Il grande pittore

Il grande pittore

Tanti anni fa viveva un pittore molto bravo, ugualmente famoso per la lentezza con la quale dipingeva i suoi quadri.
Un giorno il superiore di un convento gli commissionò di dipingere una Ultima Cena.
Il grande pittore, molto esigente nel fare le cose, cominciò a girare per le chiese, conventi e case di preghiera per trovare un volto adatto per la figura di Gesù.

Cercò dovunque e all’uscita di una chiesa trovò finalmente il volto:

era un giovane bellissimo, dagli occhi puri e gentili, simpatico e modesto.
Il pittore lo prese subito e lo fece posare per il volto di Cristo.
Passarono degli anni ed il pittore procedeva lentissimamente:
al massimo ritraeva il volto di un apostolo all’anno, malgrado le proteste del superiore.

Giunto finalmente al termine, rimaneva da dipingere il volto di Giuda.

Anche questa volta il grande pittore si mise a cercare un modello:
girò per le osterie, le case più malfamate, le zone più sporche.
Mentre frequentava queste località così brutte, un giorno incontrò una persona i cui tratti facciali davano l’idea della peggiore perversione.

Detto fatto, il grande pittore lo chiamò per posare e dipingere il volto di Giuda.

Il dipinto era ormai giunto alla fine quando, voltandosi, il pittore vide quell’uomo piangere:
tanti anni prima era stato lui a posare per il volto di Gesù!

Brano senza Autore, tratto dal Web

È importante imparare

È importante imparare

Ho imparato che la calma è molto più destabilizzante della rabbia…
che un sorriso disarma molto più di un volto corrugato…
Ho imparato che il silenzio di fronte ad un’offesa

è un grido che fa tremare la terra.

Ho imparato che come un amore rifiutato non si perde ma torna intatto a colui che voleva donarlo,
così accade per la rabbia, le offese…
siamo noi a decidere se farci toccare o meno da un sentimento,

di qualsiasi sentimento si tratti.

Non importa se stai procedendo molto lentamente…
ciò che importa è che tu non ti sia fermato.

Brano di Confucio

La mamma ed il bambino (Saper ascoltare)

La mamma ed il bambino (Saper ascoltare)

Una giovane mamma, in cucina, preparava la cena con la mente totalmente concentrata su ciò che stava facendo: preparare le patatine fritte.
Stava lavorando sodo proprio per preparare un piatto che i bambini avrebbero apprezzato molto.
Le patatine fritte erano il piatto preferito dai suoi bambini.
Il bambino più piccolo di quattro anni aveva avuto una intensa giornata alla scuola materna e raccontava alla mamma quello che aveva visto e fatto.

La mamma gli rispondeva distrattamente con monosillabi e borbottii.

Qualche istante dopo si sentì tirare la gonna e udì:
“Mamma!”
La donna accennò di sì col capo e borbottò anche qualche parola.
Sentì altri strattoni alla gonna e di nuovo:

“Mamma.”

Gli rispose ancora una volta brevemente e continuò imperterrita a sbucciare le patate.
Passarono cinque minuti.
Il bambino si attaccò alla gonna della mamma e tirò con tutte le sue forze.
La donna fu costretta a chinarsi verso il figlio.
Il bambino le prese il volto fra le manine paffute, lo portò davanti al proprio viso e disse:

Mamma, ascoltami con gli occhi!”

Ascoltare qualcuno con gli occhi significa dirgli:
“Tu sei importante per me!”
Tutte le cose importanti passano attraverso gli occhi.

Brano tratto dal libro “365 Piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il paese delle ombre

Il paese delle ombre

C’era una volta uno strano piccolo paese addossato ad una montagna altissima.
Un paesino per tanti aspetti come tutti, ma a renderlo unico nel suo genere era il fatto che gli abitanti, sindaco in testa, erano assillati da un problema che poteva sembrare ridicolo, eppure era reale e praticamente irrisolvibile:
eliminare le ombre!
Come fossero arrivati a farsi un problema delle ombre, non si sa:
ne succedono tante nel mondo!
Fatto sta che la cosa era diventata tanto preoccupante che tutti ne erano ossessionati.

Le ombre erano onnipresenti, di tutte le dimensioni!

Si fece persino un museo delle ombre, con dipinti e fotografie; si allestì anche una biblioteca.
Furono chiamati oratori famosi e grandi studiosi per analizzare il più profondamente possibile la grave situazione.
In concreto non si arrivò a nessuna conclusione pratica, a parte qualche tentativo, rivelatosi inutile, come quello di organizzare un gruppetto di pittori che, con pennelli e un secchio di calce pronti, dovevano eliminare le ombre con una mano di bianco.
Era veramente ridicolo vedere per il paese questi onnipresenti pittori alle prese con l’ombra di tutti.
Dove sorgeva un’ombra nuova si precipitavano e tutte le case e le mura erano ormai imbiancate.
Figurarsi quando arrivava uno straniero, era lavoro doppio!
Gli abitanti infatti da tempo, durante il giorno, per non creare nuove ombre rimanevano tappati in casa!
Alcuni poi cercarono, presi dalla mania collettiva, di risolvere il problema per conto proprio:
un vecchietto, per esempio, ogni mattina quando le ombre erano più lunghe, si affannava, spalle al sole, con un grosso piccone a distruggere la propria ombra.

