L’allodola e le tartarughe

L’allodola e le tartarughe

Un re dei tempi antichi aveva, intorno al suo palazzo, un immenso giardino, in cui viveva e prosperava una popolazione di grosse tartarughe.
Un giorno nel giardino delle tartarughe scese un’allodola.
Le tartarughe la trovarono così graziosa che cominciarono a coprirla di complimenti.
“Che belle piume!
Che graziose zampette!
Che beccuccio delicato!
Certo questo uccellino è tra i più belli che esistono!”
L’allodola, confusa, per ringraziarle cantò la canzone più dolce e brillante del suo repertorio.

Le lente tartarughe andarono in visibilio.

“È un’artista!
Che talento!
Che gorgheggi e che senso dello spettacolo!
Stupendo!
Magnifico!”
Gli applausi si sprecarono.
“Chiediamole di fermarsi a vivere con noi!” propose una tartaruga.
Al tramonto, quando l’uccello calò giù in picchiata una furba tartaruga gli disse:
“Cara la mia allodola, per tutte noi sei come una figlia, lo sai.
Ti vogliamo tanto bene che abbiamo chiesto al Re delle tartarughe come farti felice, e lui ci ha risposto che la felicità massima, sulla terra, è starsene con i piedi ben piantati al suolo.

Che ne diresti di non lasciarci più e rinunciare a volare?

Al mondo sono i fatti che contano, e camminare è un fatto, non puoi negarlo!”
“Se lo dici, sarà così!” rispose l’allodola, “Solo che io sono un uccello, e non posso fare diversamente.
Tutti quelli che hanno le ali vogliono andare in alto, verso la luce!”
“Però volare è così faticoso!” proseguì la tartaruga, “Tutti gli animali, tranne voi, non desiderano altro che riposare e avere la pancia piena.
E poi, non hai mai pensato al falco o ai cacciatori?”
L’allodola, pensierosa, finì per rispondere:
“Credo che tu abbia ragione, amica mia.
Che debbo fare per restare sempre qui con voi?”
La tartaruga, tutta contenta, le suggerì di strapparsi ogni giorno una piuma dalle ali:
“A poco a poco volare ti sarà sempre più difficile, e alla fine smetterai senza neppure accorgertene.
E poi vivrai insieme a noi nel giardino, potrai bere l’acqua fresca e mangiare la frutta e l’insalata che gli uomini ci regalano ogni giorno.

Come saremo felici, senza ansie, senza preoccupazioni!”

Da quel giorno, l’allodola badò a strapparsi una piccola penna ogni mattina e alla fine si ritrovò con le ali completamente spennate.
Ora non poteva alzarsi in volo, ma in compenso che pace, e che belle mangiate!
L’allodola razzolava e becchettava nel terreno come un pollo, ingrassava e si divertiva a giocare con le tartarughe.
Erano finite, finalmente, le fatiche mattutine per volare verso il sole in cerchi concentrici, trillando come tutte le altre brave allodole.
Non inventava più canzoni nuove, ma alle sue amiche, in fondo, piacevano anche quelle vecchie.
Finché un giorno, nel giardino capitò una donnola affamata.
Quando vide una grassa allodola che saltellava tra le tartarughe, non credette ai suoi occhi e si preparò ad azzannarla.
Le tartarughe, terrorizzate, si nascosero ciascuna nel proprio guscio.

“Aiutatemi!” gridò l’allodola.

“Cara figlia, la donnola è più veloce di noi, e ha i denti aguzzi!
Non possiamo aiutarti!” risposero quelle, in coro.
“Mi sta bene!” disse allora l’allodola, “Per vanagloria mi sono fatta tartaruga e ho rinunciato alla mia unica salvezza, le ali!”
Nascose la testa sotto l’ala e si rassegnò alla sua sorte.

Brano tratto dal libro “L’allodola e le tartarughe.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il gelso, il bruco e la farfalla

Il gelso, il bruco e la farfalla

C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.

Per noi la vita è così breve.

Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.

Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.

“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.

È la fine.

Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”

“Ciao Giovanni!

Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”

Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!

