La leggenda della Stella di Natale

La leggenda della Stella di Natale

Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.

Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:

quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.

Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.

La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.

Mancava ugualmente qualcosa.

Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”

Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.

C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.

Brano senza Autore

Sei tu Gesù? (Il banco di mele)

Sei tu Gesù? (Il banco di mele)

Un gruppo di venditori fu invitato ad un convegno.
Tutti i venditori avevano promesso alle proprie famiglie che sarebbero arrivati in tempo per la cena del venerdì sera.
Il convegno terminò un po’ più tardi del previsto, ed arrivarono in ritardo all’aeroporto.
Entrarono tutti correndo tra i corridoi dell’aeroporto, con i biglietti e i documenti in mano.
All’improvviso, e senza volerlo, uno dei venditori inciampò in un banco su cui c’era un cesto di mele.

Le mele caddero e si sparsero per terra.

Senza aspettare e senza guardare indietro, i venditori, continuando a correre, riuscirono a salire sull’aereo.
Tutti meno uno.
Quest’ultimo si trattenne, respirò a fondo, e sperimentò un sentimento di compassione per la padrona del banco di mele.
Disse ai suoi amici di continuare senza di lui e chiese ad uno di loro di avvertire sua moglie all’arrivo e di spiegarle che sarebbe rientrato con il volo successivo un po’ più tardi, dato che non era sicuro di riuscire ad avvisarla in tempo.
Ritornò al terminal e trovò tutte le mele ancora sparse a terra.
La sorpresa fu enorme quando si rese conto che la padrona delle mele era una bambina cieca.

La vide mentre piangeva, grandi lacrime scorrevano sulle sue guance.

Toccava il pavimento, cercando, invano, di raccogliere le mele, mentre moltitudini di persone le passavano accanto senza fermarsi; senza che a nessuno importasse nulla dell’accaduto.
L’uomo inginocchiatosi con lei, mise le mele nella cesta e l’aiutò a montare di nuovo il banco.
Mentre lo faceva, si rese conto che molte cadendo si erano rovinate.
Le prese e le mise nella cesta.
Quando terminò, tirò fuori il portafoglio e disse alla bambina:
“Prendi, per favore, questi cento euro per il danno che abbiamo fatto.
Tu stai bene?”
Lei, sorridendo, annuì con la testa.
Lui continuò dicendole:
“Spero di non aver rovinato la tua giornata!”
Il venditore cominciò ad allontanarsi e la bambina gridò:

“Signore…”

Lui si fermò e si girò a guardare i suoi occhi ciechi.
Lei continuò: “Sei tu Gesù?”
Lui si fermò immobile, girandosi un po’ di volte, prima di dirigersi per andare a prendere il volo, con questa domanda che gli bruciava e vibrava nell’anima:
“Sei tu Gesù?”

Brano senza Autore.

Giosuè e la luce dalla finestra

Giosuè e la luce dalla finestra

Una strana epidemia si abbatté sulla città all’improvviso.
Iniziava come un raffreddore:
i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri.
Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
“Ciò che conta sono i soldi.
Con i soldi si fa tutto.” sostenevano.
Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini.
In certi alloggi la porta d’ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka.
Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini.

I bambini chiedevano:

“Quanto mi date per sparecchiare?”
Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile.
Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio.
L’eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: “Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio.
È dovuta ad un virus che si chiama “sgrinfiacchiappa” ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra.
Si può sfuggire al contagio per un po’ di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c’è un solo rimedio: l’acqua della “Montagna che canta.”
Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato.
Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente.
Perché l’acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.

Logico, no?

Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell’impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla!”
“Noi aspetteremo. Tutti!” giurarono il sindaco e i consiglieri, “Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città!”
“…e vuota le casse comunali!” aggiunse l’assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus “sgrinfiacchiappa.”
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando:
“Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica!”
Si presentarono in duemila.
Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano.
Tutti, meno uno.
Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone.
Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la “Montagna che canta.”
“La cercherò.” disse tranquillamente Giosuè.

“Noi ti aspetteremo.” promise la gente.

“Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo!”
Giosuè mise un po’ di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma ed il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò:
“Anch’io ti aspetterò!”
Salutò tutti e partì.
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell’orizzonte.
“Una volta là, mi basterà cercare la “Montagna che canta.”
Non deve essere difficile.” pensava.
Ma si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all’orizzonte.
Ma Giosuè non si fermava.
Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.

Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo.
Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce.
Era il segno della speranza:
aspettavano l’acqua della generosità portata da Giosuè.
Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo:
“Non ce la ha fatta.
Non tornerà più!”
Ogni notte, c’era qualche luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili.

Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli.

Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la “Montagna che canta.”
Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava.
Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione.
Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse:
“La “Montagna che canta.”?
Certo che so dov’è.
Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti.
Ma è un accidenti di montagna!
Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione!”

“Chi è?” domandò Giosuè.

“Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna!”
“Pazienza, ma io devo salire lassù!” disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
“Buona fortuna!”
La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po’ stonato.
Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia.
Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri.
Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato.

Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò.

Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire.
Pesante com’era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare.
Dopo un po’ il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare.
Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell’acqua della generosità.
Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto:
la gente della città sarebbe tornata felice come prima.
Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua.
Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città.
Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri.
Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza.

La città era completamente avvolta dal buio.

Non c’erano luci sui davanzali delle finestre.
Nessuno lo aveva aspettato.
“È stato tutto inutile…
Se nessuno mi ha aspettato, l’acqua non farà effetto…
Tutta la mia fatica è stata inutile!”
Si avviò mestamente.
Aveva voglia di buttar via l’acqua che gli era costata tanto.
Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò.
C’era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.
“Qualcuno mi ha aspettato!” disse.
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa.
Riconobbe la finestra e la casa.
In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato.
Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La civetta colorata

La civetta colorata

Un nonno regalò a suo nipote un viaggio-vacanza in Brasile.
L’unica condizione per avere questo era regalo era quella di comprare un pappagallo in Brasile e portarglielo, in modo che lui avesse potuto insegnargli a parlare,

per lenire la sua solitudine di vedovo.

Il nipote tra feste e distrazioni si dimenticò del pappagallo e se ne rese conto solamente una volta rientrato a Milano.
Girò tutti i venditori di uccelli per rimediare, ma ebbe la medesima risposta da tutti i commercianti:
le specie protette non possono essere commercializzate.
Fece un ultimo tentativo ed in questo negozio gli venne suggerito di colorare con colori sgargianti una civetta, contando sulla non buona vista del nonno.

Grande fu l’entusiasmo del nonno per la nuova compagnia

Quando il nipote ritornò dal nonno, un mese dopo, per chiedergli se fosse contento del pappagallo, questo gli rispose di sì.
Aggiunse, inoltre, che il pappagallo stava cambiando la lucentezza delle penne per la cattività, ma dai grandi occhi spalancati si intuiva chiaramente che stava molto attento a quello che gli veniva detto e sperava di avere, a breve, una risposta da parte del pappagallo.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La grande fiera del giocattolo

La grande fiera del giocattolo

In una città con tantissimi bambini era finalmente arrivato l’avvenimento dell’anno:
la grande fiera del giocattolo.
Natale era infatti alle porte e ogni anno, in questo periodo, la città organizzava la fiera.
Era una fiera molto conosciuta:
i venditori venivano da tutte le parti del mondo per far conoscere la loro merce.
Là vi erano tutti i regali possibili che i genitori potevano fare ai loro bambini per renderli felici.
Per l’occasione, un ricco direttore di banca decise di prendere il pomeriggio della vigilia di Natale libero:
voleva anche lui visitare la fiera quest’anno!

Mentre si avviava, pensava tra sé:

“Questo Natale voglio regalare al mio bambino una cosa molto bella ed interessante.
Me lo posso permettere, ho lavorato sodo tutto l’anno e sono disposto a spendere molto, anzi, tantissimo!”
Quello stesso pomeriggio anche un giardiniere si recava alla fiera e camminando pensava:
“È stato un anno un po’ duro con il mio piccolo stipendio, però sono riuscito ugualmente a risparmiare un pochino, spero di poter comprare qualcosa di carino alla mia bambina!”
Intanto, le loro mogli erano rimaste a casa con i bambini e preparavano il pranzo di Natale.
Il bambino del direttore era nella sua cameretta.
Nonostante la stanza fosse molto bella e vi fosse un armadio colmo di pupazzi e giocattoli, egli era un po’ triste.
Pensava infatti al suo papà.