Ma tutto era inutile:

l’ombra era una realtà indistruttibile!
Il peggio fu che, poco a poco, ogni altro problema vero fu lasciato da parte e il paese cadde nel più completo abbandono.
Nessuno più veniva ad abitarvi e tutti si guardavano bene dal prendere iniziative che creassero nuove ombre.
Solo verso sera il paese sembrava entrare nella normalità.
Era quando la grande ombra della montagna scendeva e ricopriva tutto.
Non c’erano più ombre perché c’era un’unica grande ombra, che sembrava estesa quanto il cielo.
Allora il paese si rianimava.
I pittori prendevano un po’ di fiato e di riposo.
Ma presto, con il calare della notte, tutto si immergeva nel silenzio e non si accendevano luci perché esse creavano ombre ancora più fastidiose, per cui in breve tutti si mettevano a letto, pensando al guaio grande di vivere in un paese zeppo di ombre.
Un giorno passò di là un poveraccio, saggio della saggezza di chi aveva camminato tutta una vita e ne aveva visto di tutti i colori in giro per il mondo.
Egli, al vedere quanto succedeva in quel paese, in un primo momento non seppe contenersi dalle risa:
si divertiva soprattutto a far correre i pittori nei punti più svariati del paese, erigendo di nascosto cartelli e sagome varie per creare ombre improvvise, sempre nuove e strane.
Il gioco non durò a lungo.

Egli fu fermato e ammonito:

non si poteva scherzare sui problemi seri, su sforzi estenuanti di anni di ricerca e di tentativi.
Sulle prime il nostro forestiero fu tentato di andarsene.
Però quella gente gli faceva pena:
era sorta in lui una strana curiosità, un interesse che per la prima volta lo teneva bloccato nel suo vagabondare.
Man mano che passavano i giorni, il problema dell’ombra diventò anche per lui un’ossessione.
E fu proprio per scrollarsi di dosso questo incubo che un giorno si inerpicò tutto solo fin sulla vetta della montagna e di lassù vide il paesino illuminato dal sole, in tutta la sua pittoresca realtà.
Altro che ombre!
E’ il paese che esiste!
Il paese da lassù era un paese di case, di alberi, di persone che con la luce si rivelano.
Non era per niente un paese di ombre!
Aveva capito ciò in cui profondamente aveva sempre creduto in fondo al suo cuore e che gli abitanti di quel paese avevano, presi da una strana follia, dimenticato.
Scese di corsa e tutto trafelato andò dal sindaco e gli espose la sua intuizione, ma fu accolto con un sorriso ironico:
in un paese di pazzi il savio passa per matto.
“Sole o non sole, cose o non cose,” gli disse il sindaco “le ombre ci sono e questo è il nostro concreto.

Le ombre sono terribilmente ovunque e questo è evidente.

Tentare di risolvere il problema è il compito più importante che ci siamo assunti; in fondo è fare un servizio alla luce!”
Ormai si era prodotta una così grande distorsione mentale che si pensava alla luce in termini di ombra, come se si volesse decidere di fare il bene solamente cercando di eliminare il male.
Anche il parroco con le sue benedizioni non riusciva ad allontanare le ombre…
Il pover’uomo tornò alla sua capanna in fondo al paese un po’ meravigliato e un po’ sconsolato.
Però si sentiva come guarito da una malattia.
Non guardava più le ombre, anzi ricominciò a fare quello che aveva sempre fatto, ma ora con una grande gioia interiore:
accarezzava con lo sguardo tutte le cose che la luce rivelava.
Tutto era bello, nuovo, sembrava nascere allora.
Anche le ombre erano a loro modo belle perché contribuivano a delineare sempre meglio i contorni delle cose.
Non frequentò più il paese, anche perché quei poveri pittori, guardiani dell’ombra, un’istituzione benemerita, gli facevano pena.

Camminava solo per le strade dei prati o per i sentieri del monte.

