La crisi aveva picchiato duro e in famiglia tutti sentivano un nodo in gola.
Il papà era stato messo in cassa integrazione e da giorni si parlava solo di come riuscire a risparmiare.
A cena si percepiva un silenzio imbarazzato, nessuno aveva voglia di parlare.
Improvvisamente la mamma batté le mani per attirare l’attenzione di tutti:
“Tutti in piedi, venite fuori con me!”
Sbalorditi, seguirono la mamma fuori, nel piccolo giardino.
“Guardate il cielo!” disse lei.
Tutti guardarono in su.
L’immensa cupola di velluto nero era un trionfo di stelle vive e pulsanti.
Fissandolo si provava come una vertigine, come se tutta quella brillante moltitudine li risucchiasse in un vortice senza fondo.
Si sentirono piccoli piccoli.
Si strinsero l’un l’altro e si abbracciarono.
Quell’incredibile spettacolo li soggiogava e li spronava:
era tutto così grande, illimitato, senza tempo.
Allargava la mente e il cuore, infondeva un nuovo coraggio.
“È di notte che si vedono le stelle!” disse semplicemente la mamma.
Brano tratto dal libro “È di notte che si vedono le stelle.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.
Per anni e anni, Ghior girò il mondo alla ricerca di qualche risposta ai suoi affannosi “Perché?”
Da piccolo aveva perso la mamma e il papà e aveva dovuto arrangiarsi per vivere, subendo ogni sorta di privazioni.
La vita, tra imprevisti, delusioni e accidenti di ogni tipo, non gli aveva mai sorriso veramente.
Ora, stanco e arrabbiato, stava per abbandonarsi definitivamente allo sconforto, ma, prima di mollare la presa, decise di fare un ultimo viaggio per il mondo e, preparata alla buona una sacca con cibo e vestiti, s’incamminò alla ricerca di risposte.
Dopo molto tempo, una notte molto fredda, arrivò in un piccolo villaggio, poche tende di pastori, qualche fuoco e molte stelle.
Entrò in una delle tende e vicino al fuoco vide addormentata una vecchia donna.
Stava quasi per svegliarla e chiederle ospitalità, quando una mano gli sfiorò la spalla.
Girandosi di scatto, si trovò davanti un giovane:
era un guerriero che sottovoce, ma con tono imperioso, gli disse:
“Per la notte copriti con questa!” e gli porse una coperta morbidissima, di lana pettinata, ricamata con colori accesi:
nemmeno il tempo di ringraziare, ed era già sparito.
La luce tenue dell’alba svegliò Ghior, che ancora sotto la sua coperta, si sentì invadere dal peso dei suoi perché e dai suoi dubbi antichi.
La vecchia donna rientrando nella tenda con una brocca fumante di latte di capra e qualche focaccia gli disse:
“Figliolo, smetti di tormentarti per nulla!”
“Ma la mia sofferenza e le mie disgrazie sono nulla?” rispose Ghior stupito e rattristato.
“Figliolo, riprese la donna, “smetti di tormentarti!
Ciò che ti ha tenuto caldo durante la notte è proprio la risposta che cerchi!”
Ghior non capiva.
Cos’era questa cosa che lo aveva tenuto caldo per tutta la notte… ed era anche la risposta ai suoi perché?
Sfiorando il bordo della coperta, la morbidissima sensazione della lana si trasformò in una illuminazione:
“La coperta!
La coperta mi ha tenuto caldo, la coperta!
Ma… come può essere la risposta ai perché complicati della mia vita?”
Appoggiato il latte e le focacce per terra, la vecchia donna si chinò fino a sedersi al giaciglio di Ghior.
“Guarda figliolo,” disse mostrandogli un lato della coperta, “cosa vedi?”
“Dei colori bellissimi, e disegni ancor più belli ricamati con perfezione mai vista!” rispose Ghior.