Lo vedeva così poco.

La sera tornava dal lavoro proprio quando lui doveva andare a letto.
Oppure era occupato, perché si portava anche del lavoro a casa.
Cercava di consolarsi pensando che domani sarebbe stato Natale e che avrebbe ricevuto altri bei regali.
Ma la cosa che più lo rasserenò era che finalmente il papà domani poteva essere a casa con lui tutto il giorno.
La bambina del giardiniere invece aiutava serenamente la mamma a preparare il pranzo di Natale.
Non aveva molti giocattoli, ma, grazie alla vivacità e alla fantasia dei suoi genitori, non si sentiva mai sola.
“Domani è Natale, chissà che bei giochi faremo tutti insieme!” pensava felice.
Giunto alla fiera, il banchiere cominciò subito a guardare con occhio critico ogni giocattolo esposto.

C’era tutto ciò che un bambino potesse desiderare:

dai trenini elettrici alle biciclette, dai pupazzi di peluche ai libri, ecc.
Voleva comperare qualcosa di veramente grande per suo figlio, ma soprattutto qualcosa che lo tenesse occupato e al tempo stesso lo divertisse.
Era sempre così impegnato e concentrato nel suo lavoro che non gli dedicava molto tempo per giocare insieme.
Il giardiniere, arrivato anche lui alla fiera, si guardava in giro con calma.
Era solo un po’ preoccupato perché sperava di trovare qualcosa che potesse piacere alla sua bambina e che non fosse troppo caro.
Anche se sapeva che non avrebbe potuto comprare molto, non si lasciò sfuggire niente.
Voleva raccontare e descrivere alla sua bambina ogni cosa vista.
Verso sera il direttore ed il giardiniere si incontrarono per caso davanti ad una stanza dove all’ingresso c’era un grande cartellone con la scritta:
“Qui puoi trovare il regalo più bello per tuo figlio.”
Videro entrare molta gente incuriosita, ma quasi tutti uscivano delusi e scontenti.

Incuriositi, a loro volta decisero di entrare.

Era una grande stanza con le pareti bianchissime, molto illuminata, era quasi vuota e non c’erano giocattoli.
In fondo alla stanza c’era soltanto un grande specchio antico appeso al muro e davanti ad esso, seduto ad una scrivania, un vecchio signore con una lunga barba bianca.
Egli scriveva ed ogni tanto guardava la gente che entrava e usciva.
Il direttore, perplesso e deluso, stava per uscire subito, ma quando vide il giardiniere avvicinarsi al vecchio chiedendogli gentilmente chi fosse, si avvicinò lentamente anche lui.
Sentì il vecchio rispondere:
“Sono molto anziano, per tutta la vita ho costruito giocattoli per i bambini del mondo.
Ma quest’anno ho portato qualcosa di particolare e prezioso, questo bellissimo specchio antico alle mie spalle.”
Il direttore ed il giardiniere si guardarono in faccia stupiti, poi riguardarono lo specchio.
Disorientato e quasi irritato il direttore si girò per andarsene, ma ancora una volta si fermò, perché vide il giardiniere stringere la mano al vecchio e con il volto felice esclamare:

“Ho capito!

Ora so cosa regalare alla mia bambina.
Non sono più preoccupato, arrivederci e grazie mille!”
Il giardiniere uscì poi felice dalla stanza.
Il banchiere, rimasto solo, guardò di nuovo lo specchio e pensò che cosa potesse fare un bambino con uno specchio così antico e fragile.
Non osando chiederlo al vecchio, che incuteva molto rispetto, uscì in fretta per cercare di raggiungere il giardiniere.
Non appena lo trovò gli chiese subito che cosa mai avesse capito.
“Mi dispiace, non posso dirtelo!” rispose il giardiniere “Devi arrivarci da solo.
Vedrai che un giorno capirai il perché questo possa essere il regalo più bello per tuo figlio!”
Il giorno di Natale, la figlia del giardiniere aprì il regalo e tutta felice ammirò con gioia le bellissime penne colorate ed i grandi fogli bianchi da disegno che suo padre le aveva comperato alla grande fiera del giocattolo.