Se parlava con qualcuno era per rivolgersi ai piccoli, perché i bambini credono a tutti.
Anzi ne aveva sempre intorno qualcuno che lo ascoltava nel suo raccontare di tante cose e nel dire soprattutto che le cose sono belle per quello che sono; che le ombre ci sono perché ci sono le case illuminate e che la luce è l’unica cosa bella perché ci fa vedere il volto delle persone, altro che l’ossessione di quel paese, dove si riconoscevano per l’ombra anziché per il volto!
I bambini che sono semplici e non capiscono i discorsi e i problemi dei grandi, tanto meno il problema delle ombre, crebbero con spontaneità e diventarono giovani un po’ contestatori, perché non badavano più alle ombre e si davano da fare per rinnovare il paese.
Gli anziani restarono sconcertati:
“Come si fa a ragionare con questa gioventù con idee così diverse!” si confidavano con amarezza e anche con segreta curiosità; e diffidavano chiunque dall’incontrare il forestiero.

Ma ormai il sortilegio era rotto.

A poco a poco il contagio dell’ombra passò.
Tutti cominciarono a guardare le cose per quello che erano e anche il paese delle ombre diventò un paese normale, il paese della realtà come tutti i paesi del mondo.
Il povero saggio da tempo si era rimesso in viaggio.
Il paese era guarito, e a lui era rimasta nel cuore una nuova profonda saggezza:
quando vedeva la sua ombra che fedelissima lo accompagnava, pensava al paese delle ombre e sorrideva dicendo tra sé:
“Se si guarda solo l’ombra, il male, non si vive più!
L’ombra e anche il male sono per la luce, per la vita, per il bene!” e dava un calcio alla propria ombra, un calcio all’aria, contento di vivere nella realtà.

Brano senza Autore, tratto dal Web

I bambini sono un miracolo!

I bambini sono un miracolo!

Un bambino risponde “grazie” perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo.
Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui abbia bisogno di te.
Un bambino quando si fa male piange molto di più se percepisce la tua paura.
Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è “aiutami a fare da solo.”
Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti.
Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose.

Lui capirà.

Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la lettura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta.
Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu.
Un bambino ha fiducia nell’amore quando cresce in un esempio di amore, anche se la coppia con cui vive non è quella dei suoi genitori.
L’ipocrisia dello stare insieme per i figli alleva esseri umani terrorizzati dai sentimenti.
“Non sono nervosa, sei tu che mi rendi così!” è una frase da non dire mai.
Un bambino sempre attivo è nella maggior parte dei casi un bambino pieno di energia che deve trovare uno sfogo, non è un paziente da curare con dei farmaci; provate a portarlo il più possibile nella natura.

Un bambino troppo pulito non è un bambino felice.

La terra, il fango, la sabbia, le pozzanghere, gli animali, la neve, sono tutti elementi con cui lui vuole e deve entrare in contatto.
Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti.
Un bambino pone sempre tante domande, ricorda che le tue parole sono importanti; meglio un “questo non lo so!” se davvero non sai rispondere; quando ti arrampichi sugli specchi lui lo capisce e ti trova anche un po’ ridicola.
Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile, nella luce velata dei tuoi occhi.

Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte.

Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere.
Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua.
Il bambino adora la confidenza, ma vuole una madre non un’amica.
Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.

Brano di Giorgio Gaber

La leggenda di Amore e Psiche

La leggenda di Amore e Psiche

Tantissimi anni fa, in un grande regno, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie.
Delle tre figlie, le due più grandi, nonostante fossero molto belle, potevano essere descritte con parole umane; mentre la splendida bellezza della figlia minore non si poteva descrivere, si poteva solo ammirare.
Psiche, questo era il nome della sorella più piccola, era bellissima, la sua grazia e il suo splendore erano tali da attirare le invidie di Venere (Dea della bellezza) che, per vendicarsi, decise di chiedere aiuto a suo figlio Amore (Cupido).

L’invidiosa dea chiese a suo figlio di colpire Psiche con una delle sue infallibili frecce e di farla innamorare dell’uomo più brutto della terra.

Amore accettò ma, una volta arrivato di fronte alla fanciulla, rimase così incantato dalla sua bellezza da distrarsi al punto che una delle sue frecce lo colpì, facendolo innamorare perdutamente della splendida fanciulla.
Psiche, nonostante fosse bellissima, non riusciva a trovare marito, i genitori preoccupati consultarono un oracolo ed in seguito al consiglio dato dallo stesso, la ragazza venne portata a malincuore sulla cima di una rupe e venne lasciata lì da sola.
Con l’aiuto di Zefiro, Cupido riuscì a portarla nel suo palazzo.

Per vivere la sua storia romantica senza farlo sapere alla madre, non le rivelò la sua identità.

