Gli auguri meccanici

Gli auguri meccanici

Un giovane, invitato al matrimonio di un amico, fu incuriosito dal gran numero di persone che si recavano a porgere gli auguri agli sposi e ai parenti degli sposi, che in fila li ricevevano.
Aveva notato che ospiti e parenti degli sposi si scambiavano meccanicamente frasi rituali, senza neppure ascoltarsi reciprocamente.
Perciò si mise in fila e, quando arrivò di fronte al primo parente, disse con tono pacato e con il sorriso sulle labbra:

“Oggi è morta mia moglie!”

La risposta fu:
“Mille grazie, molto gentile!”
Ripeté la stessa frase a un altro parente e gli fu risposto:
“Molto gentile, grazie infinite!”
Alla fine arrivò dallo sposo, sempre ripetendo la stessa frase.

Questa volta la risposta fu:

“Grazie.
Adesso tocca a te, vecchio mio!”

Brano senza Autore

Beniamino

Beniamino

Beniamino era un bambino delizioso.
Quando sgambettava nella culla, in mezzo alle lenzuoline e le coperte di raso celesti, sembrava proprio un angioletto.
La mamma, il papà, le nonne e le zie non sì stancavano di vezzeggiarlo e di ripetergli tante parole dolci e carine.
La nonna materna diceva:
“Guardate che piccole graziose orecchie che ha, e come ci sentono bene!
Certamente diventerà un grande musicista!”
La nonna paterna, per non essere da meno, incalzava:
“Osservate piuttosto la sua adorabile boccuccia e come dice bene ‘nghée, ‘nghée.
Sicuramente diventerà un grande poeta!”

La zia Clotilde cinguettava:

“Macché, macché!
Sono i piedini che devono essere ammirati:
sarà un grandissimo ballerino, ve lo dico io che me ne intendo!”
A sentire tutti questi complimenti, i genitori di Beniamino esprimevano tanta soddisfazione, con il cuore gonfio d’orgoglio paterno e materno.
Beniamino cresceva un po’ capriccioso, ma papà, mamma, nonne e zie si consolavano facilmente dicendo:
“Sono tutti così, da piccoli!”
Così arrivò, anche per Beniamino, il momento di varcare, con aria baldanzosa e lo zainetto nuovo, il portone della scuola elementare.
I primi tempi furono felici.
Beniamino si comportava come tutti gli altri:
non era più gentile né più maleducato dei suoi compagni.
Ma con il passare del tempo, la situazione peggiorò.
Beniamino cominciò a trasformarsi.
Piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse, divenne cattivo e prepotente.
Si divertiva a far cadere dalla giostra i bambini più piccoli; giocando a calcio nel cortile scalciava più gli avversari che il pallone; trovava sempre qualcuno con cui litigare.

Faceva la “spia” per farsi bello con la maestra.

“Dov’è finito il mio bell’angioletto?” si disperava la mamma di Beniamino, davanti alle note che i maestri gli scrivevano sul diario.
“Uffa!” sbuffava Beniamino, “Ce l’hanno tutti con me!”
Prometteva di migliorare, ma il giorno dopo se n’era già dimenticato.
Alla Scuola Media le cose non migliorarono.
Beniamino diventò un attaccabrighe impertinente.
Imparò a tempo di record tutte le peggiori parolacce e non si faceva certo pregare a ripeterle, specialmente sull’autobus, tanto per sembrare “più grande”.
Le mamme del quartiere minacciavano i figli:
“Guai a te se ti vedo con Beniamino:
è un ragazzaccio!”
Se qualcuno raccontava barzellette sporche, Beniamino era il primo ad ascoltare.
Se c’era da prendere in giro o canzonare qualcuno, Beniamino era del numero.

Aveva pochi amici, ma tutti della sua risma.

