L’importante è volersi bene e… dirselo

L’importante è volersi bene e… dirselo

“Stai dritto con la schiena.
Quante volte te lo devo dire?” disse il papà.
“Muoviti o facciamo notte!” gli disse la mamma.
“E piantala di far domande su tutto: sei stressante!” gli disse la sorella.
“Guarda come hai ridotto lo zainetto!
Se lo dovessi pagare tu…” continuò la mamma.
“Sei un mentecatto!” continuò la sorella.
Matteo credeva di essersi abituato alle parole che scandivano le sue giornate.
Si svegliava di solito al suono di:
“Sbrigati, sei in ritardo, lavati bene, hai messo tutto nello zaino?
Ma quanto sei imbranato!”

Finiva le giornate al suono di:

“Hai gli occhi che ti cadono nel piatto: ora te ne vai a dormire e non far storie come tutte le sere!
Quanto hai preso in italiano?
E spegni subito la luce!”
Ma quel giorno tutto prese una cattiva piega.
Alessandro, il suo migliore amico, gli aveva buttato in faccia:
“Ma sei diventato scemo?”
Che poi significa:
“Ti stai comportando come uno scemo!”
Titti, la maestra, l’aveva definito un “poltronaccio” e, durante la partita, Walter l’aveva chiamato “schiappa”.
Così quella sera due grossi lacrimoni gli scesero lungo le guance e finirono nel purè.
“Uh, ué, la lagna…” fece la sorella.
Matteo corse nella sua cameretta e si buttò sul letto.
Almeno lì poteva singhiozzare in pace.
Un discreto picchiettare alla finestra attirò la sua attenzione.
Corse a vedere e si trovò di fronte una creatura stranissima, ma piacevolissima.
Non si capiva bene come era fatta, ma tutto in lei era soffice, morbido, luminoso, sorridente e carezzevole.

“Chi sei?” domandò Matteo.

La risposta sbocciò come un trillo di campanelli, dolce come biscotti e Nutella:
“Sono un coccolone…
E ho visto che hai bisogno di noi.
Dammi la mano e vieni con me.”
Matteo si mosse come in un sogno.
La morbida creatura lo prese per mano e lo fece volare oltre la finestra nel cielo.
“Dove mi porti?” chiese Matteo.
“Nel paese dei coccoloni!” rispose la strana creatura.
“Dov’è?” ribadì il piccolo.
Dopo un volo leggero attraversarono tutti i colori dell’arcobaleno, che hanno un gusto squisito (il verde è alla menta, l’arancione sa di aranciata, l’indaco è tamarindo e così via), atterrarono in un paese fiorito e pieno di allegria.
Matteo vide che c’erano i bambini coccoloni, i nonni coccoloni e perfino i maestri coccoloni, naturalmente nelle scuole coccolone.

I bambini coccoloni furono i primi ad invitarlo a giocare.

Matteo ci si mise d’impegno, anche perché l’atmosfera era piacevole e amichevole.
E decisamente diversa da quella a cui era abituato.
Quando qualcuno sbagliava, c’era sempre qualcun altro che diceva:
“Coraggio. La prossima volta andrà meglio.”
E quando Matteo riuscì a fare gol, perfino il portiere avversario gli disse:
“Bravo!”
Matteo, invece di esultare, constatò amaramente che probabilmente quello era il primo “bravo” della sua vita.
Dopo la partita, i suoi nuovi amici coccoloni fecero a gara per invitarlo nelle loro case.
Matteo accettò l’invito del portiere avversario, quello che gli aveva detto “bravo”.
Era una famiglia come la sua:
mamma, papà, sorella e fratellino.
Solo che questi erano tutti coccoloni.

A tavola, Matteo ebbe il posto d’onore.