“Ora guarda l’altro lato: cosa vedi?” domandò ancora la donna.
“Vedo il tipico aggrovigliarsi dei fili del ricamo, colori sovrapposti, confusione, nodi curati ma sempre nodi, e tagli di filo e colori, intrecci imprevisti, senza senso, disegni incomprensibili e brutti da vedere!” esclamò Ghior.
“Ecco figliolo, la vita, la tua vita è esattamente così:” continuò la donna,
“tu sei sotto il ricamo della vita, puoi vedere questa coperta solo da sotto; è la condizione umana.
Nel frattempo, per te, su di te e dentro di te si ricamano dall’altro lato disegni e sfumature straordinarie e di una bellezza sconvolgente, e per questo ricamo a volte si rende necessario tagliare, fare nodi, correggere.
Da qua sotto è ovvio che senza un po’ di fede e fantasia vedi solo tagli, nodi e confusione, ma guarda un po’ cosa sta realizzando Dio su di te… un disegno bellissimo!” e dicendo queste ultime parole, con un sorriso, concluse il suo discorso.
Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.
“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.
“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primaveracon i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.
Se permette, anzi, mi presento:
io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”
“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.
“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”
Nessuno rispose.
La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.
Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.
Misha era un orsacchiotto di peluche.
Aveva le piante dei piedi in velluto avana, una sciarpetta e un nasetto, sempre di velluto, marrone.
Apparteneva ad una bambina capricciosa, che a volte lo colmava di coccole e a volte lo sbatteva di malagrazia sul pavimento prendendolo per le delicate orecchie di stoffa.
Così, un bel giorno, Misha prese la più grande decisione della sua vita: scappare.
Approfittò della confusione dei giorni che precedevano ilNatale, infilò la porta e si riprese la libertà.
Se ne andò nella neve battendo i tacchi, felice come non era mai stato.
In ogni angolo faceva scoperte meravigliose:
gli alberi, gli insetti, gli uccelli, le stelle.
Misha sgranava gli occhi:
era tutto così incredibilmente bello.
Venne la sera di Natale, quella in cui tutte le creature sono invitate a fare una buona azione.
Misha sentì i sonagli di una slitta.
Era una Renna che correva tirando una slitta carica di pacchetti avvolti in carta colorata.
La Renna vide l’orsacchiotto, si fermò e gli spiegò, con molta cortesia che sostituiva Babbo Natale, il quale era troppo vecchio e malandato e con tutta quella neve non poteva andare in giro a piedi.
La Renna invitò Misha a salire.
E così Misha cominciò a girare città e paesi sulla slitta magica di Babbo Natale.
Era proprio lui che deponeva in ogni camino un giocattolo o un regalino confezionato apposta.
Si divertiva, era pieno di gioia.
Se fosse rimasto il piccolo saggio giocattolo, avrebbe mai conosciuto una simile notte?
Ed ecco che arrivò l’ultima casa: una povera capanna ai margini del bosco.
Misha cacciò la mano nel gran sacco, cercò, frugò: non c’era più niente!
“Renna, o Renna!
Non c’è più niente nel tuo sacco!” disse l’orsacchiotto.
“Oh!” gemette la Renna.
Nella capanna viveva un ragazzino ammalato.
L’indomani, svegliandosi, avrebbe visto le sue scarpe vuote davanti al camino?
La Renna guardò Misha coi suoi begli occhi profondi.
Allora Misha sospirò, abbracciò con un colpo d’occhio la campagna dove gli piaceva tanto gironzolare tutto solo e, alzando le spalle, mettendo avanti una zampa dopo l’altra, uno-due, uno-due, per fare la sua buona azione di Natale, entrò nella capanna, si rannicchiò in una scarpa e aspettò il mattino.
Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.
Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:
quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.
Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.
La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.
Mancava ugualmente qualcosa.
Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”
Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.
C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.