La loro impresa preferita era riuscire a rubacchiare qualcosa ai supermercati e poi scappare.
Anche la zia Clotilde, che pure gli voleva bene, si beccò una rispostaccia così volgare, che per il dispiacere fu costretta a mettersi a letto.
“Ma se fanno tutti così!” continuava a ripetere Beniamino, quando qualcuno lo rimproverava.
La cosa strana cominciò quando compì i quattordici anni.
E questa volta Beniamino cominciò a preoccuparsi per davvero.
Durante l’adolescenza il corpo cambia, ma lo specchio rivelava a Beniamino che in lui avvenivano dei cambiamenti inconsueti.
Le sue orecchie si allungavano sempre di più, appuntite verso l’alto, e prendevano una strana grigia pelosità.
I suoi piedi gli prudevano spesso e soprattutto non sopportavano più né calze né scarpe.
Prendevano anch’essi uno strano colorito grigiastro, finché un giorno si trasformarono in due zoccoli d’asino
Beniamino li guardò inorridito.
Ma invece di dire:
“Che cosa mi succede?” si mise a ragliare come un asino, “Ihah! Ihah!”
A quel roboante raglio, tutti i suoi parenti accorsero.
Il povero Beniamino, con le lacrime agli occhi, non sapeva spiegarsi.
“È nell’età del cambiamento di voce.” disse zia Clotilde, ma non ci credeva neppure lei.

Una cosa era certa.

Con quelle orecchie e quegli zoccoli da asino, per non parlare della voce, Beniamino non poteva tornare a scuola.
“Dobbiamo cercare un medico, il più grande che c’è.
Ti saprà certamente guarire!” disse il papà.
Cercarono sulle Pagine Gialle, ma non trovarono nessun medico specializzato nella cura di ragazzi che diventano asini.
Così un mattino freddo e nebbioso, Beniamino lasciò i suoi genitori e la sua casa.
Andava per il mondo a cercare qualcuno che lo guarisse da quella strana malattia che fa diventare animali gli uomini.
Beniamino attraversò il mondo da nord a sud e poi da est a ovest.
Interrogò dottori, stregoni, sciamani, guaritori di tutti i tipi.
Tutti erano molto gentili con lui, ma poi gli dicevano che le sue orecchie pelose erano molto utili contro il freddo, che i suoi zoccoli gli facevano risparmiare le scarpe e che la sua voce era comoda quando la nebbia era fitta fitta.
Passarono sette anni.
Beniamino ora conosceva le lacrime, apprezzava la gentilezza, sapeva quanto ferivano i rifiuti e le villanie.
Senza accorgersene, era diventato un altro.
Ma il suo problema rimaneva.
Stava per rassegnarsi al suo triste destino, quando giunse alla grande villa dei marchesi Bellaspina.
Tutti quelli che vedeva però erano in lacrime.
Piangevano il marchese e la marchesa, singhiozzavano le cameriere, gemeva il maggiordomo, uggiolavano i cani, si lamentavano i gatti.
Uno spettacolo da strappare il cuore.
In un profluvio di lacrimoni, la marchesa spiegò a Beniamino il motivo di tanto dolore:

“Ahinoi!

La nostra bella Rosalia, nostra figlia, è stata rapita.
L’ha portata via il perfido Battistone e l’ha nascosta sulla Montagna del Diavolo, dove nessuno osa salire!”
Beniamino si commosse:
“Non piangete più.
Andrò sulla montagna e la troverò!”
La Montagna del Diavolo era aspra, ma Beniamino era più che mai deciso ad affrontare il bandito.
Tendeva le sue lunghe orecchie d’asino per sentire anche il minimo rumore.
Passando davanti all’imboccatura di una grotta nera e paurosa, percepì un flebile lamento.
Coraggiosamente s’inoltrò nel nero imbuto dove svolazzavano i pipistrelli.
Ora sapeva dove si trovava Rosalia.
Il bandito aveva disseminato sul terreno della grotta taglientissimi pezzi di vetro e chiodi affilati, ma, con i suoi zoccoli d’asino, Beniamino poteva correre, mentre con la sua voce roboante gridava continuamente:
“Ihah! Ihah!”
Gridava con tutte le sue forze, sperando che Rosalia sentisse e gli rispondesse per guidarlo nei mille cunicoli della grande grotta nera.
Tendeva le sue orecchie a destra e a sinistra, finché sentì chiaramente un singhiozzo.
Sfregò un fiammifero su una pietra e vide Rosalia legata a un palo.
Com’era bella!
Beniamino la slegò, poi fece un inchino e mormorò:

“Buongiorno, madamigella, io mi chiamo Beniamino!”

