Il sasso inutile

Il sasso inutile

C’era una volta su una strada un sasso che non serviva a niente.
Era un bel sasso, di forma tondeggiante, grosso più o meno come la testa di un uomo, di un bel grigio-azzurro.
Ma nessuno lo degnava di uno sguardo.
Un sasso è solo un sasso, a chi può interessare?
Al principio spuntava appena dalla terra al centro di una strada che portava in città.
Non gli mancava la compagnia.
Quasi tutti quelli che passavano di là inciampavano.
Qualcuno si accontentava di lanciare colorite imprecazioni, altri maledicevano il povero sasso.
Gli zoccoli ferrati dei cavalli lo colpivano violentemente, facendo sprizzare sciami di scintille che brillavano nella notte.

Il sasso era sempre più triste.

Che razza di vita era mai la sua!
Un giorno una carrozza che procedeva veloce per la strada ebbe un impatto così violento con il povero sasso da lasciargli un segno ben visibile, che sembrava una ferita.
Nell’urto ebbe la peggio la ruota, che si spezzò.
Il vetturino, furibondo, con un ferro cavò il sasso e lo scagliò lontano.
Il sasso rotolò malinconicamente per un po’ e si arrestò fra altri sassi nella scarpata.
“Ci mancavi solo tu, rompi scatole!” gli gridarono gli altri sassi, “Quanto sei pesante, ciccione!” gli dissero due pietre piatte e sottili, cosparse di mica scintillante.
Se le pietre avessero lacrime, il sasso sarebbe scoppiato in un pianto desolato.
Sprofondò in un silenzio pieno di angoscia e di tristezza.
Solo una lumaca lo prese in simpatia e gli lasciò per ricordo una scia luccicante di bava.
Il povero sasso desiderò sprofondare nel terreno e sparire per sempre.

Ma un mattino due mani robuste lo sollevarono:

“Questo serva a me!” disse una voce.
“E gli altri?” chiese un uomo.
“Possono servire anche loro.
Raccoglieteli.” fu la risposta.
Gli altri sassi venivano gettati in un carro.
Il sasso tondeggiante fece il viaggio nella bisaccia dell’uomo.
Quando uscì, si trovò in un cantiere brulicante di operai.
Tutti erano all’opera per innalzare una magnifica costruzione, che, pure incompleta, già svettava nel cielo.
E i muri, le possenti arcate, le guglie che svettavano nel cielo, tutto era formato da pietre grigio-azzurre come lui.
“Questo è il paradiso!” pensò il sasso, che non aveva mai visto niente di più bello.
Le mani dell’uomo passarono sulla superficie del sasso con una ruvida carezza.
“Finirai lassù, anche tu, amico mio!” disse la voce, “Ho un progetto magnifico per te.

Dovrai soffrire un po’, ma ne varrà la pena.”

Il sasso venne portato in un angolo dove un gruppo di uomini stava scolpendo figure di santi di pietra.
Una delle statue era senza testa.
L’uomo la indicò e disse:
“Ho trovato la testa per quello!”
Sfiorò nuovamente il sasso con le mani e continuò:
“È perfetto.
Sembra fatto apposta, e anche questa piccola fenditura mi ha fatto venire un’idea…”
Al sasso pareva di sognare:
nessuno lo aveva mai definito “perfetto”.
Subito dopo però fu stretto in una morsa e uno strumento acuminato cominciò a ferirlo senza pietà.
L’uomo lo scalpellava con vigore e perizia.

Il dolore era forte, ma non durò molto.

Il sasso inutile si trasformò nella magnifica testa di un santo che fu collocata sulla facciata della cattedrale.
Era la statua che tutti notavano e additavano per una particolarità:
tutti gli altri erano seri e aggrondati, quello era l’unico santo sorridente.
L’artista aveva trasformato la ferita provocata dalla ruota del carro in un magnifico sorriso.
Il sorriso pieno di pace e felicità del sasso che aveva trovato il suo posto.

Brano tratto dal libro “Tante storie per parlare di Dio.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Lo specchio nel Bazar

Lo specchio nel Bazar

In un pittoresco, stravagante, chiassoso “bazar” di una città orientale, una ricca turista americana scovò una strana specchiera, incastonata in una preziosa cornice d’argento.
Il prezzo di vendita richiesto era però troppo alto, esageratamente alto.
Ma nel corso della lunghissima trattativa, lo scaltro padrone del “bazar”, con fare segreto e misterioso, confidò alla cliente che quello specchio possedeva un potere magico, che produceva un incantesimo unico al mondo.
Bastava specchiarsi, e sfiorare leggermente con l’indice della mano destra la superficie del vetro.
Immediatamente, insieme con la persona riflessa, sullo specchio appariva una scritta, comprensibile in ogni lingua, che rivelava la verità più profonda della persona rispecchiata.
Era un’occasione unica e stupefacente di successo!

Da non perdere assolutamente!