Si alzò e lo abbracciò:

“Grazie papà, così potremo disegnare insieme tutte le belle cose che hai visto alla fiera.”
“Non solo, bambina mia.” disse il padre “Potremo disegnare altre cose molto più belle, per esempio la neve!
Guarda fuori dalla finestra, sta ancora nevicando!
Sai, questa notte, dopo molti anni, ha nevicato tantissimo.
E siccome tu non hai ancora visto la neve, più tardi andremo con la mamma a fare una passeggiata tutti insieme e così potrai toccarla e giocare.
Potremo lanciarci palle e fare un pupazzo… vedrai che bello!”
Anche il figlio del banchiere era contento quel mattino.
Stava aprendo un grandissimo pacco ricevuto in regalo.
Con sorpresa non finiva più di tirare fuori dal pacco tanti piccoli vagoni di un treno; c’erano anche le rotaie e molte casette che figuravano da stazioni e case di campagna, verde per i prati, per i monti, alberi e siepi, e persino un fiumicello con i suoi ponti.

Era molto felice:

sicuramente il papà lo avrebbe aiutato a costruirlo!
Oggi finalmente era tutto il giorno a casa con lui e la mamma.
Ma, mentre si avvicinava per abbracciarlo e ringraziarlo, suonò il telefono.
Il padre si alzò dalla poltrona e andò a rispondere.
Il suo viso si fece serio.
Riattaccò e guardando un po’ triste la moglie ed il figlio riferì:
“Anche oggi il lavoro mi chiama!
Mi dispiace molto, ma domani devo essere a New York per una conferenza importante.
Devo partire subito!”
La moglie non disse nulla.
Era abituata.
Il bambino invece ci restò male.
Il suo viso si fece triste e gli spuntarono due lacrime.
Il papà lo notò e cercò di consolarlo:
“Non piangere!

Lo sai che ti voglio molto bene.

Poi, per il trenino, non occorre proprio che ci sia anch’io!
Potrai costruirlo con la mamma!”
Il bambino si girò e stava per scappare piangendo nella sua stanza, ma inciampò in un pacchetto tutto bianco avvolto con un nastro rosso.
Si chinò e seduto sul tappeto cominciò ad aprire il pacco.
Era triste e cercò di consolarsi con questo nuovo regalo.
I genitori si guardarono perplessi.
Quindi il padre chiese:
“Non credevo ci fossero altri regali, sei stata tu?”
“No!” rispose la mamma “Sono rimasta tutto il giorno a casa a preparare il pranzo.
Non so chi possa averlo messo sotto l’albero di Natale.”
Il padre si avvicinò preoccupato al bambino e al regalo.
Voleva sapere da dove provenisse e soprattutto assicurarsi che non contenesse qualcosa di pericoloso.
Il bambino intanto aveva aperto delicatamente il pacco e con sorpresa tirò fuori una palla rossa con tanti puntini bianchi, come tanti fiocchi di neve.
Il padre guardò il figlio ed il regalo e poi prese la scatola per vedere se c’era qualche bigliettino con il nome di chi lo aveva regalato.
Con stupore lo trovò:

“Babbo Natale.”

Chiuse gli occhi pensieroso e subito si ricordò del vecchio con la lunga barba bianca che incuteva tanto rispetto.
Poi si ricordò anche dello specchio e delle parole che erano scritte all’ingresso della stanza:
“Qui puoi trovare il regalo più bello per tuo figlio.”
E finalmente capì anche lui e si commosse.
Nello specchio aveva visto la sua immagine e si rese conto che lui stesso era il regalo più bello per suo figlio!
Questo il giardiniere l’aveva capito subito!
Abbracciò il bambino e piangendo di felicità esclamò:
“Oggi non parto.
Rimaniamo insieme!
Oggi sei tu più importante del mio lavoro.
Dai che usciamo in giardino, giocheremo con la palla nuova e la mamma farà il tifo per noi.”
Mentre tutta la famiglia usciva felice per giocare insieme, cominciò a nevicare anche là dove abitava il bambino che, da quel giorno, non si sentì più solo e triste.

Brano senza Autore, tratto dal Web