In quel momento si accorse che la sua voce era una bella voce baritonale, perfettamente umana.
Aveva talmente gridato che la sua voce d’asino si era rotta.
Aveva talmente ascoltato che le sue orecchie d’asino erano cadute come foglie morte.
I suoi zoccoli si erano talmente consumati sui pezzi di vetro e sui chiodi che erano spariti.
Al loro posto c’erano due bei piedoni umani.
Al colmo della felicità, ma anche per paura di un improvviso ritorno di Battistone, Beniamino prese in braccio la bella Rosalia e fuggì più veloce che poteva, correndo con i nuovi piedi sul sentiero spianato dai suoi zoccoli.
Quando arrivò a Bellaspina tutti lo abbracciarono e baciarono.
Anche Rosalia naturalmente che, per non essere da meno, lo sposò.
Ebbero tre figli.
Il primo fu ballerino, il secondo musicista e il terzo poeta.
Perché Beniamino e Rosalia vegliarono attentamente che a nessuno di loro crescessero orecchie, zoccoli o voce d’asino.

Brano di Bruno Ferrero

La pallina d’oro

La pallina d’oro

Molto tempo fa c’era un giovane che se ne andava in giro tra i boschi pensando a cosa dovesse fare della sua vita, quale fosse la strada giusta da imboccare e come poteva fare per guadagnarsi un pezzo di pane.
Mentre camminava sentì una voce che lo chiamava e, dopo aver guardato in giro, scoprì un fringuello su un ramo che gli parlava con voce umana:
“Bel giovane, fermati e ascolta.
Adesso canterò la mia canzone; mentre la canto dovrai prendermi e scuotermi senza farmi male.

Vedrai che dal becco mi uscirà una pallina d’oro:

raccoglila e mettila in tasca, così diventerai capace di saper sempre ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e, in ogni momento saprai che cosa è meglio per te.
Quanto a me mi addormenterò nel cavo dell’albero e tu potrai andartene per la tua strada!”
Così andarono le cose e il giovane riprese il cammino con la pallina d’oro in tasca, finché arrivò in una città con ricche botteghe e bei palazzi, dove la gente vendeva e comprava, mangiava e dormiva, leggeva e scriveva, discuteva e correva come in tutte le città del mondo.
Solo che qui tutti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, piangevano a dirotto senza mai smettere.
Il giovane sentì che la pallina, misteriosamente, gli impediva di tirare dritto ed una vocina gli suggeriva.
“Tu devi fare qualcosa per questa gente!”
Sentendosi pieno di coraggio, andò subito dal re che singhiozzava sul suo trono e gli disse di non preoccuparsi perché era arrivato ad aiutarli.
“Ad aiutarci?” rispose il re piangendo ancora più forte, “Non sai che la nostra città è minacciata da un terribile drago che mangerà tutti noi se non gli consegniamo ad una ad una le nostre ragazze più belle?

Ne ha già prese nove e l’ultima è mia figlia!”