La mamma coccolona lo baciò e Matteo si sentì venire le lacrime agli occhi, perché era tanto tempo che la sua mamma non lo baciava più e lui non sapeva come fare a dirglielo.
“Ho anch’io una sorella più grande.” disse Matteo.
“Allora sai anche tu che cos’è una rottura,” disse il piccolo coccolone, “ma è così comoda per i compiti e per giocare-”
Tutti risero.
Poi tutti fecero il gioco “Racconta la tua giornata”.
Il papà, la mamma, la sorella e il fratellino raccontarono quello che avevano fatto, gli avvenimenti belli della loro giornata.
Matteo fu colpito soprattutto da una cosa: nella famiglia coccolona tutti si ascoltavano.
Si ascoltavano davvero, non si interrompevano a vicenda, non dicevano:
“Smettila un po’, mi fai venire il mal di testa!”
Si ascoltavano semplicemente.
Poi tutti gli occhi si puntarono su Matteo.
“E la tua giornata com’è stata?” chiese il papà coccolone.
Matteo raccontò tutto quello che aveva dentro e che fino a quel momento aveva confidato solo al cuscino.
Lo ascoltarono comprensivi.

Alla fine il papà coccolone gli disse:

“Vedi, l’importante è volersi bene e… dirselo”.
Gli diede un sacchetto di polvere rosa.
“Quando sarai a casa prova questa polverina.
Soffiane un po’ qua e là.
È la polvere coccolona!” gli spiegò.
In quel momento Matteo si svegliò.
“Che razza di sogno ho fatto!” pensò.
Ma…
Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto.
Perché il suo pugno stringeva una manciata di polvere rosa.
“Ma allora è vero!” esclamò.
Mise la polverina dentro una scatoletta e poi si alzò:
“Voglio provare se funziona.”
Vide sul tavolo di cucina il caffè del papà.
Furtivamente fece cadere nella tazzina un pizzico di polverina.
Il papà, come al solito, era di corsa.

Bevve il caffè e poi disse soddisfatto:

“Buono!”
Questo non l’aveva mai fatto.
Anche la mamma se ne accorse.
Poi, incredibilmente, prima di uscire il papà fece una carezza affettuosa sulla testa di Matteo:
“Passa una bella giornata, ometto!
E dacci dentro a scuola perché stasera ti sfido a Scarabeo.”
“Urrà, funziona!” pensò Matteo, felice.
“Ne metterò una razione nel caffè della maestra”.

Di quanta polvere coccolona avremmo bisogno anche noi?

Brano tratto dal libro “Novena di Natale per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Tre racconti brevi sui bambini

Tre racconti brevi sui bambini
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Un bambino e la propria ombra

Il bambino e la montagna

La bambina alla scuola materna

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“Un bambino e la propria ombra”

 

In un paesino di campagna, un bambino camminava verso la scuola, di buon mattino, accompagnato dalla mamma.
Il bambino era completamente assorbito dai lunghi passi della sua enorme ombra proiettata dal sole del mattino, che lo faceva sembrare e sentire un gigante alto trenta metri.

Improvvisamente la madre si fermò.

Guardò il figlio dritto negli occhi e disse:
“Figlio mio, non guardare la tua ombra di mattina, guardala a mezzogiorno!”

Brano senza Autore
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“Il bambino e la montagna”

 

Il piccolo Lorenzo, tre anni, davanti ad un magnifico panorama di montagna, chiese all’improvviso:
“Chi ha fatto la montagna?”
La mamma, sorpresa:
“Non so, Dio?

Oppure si è fatta da sola?”

Il bambino rifletté un momento, poi con la serietà dei piccoli concluse:
“Io lo so: il diavolo ha fatto la montagna e Dio ha fatto i sentieri per arrampicarsi in cima alla montagna!”
Ogni giorno avrai montagne di roccia scoscesa da scalare, dirupi e abissi da superare.
E ogni giorno Dio traccerà il sentiero per superarli.

Brano senza Autore
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“La bambina alla scuola materna”

 

Nikki, mia figlia di quattro anni, non si adattava alla scuola materna e piangeva spesso:
“Non sapeva dirmi che cosa la rendeva infelice!”
Un bel giorno la trovai che sorrideva.

Mi disse che non aveva più pianto, e le chiesi il motivo.