Ogni sera, al calar del sole, Amore andava dalla fanciulla e, senza mai mostrare il proprio volto, i due vivevano intensi momenti di passione.
La giovane principessa aveva accettato il compromesso ma, si sa, la curiosità è donna, ed una notte, mentre Amore dormiva, Psiche si avvicinò al suo volto con una lampada restando folgorata dalla bellezza del suo amante.
Mentre ammirava il profilo di Amore, però, una goccia d’olio della lampada cadde accidentalmente sul giovane che, risvegliatosi, scappò via abbandonando la fanciulla.
Quando Venere venne a sapere dell’accaduto scatenò la sua ira su Psiche che, per punizione, venne sottoposta dalla Dea a difficili prove.
La principessa superò brillantemente le prove, anche grazie all’aiuto di vari esseri divini, e questo fece ancora più infuriare Venere che le pose un’ultima prova:

discendere negli inferi e chiedere alla dea Prosepina un po’ della sua bellezza.

Come ordinatole dalla Dea, Psiche si recò negli inferi ma, stavolta, fallì.
Nonostante le fosse stato ordinato di non aprire l’ampolla donatale da Prosepina, la fanciulla, incuriosita, aprì l’ampolla dalla quale uscì una nuvola che fece cadere Psiche in un sonno profondissimo.
Intanto Amore, preso dalla nostalgia, andò alla ricerca della sua amata e, quando la trovò, la risvegliò.
Per non rischiare di perderla di nuovo Amore condusse Psiche sull’Olimpo dove, grazie all’appoggio e all’aiuto di Giove, la giovane principessa, dopo aver bevuto dell’ambrosia, divenne una dea.
Venne celebrato il matrimonio dei due innamorati ed in seguito dalla loro unione nacque una bellissima bambina che prese il nome di Voluttà.

Leggenda Mitologica.
Brano senza Autore, tratto dal Web

Il club del novantanove

Il club del novantanove

C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto.
“Paggio,” gli chiese un giorno il re, “qual è il segreto della tua allegria?”
“Non ho nessun segreto.
Signore, non ho motivo di essere triste.
Sono felice di servirvi.
Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte.
Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto.”
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri:
“Voglio il segreto della felicità del paggio!”
“Non puoi capire il segreto della sua felicità.
Ma se vuoi, puoi sottrargliela!” esclamò il saggio.

“Come?” chiese il re.

“Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove.” rispose il saggio.
“Che cosa significa?” domandò il sovrano.
“Fa’ quello che ti dico…” concluse il saggio
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva:
“Questo tesoro è tuo.
Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato!”
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante.

“Sono stato derubato!” gridò, “Sono stato derubato! Maledetti!”

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili…
Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro.
Soltanto novantanove.
“Novantanove monete.
Sono tanti soldi,” pensò, “ma mi manca una moneta.
Novantanove non è un numero completo!” pensava, “Cento è un numero completo, novantanove no!”

La faccia del paggio non era più la stessa.

Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi.
Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli.
Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove…
Non passò molto tempo che il re lo licenziò.
Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

Se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro?
E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati.
Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

Essere se stessi


Essere se stessi

Nel parco di un manicomio incontrai un giovane dal volto pallido e trasognato.
Sedetti accanto a lui sulla panchina e chiesi:
“Perché sei qui?”

Mi guardò con occhi attoniti e disse:

“È una domanda poco opportuna, la tua, comunque risponderò.
Mio padre voleva fare di me una copia di se stesso, e così mio zio.
Mia madre vedeva in me l’immagine del suo illustre genitore.

Mia sorella mi esibiva il marito marinaio come il perfetto esempio da seguire.

Mio fratello riteneva che dovessi essere identico a lui: un bravissimo atleta.
E anche i miei insegnanti, il dottore in filosofia, e il maestro di musica, e il logico, erano ben decisi; ognuno di loro voleva che io fossi il riflesso del suo volto in uno specchio.

Per questo sono venuto qui.

Trovo l’ambiente più sano.
Qui almeno posso essere me stesso!”

Brano di Kahlil Gibran

La leggenda del salice “piangente”


La leggenda del salice “piangente”

Gesù saliva verso il Calvario, portando sulle spalle piagate la croce pesante.
Sangue e sudore rigavano il volto santo coronato di spine.

Vicino a Lui camminava la Madre, insieme ad altre pie donne.

Gli uccellini, al passaggio della triste processione, si rifugiavano, impauriti, tra i rami degli alberi.
Ad un tratto Gesù stramazzò al suolo.
Due soldati dell’epoca, armati di frusta, si precipitarono su di Lui ed allontanarono la Madre che tentava di rialzarlo, dicendogli:

“Su, muoviti!

E tu, donna, stattene da parte.”
Gesù tentò di rialzarsi, ma la croce troppo pesante glielo impedì.
Era caduto ai piedi di un salice.

Cercò inutilmente di aggrapparsi al tronco.

Allora l’albero pietoso chinò fino a terra i suoi rami lunghi e sottili perché potesse, afferrandosi ad essi, rialzarsi con minor fatica.
Quando Gesù riprese il faticoso cammino, l’albero rimase con i rami pendenti verso terra:
da quel momento venne chiamato “Salice Piangente.”


Leggenda popolare
Brano senza Autore, tratto dal Web