Il giovane sentiva che la pallina gli infondeva sempre più coraggio e con sua stessa sorpresa rispose:
“Vi do la mia parola che domani vi porterò la testa e la coda del drago, così le vostre disgrazie finiranno!”
Il re pensò che fosse pazzo:
i suoi più bravi cavalieri avevano fallito nell’impresa, come poteva un ragazzo così giovane e senza spada e armatura far meglio di loro?
Il giovane indovinò i suoi pensieri, sorrise chiese una spada e dei viveri.
Gli portarono due spade:
una di purissimo acciaio intarsiato d’oro e d’argento che mandava bagliori in tutta la sala e l’altra semplice, ordinaria e pensante che sapeva di sudore e fatica.
Il giovane stava allungando la mano per prendere la prima quando la pallina d’oro fece sentire la sua voce consigliando di prendere l’altra:
“Non tutto ciò che luccica è utile, le cose serie, il più delle volte, non hanno un aspetto attraente!”
Il giovane prese la vecchia spada e partì verso la collina.
Lassù il drago si era costruito un castello di ferro con sette porte e sette torri, circondato da un fossato pieno d’acqua sporca ed enormi coccodrilli.
Il giovane percorse il ponte ed arrivò alla prima porta, bussò e il drago aprì.
Quando lo vide e sentì le richieste del giovane che lo invitava a lasciar stare gli abitanti del paese e a restituire le ragazze, scoppio a ridere e la porta si chiuse con un terribile tonfo e il ponte dietro il giovane crollò.

Al ragazzo non restava che andare avanti.

Si avviò verso le porte e vide che ognuna portava una scritta, “Porta dei Re”, “Riservata ai Principi”, “Di qui passano i cavalieri” e così via finché sulla settima trovò scritto:
“Entrata.”
Pensò, su suggerimento della pallina, di non essere un nobile e quindi aprì la settima porta.
Si udì il grido infuriato del drago che non capiva come il giovane avesse trovato la porta giusta, infatti, dietro alle altre c’erano numerose trappole e trabocchetti e centinaia di cavalieri che vi erano caduti dentro.
Il giovane, attraversato un lungo corridoio, arrivò in un’ampia sala dove giovani e ragazzi elegantemente vestiti, ridevano, ballavano e mangiavano cibi dal profumo invitante.
Lo presero invitandolo a stare con loro e a divertirsi lasciando perdere l’idea di aiutare gli abitanti piagnoni, tanto nessuno lo avrebbe ricompensato.
Il giovane esitò, ma la pallina d’oro bruciava come fuoco.
Emise un gran sospiro e disse:
“Ho dato la mia parola!” e passò oltre.
La parete si aprì, tutti svanirono poiché erano illusioni create dal drago e il giovane si trovò davanti allo stesso drago.
Era arrivato il momento del combattimento ma il drago prima offrì al giovane un’armatura preziosa.
“Fossi matto, questa renderebbe i miei movimenti goffi e impacciati” e, così dicendo, rifiutò.
La pallina d’oro approvò la decisione, il drago era terrorizzato e con due colpi di spada il giovane gli tagliò la testa e la coda.
Dal castello uscirono una dopo l’altra le otto ragazze che teneva prigioniere, ma mancava l’ultima:

la figlia del re.

Gli raccontarono che era stata trasformata in un fringuello ed era riuscita a fuggire nel bosco.
Il giovane si ricordò dell’uccello che gli parlò con voce umana e corse nel bosco.
Addormentata sotto all’albero c’era la principessa, il giovane la svegliò e la riportò a casa insieme alle altre ragazze.
La tristezza nel paese finì e, come succede nelle fiabe, il giovane povero sposò la figlia del re.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

Tanti, tanti anni fa, in un piccolo villaggio, vivevano un uomo e una donna.
Prima essi avevano abitato in una città, in un palazzo bello e ricco.
Ora invece vivevano poveramente in una misera capanna.
In tanta sfortuna, la loro unica consolazione era la figlia che avevano.
Sebbene ancor molto giovane, tutti l’ammiravano già per la sua straordinaria bellezza.
Ma, ahimé, prima che la ragazza fosse cresciuta, il padre morì e dopo pochi mesi anche la madre cadde gravemente malata.
“Che sarà di mia figlia, quando anch’io sarò morta?” ripeteva piangendo la donna, “È povera, e la sua bellezza sarà per lei soltanto un castigo.”
Quando la poverina sentì d’esser prossima a morire, chiamò a sé la ragazza, le raccomandò di essere buona e coraggiosa, e le disse di portarle il mastelletto di legno che stava dietro la porta.
La ragazza ubbidì e si inginocchiò accanto al letto della madre morente.
La donna alzò il mastelletto e lo mise in testa alla figlia in modo da nasconderle quasi completamente la faccia.
“Ora, figlia mia,” disse la donna, “promettimi di non toglierti mai di testa questo mastelletto.
Altrimenti, sarai molto infelice.”