Preoccupato del senso della vita e dell’ultimo giorno, e soprattutto del Giudizio Finale, a cui prima o poi certamente sarebbe andato incontro, un uomo fece un sogno.
Dopo la morte, si avvicinò titubante alla grande porta della Casa di Dio.
Bussò, ed un angelo sorridente venne ad aprire.
Lo fece accomodare nella sala d’aspetto del Paradiso.
L’ambiente era molto severo.
Aveva il vago aspetto di un’aula di tribunale.
L’uomo aspettava, sempre più intimorito.
L’angelo tornò dopo un po’ con un foglio in mano, su cui, in alto, campeggiava la parola “conto.”
L’uomo lo prese e lesse:
“Luce del sole e stormire delle fronde, neve e vento, volo degli uccelli ed erba.
Per l’aria che abbiamo respirato e lo sguardo alle stelle, le sere e le notti …”
La lista era lunghissima.
“… Il sorriso dei bambini, gli occhi delle ragazze, l’acqua fresca, le mani ed i piedi, il rosso dei pomodori, le carezze, la sabbia delle spiagge, la prima parola del tuo bambino, una merenda in riva ad un lago di montagna, il bacio di un nipotino, le onde del mare…”
Man mano che proseguiva nella lettura, l’uomo era sempre più preoccupato.
Quale sarebbe stato il totale?
Come, e con che cosa, avrebbe mai potuto pagare tutte quelle cose che aveva avuto?
Mentre leggeva con il batticuore, arrivò Dio.
Gli batté una mano sulla spalla.
“Ho offerto io!” disse ridendo, “Fino alla fine del mondo…
È stato un vero piacere!”
Il piccolo mago era sempre stato allegro e di buon umore.
Ma negli ultimi tempi, veniva assalito da un’improvvisa tristezza e pensieri pieni di nuvoloni neri.
Le mele sono mature, pensava, e io non ho nessuno con cui condividere una bella mela rossa.
I funghi sono cresciuti nel bosco, ma non c’è nessuno che viene a raccoglierli con me per fare insieme una squisita pizza ai funghi.
E sospirava pensando a come sarebbe stato bello avere un amico.
Un giorno passò di là un ragazzo.
Lesto il piccolo mago uscì dalla sua casetta nel bosco e gli domandò:
“Vuoi essere mio amico?”
“Ho già un amico, si chiama Mariolone.” rispose il ragazzo e continuò la sua strada.
Allora il piccolo mago andò a trovare il leprotto e gli chiese:
“Vuoi essere mio amico?”
Ma il leprotto si accontentò di scuotere la testa e fare “no” con le lunghe orecchie.
La stessa cosa risposero il capriolo, il cinghiale ed il boscaiolo.
“Tanto peggio per voi!” pensò il piccolo mago. “Io posso farmi un amico perfetto con un colpo di bacchetta magica.”
Salì su una grossa pietra, si avvolse nel mantello blu picchiettato di stelle dorare, alzò la bacchetta e pronunciò una formula magica.
Poi chiuse gli occhi, perché voleva farsi una sorpresa e, quando li aprì, accanto a lui era ferma una minuscola civetta.
“Abracada… braccidenti!” esclamò sorpreso il piccolo mago, “Mi ero immaginato un amico un po’ più grosso.”
“Un amico non si può fabbricare con un colpo di bacchetta magica!” dichiarò la civetta, aprendo e chiudendo gli occhi grossi e tondi, “Un amico, bisogna meritarlo e guadagnarselo.
E poco importa se è piccolo o grosso!”
Allora il piccolo mago si sforzò di guadagnarsi l’amicizia della piccola civetta.
Cantavano insieme, giocavano agli indovinelli ed il piccolo mago portava la civetta a passeggio tenendola sulla sua mano.
Così un giorno si accorsero che erano diventati veramente amici ed era una cosa stupenda.
Ma un giorno, vagabondando nel bosco, giunsero in una dorata radura di faggi.