Brano di Bruno Ferrero

Un cerchio di gioia (Il grappolo d’uva)

Un cerchio di gioia
(Il grappolo d’uva)

Un giorno, non molto tempo fa, un contadino si presentò alla porta di un convento e bussò energicamente.
Quando il frate portinaio aprì la pesante porta di quercia, il contadino gli mostrò, sorridendo, un magnifico grappolo d’uva.
“Frate portinaio,” disse il contadino, “sai a chi voglio regalare questo grappolo d’uva che è il più bello della mia vigna?”
“Forse all’Abate o a qualche frate del convento!” rispose il frate.

“No, a te!” esclamò il contadino.

“A me?” il frate portinaio arrossì tutto per la gioia, “Lo vuoi dare proprio a me?”
“Certo, perché mi hai sempre trattato con amicizia e mi hai aiutato quando te lo chiedevo.
Voglio che questo grappolo d’uva ti dia un po’ di gioia!”
La gioia semplice e schietta che vedeva sul volto del frate portinaio illuminava anche lui.
Il frate portinaio mise il grappolo d’uva bene in vista e lo rimirò per tutta la mattina.
Era veramente un grappolo stupendo.

Ad un certo punto gli venne un’idea:

“Perché non porto questo grappolo all’Abate per dare un po’ di gioia anche a lui?”
Prese il grappolo e lo portò all’Abate.
L’Abate ne fu sinceramente felice.
Ma si ricordò che c’era nel convento un vecchio frate ammalato e pensò:
“Porterò a lui il grappolo, così si solleverà un poco!”
Così il grappolo d’uva emigrò di nuovo.

Ma non rimase a lungo nella cella del frate ammalato.

Costui pensò infatti che il grappolo avrebbe fatto la gioia del frate cuoco, che passava le giornate ai fornelli, e glielo mandò.
Ma il frate cuoco lo diede al frate sacrestano (per dare un po’ di gioia anche a lui), questi lo portò al frate più giovane del convento, che lo portò ad un altro, che pensò bene di darlo ad un altro.
Finché, di frate in frate il grappolo d’uva tornò dal frate portinaio (per portargli un po’ di gioia).
Così fu chiuso il cerchio.
Un cerchio di gioia.

Brano tratto dal libro “40 storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il profumo dentro di noi

Il profumo dentro di noi

Gli indù raccontano una strana leggenda.
La leggenda del capriolo delle montagne.
Tanti anni fa, c’era un capriolo che sentiva continuamente nelle narici un fragrante profumo di muschio.
Saliva le verdi pendici dei monti e sentiva quel profumo stupendo, penetrante, dolcissimo.

Sfrecciava nella foresta, e quel profumo era nell’aria, tutt’intorno a lui.

Il capriolo non riusciva a capire da dove provenisse quel profumo che tanto lo turbava.
Era come il richiamo di un flauto a cui non si può resistere.
Perciò il capriolo prese a correre di bosco in bosco alla ricerca della fonte di quello straordinario e conturbante profumo.

Quella ricerca divenne la sua ossessione.

Il povero animale non badava più né a mangiare, né a bere, né a dormire, né a nient’altro.
Esso non sapeva donde venisse il richiamo del profumo, ma si sentiva costretto a inseguirlo attraverso burroni, foreste e colline, finché affamato, esausto, stanco morto, andò avanti a casaccio, scivolò da una roccia e cadde, ferendosi mortalmente.

Le sue ferite erano dolorose e profonde.

Il capriolo si leccò il petto sanguinante e, in quel momento, scoprì la cosa più incredibile.
Il profumo, quel profumo che lo aveva sconvolto, era proprio lì, attaccato al suo corpo, nella speciale “sacca” porta muschio che hanno tutti i caprioli della sua specie.
Il povero animale respirò profondamente il profumo, ma era troppo tardi.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Un Fiore Stupendo

Un Fiore Stupendo

In un caldo pomeriggio di un paio di estati fa, insieme ad un compagno di avventure, mentre stavamo terminando una missione, la mia attenzione fu rapita da un fiore stupendo, che diventava straordinario quando veniva colpito dal sole.
Era un fiore che non avevo mai notato prima di quel momento, con una forma particolare.
Era composto da una rosa, da cui spuntava un tulipano e tutto intorno tanti petali di margherita, tutto rigorosamente di colore giallo oro.