Possedere uno specchio “Che dice la verità su tutto e su tutti” era un affarone eccezionale!
L’americana non resistette alla tentazione e fece subito una prova:
si vide riflessa alla perfezione nello specchio e, sfiorandolo con l’indice, vide apparire a piè di specchio, in un ottimo inglese americano, la scritta luminosa:
“Ricca signora texana carica di soldi!”
Saldò immediatamente il conto senza discutere e si affrettò a ritirare lo specchio che, adeguatamente avvolto, protetto, imballato ed assicurato, venne spedito in Texas per via aerea.
Naturalmente, mediante quell’acquisto magico, la ricca ereditiera era certa di riuscire a conquistare il centro dell’attenzione della gente che conta nella sua città.
Quello specchio diventò invece, per lei, fonte inesauribile di guai.
Lo fece sperimentare ad alcune delle sue migliori amiche.

Sulle prime lo presero come un gioco divertente.

Si specchiarono, in mezzo a risatine “fatue” e poco convinte, ma le parole dello specchio arrivarono inesorabili:
“Ha rubato al supermercato la biancheria che indossa!” sentenziò alla prima,
“Ha undici anni in più di quello che dichiara!” alla seconda, “È piena d’invidia e diffonde calunnie su voi tutte!” alla terza.
Le amiche, imbarazzate, si accomiatarono in fretta.
Più tardi si specchiò, quasi distrattamente, anche il marito della miliardaria, ed il verdetto fu: “Tradisce la moglie!”
Volarono parole terribili e furono convocati gli avvocati.
Naturalmente, la cosa si riseppe in tutta la città.
In breve tempo più nessuno frequentò la ricca casa della miliardaria.

Quel “souvenir” portentoso le fece il vuoto intorno.

Delusa e pentita, l’ingenua e ricca texana un giorno, infuriata, spaccò lo specchio magico a martellate.
E mentre lo specchio andava in frantumi, apparve a grandi lettere, quasi come un “sacrosanto” testamento, la sua ultima scritta:
“Anche tu, sciocca texana, anche tu… hai paura della verità?”
La verità ci farà liberi!
Ma si paga a caro prezzo.

Brano di Bruno Ferrero

La misericordia di Dio (Re Milinda)

La misericordia di Dio (Re Milinda)

Il potente re Milinda disse al vecchio e saggio sacerdote:
“Tu dici che l’uomo che ha compiuto tutto il male possibile per cent’anni e prima di morire chiede perdono a Dio, otterrà di rinascere in cielo.
Se invece uno compie un solo delitto e non si pente, finirà all’inferno.

È giusto questo?

Cento delitti sono più leggeri di uno?”
Il vecchio sacerdote rispose al re:
“Se prendo un sassolino grosso così, e lo depongo sulla superficie del lago, andrà a fondo o galleggerà?”

“Andrà a fondo!” rispose il re.

“E se prendo cento grosse pietre, le metto in una barca e spingo la barca in mezzo al lago, andranno a fondo o galleggeranno?” domandò il saggio sacerdote.
“Galleggeranno!” replicò il re.
“Allora cento pietre e una barca sono più leggere d’un sassolino?” chiese allora il sacerdote.
Il re non sapeva che cosa rispondere.

E il vecchio saggio spiegò:

“Così, o re, avviene agli uomini.
Un uomo anche se ha molto peccato ma si appoggia a Dio, non cadrà nell’inferno.
Invece l’uomo che fa il male anche una volta sola, e non ricorre alla misericordia di Dio, andrà perduto!”

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La lampada del minatore

La lampada del minatore

Un uomo scendeva ogni giorno nelle viscere della terra a scavare sale.
Portava con sé il piccone ed una lampada.
Una sera, mentre tornava verso la superficie, in una galleria tortuosa e scomoda, la lampada gli cadde di mano e si infranse sul suolo.

Inizialmente il minatore ne fu quasi contento:

“Finalmente!
Non ne potevo più di questa lampada.
Dovevo portarla sempre con me, fare attenzione a dove metterla, pensare a lei anche durante il lavoro.
Adesso ho un ingombro di meno.
Mi sento molto più libero!
E poi… faccio questa strada da anni, non posso certo perdermi!”
Ma la strada ben presto lo tradì.

Al buio era tutta un’altra cosa.

Fece alcuni passi, ma urtò contro una parete.
Si meravigliò:
non era quella la galleria giusta?
Come aveva fatto a sbagliarsi così presto?
Tentò di tornare indietro, ma finì sulla riva del laghetto che raccoglieva le acque di scolo.
“Non è molto profondo,” pensò, “ma se ci finisco dentro, così al buio, annegherò di certo!”
Si gettò a terra e cominciò a camminare carponi.

Si ferì le mani e le ginocchia.

Gli vennero le lacrime agli occhi quando si accorse che in realtà era riuscito a fare solo pochi metri ritrovandosi sempre al punto di partenza.
E gli venne un’infinita nostalgia della sua lampada.
Attese umiliato che qualcuno scendesse per andare a cercarlo e lo portasse su facendogli strada con qualche mozzicone di candela.