“Guarda!” esclamò subito la civetta che indicò una cavità nera nel tronco di un albero, “È là che voglio abitare!”
“Ma,” obiettò il piccolo mago, “tu non puoi abbandonarmi.
Tu sei mio amico.”
“Si!” rispose la civetta, che era già scivolata nella cavità dell’albero, “Ma io sono una civetta e una civetta deve abitare in un albero.
È sempre stato così!
Per favore, dammi il permesso!
Io sarò felice.
E chi ama veramente un amico, deve aiutarlo ad essere felice!”
“Chi ama veramente un amico, deve aiutarlo ad essere felice!” ripeté lentamente il piccolo mago.
Così rimasero amici per sempre.
Era finito nella rete, il piccolo pesce azzurro, e si dibatteva per trovare una via d’uscita e ritornare al mare.
Inutilmente.
Poi s’accorse di un piccolo buco:
una maniglia allentata nella rete.
Provò a uscire ma il foro era troppo piccolo.
Tuttavia gli permetteva di guardare meglio oltre la barca del pescatore e di quelle terribili reti.
Allora vide il mare con la sua immensa distesa di libertà.
E pensò alle profondità marine da cui proveniva, alla luce che filtrava dalle onde sui coralli della scogliera sommersa.
E agli altri pesci suoi amici, che nuotavano liberi tra le rocce di fondali coperte di alghe.
Quelle alghe che danzavano al ritmo delle correnti…
Era il suo mondo perduto.
Tuttavia, la nuova situazione offriva qualche vantaggio.
Ora poteva guardare il mare da un altro punto di vista e scoprire cose nuove.
Per esempio, l’orizzonte lontano:
era così vasto; e il cielo che copriva il mare con le ultime stelle del mattino:
una visione fantastica!
All’improvviso apparve uno splendore mai visto:
“Ecco,” gridò il piccolo pesce azzurro, fuori di sé per lo stupore, “ecco da dove viene la luce che illumina le profondità del mare!”
Sul filo dell’orizzonte stava sorgendo il sole.
Una domenica, alla porta della chiesa, fu appeso questo cartello:
“Per consentire a tutti di venire in chiesa domenica prossima, abbiamo organizzato una speciale domenica “senza scuse!”
Saranno sistemati dei letti in sacrestia per tutti quelli che dicono:
“La domenica è l’unico giorno della settimana in cui posso dormire!”
Sarà allestita una speciale sezione di morbide poltrone per coloro che trovano troppo scomodi i banchi.
Un collirio sarà offerto a quelli che hanno gli occhi troppo affaticati dalla nottata alla tv.
Un elmetto d’acciaio temprato sarà regalato a tutti coloro che dicono:
“Se vado in chiesa potrebbe cadermi il tetto in testa!”
Morbide coperte saranno fornite a quelli che dicono che la chiesa è troppo fredda e ventilatori a quelli che dicono che è troppo calda.
Saranno disponibili cartelle segnapunti per coloro che vogliono fare la classifica delle persone “che vanno sempre in chiesa ma sono peggio degli altri.”
Parenti e amici saranno chiamati in soccorso delle signore che non possono, contemporaneamente, andare in chiesa e preparare il pranzo.
Verranno distribuiti dei distintivi con la scritta:
“Ho già dato!” a tutti coloro che sono preoccupati per la questua.
In una navata saranno piantati alberi e fiori per quelli che cercano Dio solo nella natura.
Dottori e infermieri si dedicheranno alle persone che si ammalano sempre e solo di domenica.
Forniremo apparecchi acustici a quelli che non riescono a sentire la predica e tappi per le orecchie per quelli che ci riescono.
La chiesa sarà addobbata contemporaneamente con le stelle di Natale e i gigli di Pasqua per quelli che l’hanno sempre e solo vista così.”
Sarà bellissimo la domenica, vivere la Messa tutti insieme, vi aspettiamo!