La ragazza promise.

Morta che fu la madre, la ragazza campò come meglio poteva.
Lavorava sodo aiutando i contadini nei campi, e mai nessuno udì da lei una parola di lamento per quel che doveva fare.
La gente che la vedeva sempre col mastelletto in testa cominciò a chiamarla Mastellina.
A poco a poco tutti dimenticarono che sotto quella strana maschera si nascondeva il più bel volto del paese.
Un ricco possidente nei cui campi la ragazza lavorava, finì per accorgersi di lei, ammirato dalla sua modestia e diligenza.
Un giorno la chiamò, e le offrì di andare a servizio nella sua casa a curare la moglie ch’era molto malata.
La ragazza accettò l’incarico e svolse così bene il suo compito da meritarsi la fiducia di tutti.
Un giorno, il maggiore dei figli del padrone tornò a casa dalla città dove studiava.
Conobbe Mastellina, prese ad ammirare il suo carattere tranquillo e la sua indole buona, e andava chiedendo alla gente del villaggio notizie su di lei.
Seppe così che era un povera orfanella, da tutti chiamata Mastellina a causa appunto del mastelletto che portava in testa per nascondere, si diceva, i brutti lineamenti del suo viso.
Ma una sera, il giovanotto si avvicinò a Mastellina che portava un pesante secchio pieno d’acqua e vide il volto della ragazza riflesso nell’acqua del secchio.

Era di una bellezza eccezionale.

Egli decise subito di sposare la giovane serva.
I suoi genitori non approvarono la sua scelta, ma il giovane fu irremovibile e tanto disse e tanto fece che riuscì a fissare la data delle nozze.
Mastellina rimase molto male quando seppe che i suoi padroni non l’accettavano volentieri come nuora in casa loro.
Essa piangeva giorno e notte, e pregò il suo fidanzato di sposare una donna che potesse portargli una ricca dote.
Ma una notte essa vide in sogno sua madre, la quale le disse:
“Non temere, figlia mia.
Sposa pure il figlio del tuo padrone.”
La ragazza ne fu felice, si alzò tutta allegra e cominciò a prepararsi per le nozze.
Prima della cerimonia nuziale, tutti volevano togliere dal capo della sposa quello strano casco, ma nessuno ci riuscì.

Lo sposo però disse:

“Io le voglio tanto bene, e la sposerò così com’è!”
Le nozze furono celebrate.
Dopo la cerimonia ci fu uno splendido banchetto:
tutti erano intorno alla sposa a brindare alla sua salute, quando, all’improvviso, il mastelletto si spaccò in due cadendo per terra a pezzi con gran fracasso.
Oh meraviglia!
I pezzi erano tutti d’oro, d’argento e di pietre preziose.
Così la povera ragazza poté vantare una dote più bella e più ricca di quella di una principessa.
Ma quel che più stupì gli invitati fu la straordinaria bellezza della sposa.
I brindisi in onore della coppia felice non si contarono più; grida, canti e risate andarono avanti fino al mattino.

Brano di Bruno Ferrero

L’acqua della cascata (Il vino in regalo)

L’acqua della cascata
(Il vino in regalo)

Una coppia di giapponesi si sposò in tarda età e, con grande gioia e sorpresa, ebbe un figlio.
Lo allevarono con tutto l’amore e la cura possibile e, pur essendo molto poveri, lo mandarono alla scuola di un saggio perché crescesse anche nello spirito.