Brano senza Autore

Il rasoio pigro

Il rasoio pigro

Nella bottega di un barbiere, c’era una volta un bel rasoio.
Trovatosi da solo, un giorno, pensò di dare un’occhiata in giro, e tirò fuori la sua lama, che riposava nel manico come in una guaina.

Come vide il sole specchiarsi nel suo corpo, rimase meravigliato:

la lama d’acciaio mandava tali bagliori da farlo montare in boria.
“E io dovrei tornare in quella squallida bottega,” pensò il rasoio, “a tagliare le barbe insaponate di quei rustici villani, ripetendo all’infinito le stesse monotone operazioni!
Avvilire in questo modo il mio corpo così bello, sarebbe una pazzia.
Meglio andarmi a nascondere in qualche posto ben segreto, e godermi in tranquillità il resto dei miei giorni!”

Così dicendo si cercò un nascondiglio, e per molti mesi non si lasciò più trovare.

Senonché, venne pur il giorno in cui, volendo prendere un po’ d’aria, il rasoio lasciò il suo rifugio e, uscito cautamente fuori dal manico, tornò a guardare il proprio corpo.
Ahimè!
Cos’era mai successo?
La lama, divenuta scura come una sega arrugginita, non rispecchiava più lo splendore del sole.
Amareggiato e pentito, pianse invano il suo stupido errore:
“Oh, quanto sarebbe stato meglio tenere in esercizio la mia bella lama affilata!

La mia superficie sarebbe rimasta luccicante, il mio taglio netto e sottile!

Invece, eccomi qua, corroso e incrostato per sempre dalla ruggine!”

La stessa fine è riservata alle persone d’ingegno che invece di esercitare le loro qualità, preferiscono rimanere oziose.
Proprio come il rasoio, anch’esse perdono la sottigliezza e la luce dello spirito, e rimangono corrose dalla ruggine dell’ignoranza.

Brano di Leonardo da Vinci

Due ranocchie nella panna

Due ranocchie nella panna

C’erano una volta due ranocchie che caddero in un recipiente di panna.
Immediatamente intuirono che sarebbero annegate:
era impossibile nuotare o galleggiare a lungo in quella massa densa come sabbie mobili.
All’inizio, le due rane scalciarono nella panna per arrivare al bordo del recipiente però era inutile, riuscivano solamente a sguazzare nello stesso punto e ad affondare.

Sentivano che era sempre più difficile affiorare in superficie e respirare.

Una di loro disse a voce alta:
“Non ce la faccio più.
È impossibile uscire da qui, questa roba non è fatta per nuotarci.
Dato che morirò, non vedo il motivo per il quale prolungare questa sofferenza.
Non comprendo che senso ha morire sfinita per uno sforzo sterile!”
E detto questo, smise di scalciare e annegò con rapidità, venendo letteralmente inghiottita da quel liquido bianco e denso.

L’altra rana, più perseverante o forse più cocciuta, disse fra sé e sé:

“Non c’è verso!
Non si può fare niente per superare questa cosa.
Comunque, dato che la morte mi sopraggiunge, preferisco lottare fino al mio ultimo respiro.
Non vorrei morire un secondo prima che giunga la mia ora!”
E continuò a scalciare e a sguazzare sempre nello stesso punto, senza avanzare di un solo centimetro.

Per ore ed ore!

E ad un tratto… dal tanto scalciare, agitare e scalciare… la panna si trasformò in burro.
La rana sorpresa spiccò un salto e pattinando arrivò fino al bordo del recipiente.
Da lì, non gli rimaneva altro che tornare a casa gracidando allegramente.

Brano tratto dal libro “Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere.” di Jorge Bucay

La nascita delle scarpe

La nascita delle scarpe

Al tempo in cui tutti andavano scalzi, un grande capo indiano, che aveva i piedi sensibili e il cuore insensato, soffriva molto dovendo camminare sui sassi e sul suolo rugoso del territorio della sua tribù.

Dopo averci pensato, prese una solenne decisione.

Ordinò ai suoi guerrieri di cacciare tutti i bisonti del paese per coprire con le loro morbide pelli l’intera superficie del suo territorio.
Non potendo cambiare i suoi piedi, avrebbe cambiato il suolo!

A costo di sterminare l’intera specie dei bisonti…

Il popolo ne fu sconcertato.
Una delegazione di guerrieri si recò dal vecchio e saggio sciamano della tribù a chiedere consiglio.

Lo sciamano rispose:

“Consigliate al capo di tagliare due piccoli pezzi di pelle di bisonte per proteggersi i piedi.
Dovunque vada, non avrà più male ai piedi!”
Così nacquero le scarpe.

Brano tratto dal libro “Il Segreto dei Pesci Rossi.” di Bruno Ferrero. Edizioni Elledici.