Solo a vederlo lasciava tutti senza fiato,

ma in quel momento non mi potei avvicinare.
Questo strano fiore mi aveva colpito, e più volte ripensai al fatto che sarei dovuto tornare a vederlo.
Passò del tempo, forse un anno e mezzo se non di più, ed avevo impressa l’immagine viva del fiore nella mia mente, ma nonostante ritornai più volte in quello stesso luogo, non riuscii più a rivedere quel fiore, ma non persi la speranza.

Finché un paio di mesi fa,

ritornato nello stesso luogo per l’ennesima volta, rividi il fiore, che finalmente si trovava nuovamente li.
Mi avvicinai, lo ammirai ancora, pensai di prenderlo ma poi decisi di lasciarlo nel luogo in cui lo avevo trovato.
Ogni qual volta avevo tempo, ritornavo in quel luogo dove andavo ad ammirare il fiore, e in alcuni momenti anche lui sembrava che mi guardasse, davamo l’idea di essere stati fatti per stare insieme.
Ma un bel giorno, quando ritornai, il fiore si stava appassendo.

Rivederlo in quelle condizioni, non era più la stessa cosa.

Avevo comunicato con lui, era sempre stato bello da guardare, ma dopo il tempo passato ad ammirarlo, era giunto il momento di non ritornare più in quel luogo.
Tante volte avrei voluto portarlo con me, ma lo avrei strappato dal suo territorio contro la sua volontà, anche se…
Il ricordo della lucentezza del fiore era impresso nella mia mente, niente me lo avrebbe potuto portare via, ma purtroppo era uno degli ultimi ricordi che avevo di lui.

Brano di Michele Bruno Salerno
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.

I regali nello sgabuzzino

I regali nello sgabuzzino

Il postino suonò due volte.
Mancavano cinque giorni a Natale.
Aveva fra le braccia un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e legato con nastri dorati.
“Avanti!” disse una voce dall’interno.
Il postino entrò.
Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena d’ombre e di polvere.
Seduto in una poltrona c’era un vecchio.
“Guardi che stupendo pacco di Natale!” disse allegramente il postino.
“Grazie. Lo metta pure per terra.” disse il vecchio con la voce più triste che mai.

“Non c’è amore dentro!”

Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano.
Sentiva benissimo che il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva certo l’aria di passarsela male.
Allora, perché era così triste?
“Ma, signore, non dovrebbe fare un po’ di festa a questo magnifico regalo?”
“Non posso… Non posso proprio!” disse il vecchio con le lacrime agli occhi.
E raccontò al postino la storia della figlia che si era sposata nella città vicina ed era diventata ricca.
Tutti gli anni gli mandava un pacco, per Natale, con un bigliettino:

“Da tua figlia Luisa e marito.”

Mai un augurio personale, una visita, un invito:
“Vieni a passare il Natale con noi.”
“Venga a vedere.” aggiunse il vecchio e si alzò stancamente.
Il postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino.
Il vecchio aprì la porta.

“Ma…” fece il postino.

Lo sgabuzzino traboccava di regali natalizi.
Erano tutti quelli dei Natali precedenti.
Intatti, con la loro preziosa carta e i nastri luccicanti.
“Ma non li ha neanche aperti!” esclamò il postino allibito.
“No!” disse mestamente il vecchio “Non c’è amore dentro!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il pozzo e la pozzanghera


Il pozzo e la pozzanghera

Un giorno una pozzanghera disse al pozzo vicino a sé:
“Che vita insignificante la mia!
Nessuno si accorge di me se non che qualche uccellino ogni tanto, per bere un po’ d’acqua.
Tu invece sei ben conosciuto e vengono a te da lontano, ti hanno dato persino un nome.”

Il pozzo le rispose:

“Cara amica mia, è vero che vengono da lontano e che mi hanno dato un nome, ma non vengono per me, vengono tutti a prendere l’acqua che la terra mi dona e se ne vanno felici per l’acqua che possono prendere.
Ma a me va bene così, perché in ogni caso li vedo andar via contenti.
Ma anche tu non devi lamentarti, perché è vero che non hai un nome ma quando la tua acqua è calma, riflette lo stupendo azzurro del cielo sulla terra, mentre la mia acqua non ha che buio attorno a sé.
Pensaci amica mia, ciò che conta sia per me che per te è permettere all’acqua che ci viene donata di dissetare chi ne ha bisogno.

Tu cara amica, disseti chi non sa più guardare il cielo.”
Brano di Stefano Lovecchio
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.