gemma che avesse mai brillato sotto il sole.

Tornò allora in patria in attesa degli amici.
Il secondo tornò poco dopo tenendo per mano una ragazza dal volto dolce ed attraente.
“Ti assicuro che non c’è nulla di più prezioso di due persone che si amano!” disse al primo amico. Si misero ad aspettare il terzo.
Molti anni passarono prima che quest’ultimo arrivasse.
Era infatti partito alla ricerca di Dio.
Aveva consultato i più famosi maestri di spiritualità esistenti sulla terra, ma non aveva trovato Dio.
Aveva studiato e letto, ma senza trovare Dio.

Aveva rinunciato a tutto, ma non era riuscito a trovare Dio.

Un giorno, stremato per il tanto girovagare, si abbandonò nell’erba sulla riva di un lago.
Incuriosito seguì le affannate manovre di un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i suoi piccoli, che si erano allontanati da lei.
I piccoli erano numerosi e vivaci, e sino al calar del sole l’anatra cercò, nuotando senza sosta tra le canne.
Proseguì instancabile riconducendo sotto la sua ala fino all’ultimo dei suoi nati.
Allora l’uomo sorrise e decise di ritornare al paese.
Quando gli amici lo rividero, uno gli mostrò la gemma e l’altro la ragazza che era diventata sua moglie.
Poi, pieni di attesa, gli chiesero:
“E tu, che cosa hai trovato di tanto prezioso?

Deve essere qualcosa di magnifico se hai impiegato tanti anni.

Lo vediamo dal tuo sorriso…”
“Ho cercato Dio.” rispose il giovane.
“E lo hai trovato?
È per questo che hai impiegato così tanto tempo?” chiesero i due, sbalorditi.
“Sì, l’ho trovato.
E se ho impiegato tanto tempo era perché commettevo l’errore di andare a cercare Dio, mentre in realtà, era Lui che stava cercando me.”

Brano senza Autore, tratto dal Web