Il ragazzo, tornato a casa, aveva un unico desiderio:

sdebitarsi in qualche modo con i suoi genitori.
“Che potrei mai fare,” chiese loro, “di realmente gradito per voi?”
“Niente ci è più caro della tua stessa presenza!” risposero i vecchi, “Se però vuoi proprio farci un regalo, procuraci un po’ di vino.
Ne siamo golosi, e son tanti anni che non ne beviamo un goccio!”
Il ragazzo non aveva un soldo.
Un giorno, mentre andava nel bosco a far legna, attinse con le mani l’acqua che precipitava da un’enorme cascata e ne bevve:

gli parve avesse il sapore del vino più dolce e schietto.

Ne riempì un orcio che aveva con sé e tornò in fretta a casa.
“Ecco il mio regalo!” disse ai genitori, “Un orcio di vino per voi.”
I genitori assaggiarono l’acqua e, pur non sentendo altro gusto che quello dell’acqua, gli sorrisero e lo ringraziarono molto.
“La prossima settimana ve ne porterò un altro orcio!” disse il figlio.
E così fece per molte settimane di seguito.
I genitori stettero al gioco:
bevevano l’acqua con grande entusiasmo ed erano felici di vedere il sorriso fiorire sul volto del figlio.

Avvenne così un fatto:

i loro acciacchi scomparvero e le loro rughe si appianarono, quasi quell’acqua avesse qualcosa di miracoloso.
E in realtà era così:
che cosa rende più giovani i genitori se non il gioire del dono di un figlio, qualunque esso sia?

Leggenda Giapponese.
Brano senza Autore.

La felicità a scoppio ritardato

La felicità a scoppio ritardato

C’era una volta un re che aveva una figlia, bella e virtuosa.
Il re non voleva che la sua unica figlia, buona e intelligente, finisse per sposare il primo figlio di re o principe che domandasse la sua mano.
Era giustamente preoccupato e brontolava:
“Questi giovani che sono stati educati nei palazzi, tra onori e ricchezze smisurate, sono dei bambini viziati; ricercano solo il loro piacere, e non sarebbero in grado di governare dopo la mia morte.
Quello che voglio è una persona degna di fiducia, fosse anche un contadino o un operaio.”
Ma tutti quelli che facevano la fila davanti alla sua porta per chiedere la mano della bellissima principessa o erano stupidi e vanitosi, o rozzi e scortesi, o grandi intenditori di armi e cavalli, ma ignoranti e incolti.
Il re decise di cercare per sua figlia un buon artigiano, un operaio, laborioso e previdente, che potesse prendersi cura di lei.

Iniziò perciò a girare i cantieri, alla ricerca di un uomo prestante, laborioso, simpatico e intelligente.

Davanti a ogni casa in costruzione chiamava il proprietario e il capomastro perché gli indicasse qualcuno che faceva al caso suo, un uomo che potesse diventare suo genero e che fosse degno di ereditare un giorno il suo trono.
Un giorno il re passò davanti a una casa in costruzione e vide dei giovani operai che trasportavano mattoni su un’impalcatura.
Uno di loro attrasse la sua attenzione; andò a cercare il proprietario dell’edificio e chiese informazioni su di lui.
“E’ un operaio che lavora per me senza ricevere salario.
Mangia e beve alla mia tavola, dorme in casa mia, ma non riceve denaro!” rispose il proprietario.
E continuò:
“Suo padre era un mercante importante.
Quando morì mi doveva ancora centomila denari d’oro.
Allora ho preso con me il ragazzo e gli ho insegnato il mestiere.
Lavora dall’alba al tramonto, e in tal modo paga il debito del suo defunto padre.”

Il re allora disse:

“Ti pago tutto quello che ha mangiato e bevuto e in più saldo l’intero suo debito.”
Il proprietario accettò e ricevette la somma proveniente dal tesoro del re.
Senza parlare, il re condusse il giovane muratore nel palazzo reale.
I servitori gli tolsero i suoi abiti dismessi e sporchi di calce.
Il barbiere di corte gli tagliò accuratamente barba e capelli.
I sarti gli prepararono su misura degli abiti ricamati, poi un solerte maggiordomo lo guidò nella sala da pranzo, dove fu servita una squisita cenetta.
Il giovane mangiò e bevve, ma si sentiva frastornato, per tutto quello che gli stava capitando.
I servitori del re lo condussero allora in una stanza del palazzo che era stata preparata per lui, e il giovane cadde sul letto, stanchissimo, e si addormentò.
Tutti erano allegri, meno lo sposo
Il mattino dopo, il re fece chiamare nel suo studio il giovane muratore e gli disse:
“Mi sei piaciuto.
Voglio darti mia figlia in sposa.

Se vuoi sposarla, così com’è, bene.

Altrimenti ti farò uccidere.
Nella stanza accanto ci sono le mie guardie del corpo.
Se rifiuterai, ti incateneranno e ti taglieranno la testa.”
Il povero giovane non aveva scelta.
Perdere la vita, dopo tutto, gli sarebbe dispiaciuto assai.
Perciò rispose al re:
“Accetto.”
Incominciarono i preparativi per le solenne nozze reali.
Il re invitò tutti i nobili del regno, i suoi ministri, i fedeli vassalli e i notabili della città.
La festa cominciò tre giorni dopo e venne celebrata con molto sfarzo e splendore.
Il vino scorreva come acqua.
Tutti gli invitati si divertivano ed erano allegri e felici.
Lo sposo invece era triste e preoccupato:

“Come sarà la mia sposa?

Forse è cieca e zoppa, forse muta o malata…
Perché il re mi obbliga a sposarla per forza?
C’è sicuramente una ragione!”
Il povero giovane era in preda allo sconforto e alla preoccupazione.
Con un certo batticuore attese la fine del ricevimento.
Finalmente tutti gli invitati fecero ritorno a casa e gli sposi rimasero soli.
Il giovane di rivolse alla ragazza:
“Vieni, avvicinati.”
Lei si avvicinò.
“Preparami qualcosa da mangiare.” disse lui tanto per metterla alla prova, “Ho fame.
Non sono abituato alla cucina del castello.”
Sorridendo, la figlia del re preparò una deliziosa macedonia di frutta e del latte.
Poi lui le disse:
“Scrivi una lettera alla mia vecchia madre.”
E lei si sedette e scrisse la lettera.

Lui le disse ancora:

“Raccontami una bella storia, mi piacciono le storie.”
E la figlia del re fece quello che le aveva chiesto suo marito, già conquistata dal suo fascino e dalla sua intelligenza.
Nel giro di pochissimo tempo, insomma, il giovane muratore scoprì che la moglie che gli era stata imposta era praticamente perfetta.
Era bellissima, intelligente, una brava massaia, buona e capace in tutto.
Il giovane si rallegrò moltissimo che gli fosse toccata una sorte così.
Qualche mese dopo, il genero del re invitò tutti i ministri e i notabili del regno e fece dare a palazzo reale una grande festa.
Era contento, allegro, felice.
Ballò tutta la notte, bevve del vino e mangiò frutti deliziosi.
I re e i suoi ministri gli chiesero:
“Come mai eri così triste alle tue nozze e sei invece così felice ora?”
Il genero ed erede del re rispose:
“Il re mi aveva costretto a sposare sua figlia, minacciando di mettermi a morte se non avessi accettato.
Pensai che forse sua figlia aveva un’infermità, che forse fosse cieca o zoppa…”
Ma ora che ho vissuto con lei per alcuni mesi, so che possiede ogni virtù: è bella e buona.
Ecco perché la mia gioia è grande, ho il privilegio di ave ricevuto una perla: la figlia di un grande re, una moglie buona e fedele.”

Brano senza Autore, tratto dal Web