Iniziò a rovistare nello zaino e tirò fuori una grande foto del mio matrimonio, cornice inclusa, che aveva preso da sopra la cassettiera.
Mi disse che tutte le volte che sentiva la mia mancanza, prendeva la foto e la guardava.
E non si sentiva più triste.

Brano senza Autore

L’aquila che visse come un pollo

L’aquila che visse come un pollo

Un giorno un allevatore di polli, appassionato scalatore, mentre si arrampicava su una montagna particolarmente difficile, s’imbatté in una sporgenza.
Su quella sporgenza c’era un nido e nel nido c’erano tre grandi uova.
Uova di aquila.
L’uomo sapeva di comportarsi in modo anti ecologico e forse anche illegale, ma cedette alla tentazione di prendere una delle uova e metterla nel suo zaino, accertandosi, prima, che l’aquila madre non fosse nei paraggi.
L’allevatore continuò la sua scalata, alla fine tornò alla fattoria e mise l’uovo nel pollaio.

Quella sera la gallina si sedette su quell’enorme uovo per covarlo:

era l’immagine della madre più orgogliosa che si potesse immaginare.
E anche il gallo sembrava fiero di sé.
A tempo debito, l’uovo si schiuse e l’aquilotto uscì, si guardò attorno, vide la gallina e disse: “Mamma!”
E fu così che l’aquila crebbe con i suoi fratelli pollastri.

Imparò a fare tutto ciò che fanno i polli:

chiocciare e schiamazzare, grattare per terra alla ricerca di vermi, agitare le ali furiosamente e volare a poche spanne d’altezza prima di ricadere, a terra, in una nuvola di polvere e piume.
L’aquilotto era assolutamente sicuro di essere un pollo.
Un giorno, quando era ormai anziana, l’aquila che credeva di essere un pollo guardò il cielo.
Lassù, in alto tra le correnti, volava maestosa, senza sforzo e senza quasi muovere le ali, un’aquila.
“Cos’è quella?” chiese stupita la vecchia aquila, “È magnifica.
Quanta potenza e quanta grazia!

È poesia in movimento.”

“Quella è un’aquila!” disse un pollo, “È il re degli uccelli.
È un uccello dei cieli, noi siamo solo polli, uccelli di terra!”
E fu così che l’aquila visse e morì da pollo; perché questo era ciò che credeva di essere.

Brano tratto dal libro “Messaggio per un’aquila che si crede un pollo.” di Anthony de Mello

Il cappellino

Il cappellino

“Se non me lo lasci fare non potrò andare a scuola!
Mi vergognerei troppo…
È terribilmente importante, mamma!”
Elena scoppiò a piangere.
Era la sua arma più efficace.
“Uffa, fa’ come vuoi…” brontolò la madre, sbattendo il cucchiaino nel lavello, “Sembrerai un mostro. Peggio per te!”
In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta più o meno simile.
Erano i ragazzi della Seconda B della Scuola Media “Carlo Alberto di Savoia.”
Per quel giorno avevano preso una decisione importante.

Ma gli allievi della Seconda B erano 25.

In effetti, solo nella venticinquesima famiglia, le cose stavano andando in un modo diverso. Elisabetta era un concentrato di apprensione, la mamma e il papà cercavano di incoraggiarla.
Era la quindicesima volta che la ragazzina correva a guardarsi allo specchio.
“Mi prenderanno in giro, lo so.
Pensa a Marisa che non mi sopporta o a Paolo che mi chiama canna da pesca!
Non aspetteranno altro!”
Grossi lacrimoni salati ricominciarono a scorrere sulle guance della ragazzina.
Cercò di sistemarsi il cappellino sportivo che le stava un po’ largo.
Il papà la guardò con la sua aria tranquilla:
“Coraggio Elisabetta.

Ti ricresceranno presto.

Stai reagendo molto bene alla cura e fra qualche mese starai benissimo!”
“Sì, ma guarda!” Elisabetta indicò con aria affranta la sua testa che si rifletteva nello specchio, lucida e rosea.
La cura contro il tumore che l’aveva colpita due mesi prima le aveva fatto cadere tutti i capelli.
La mamma la abbracciò:
“Forza Elisabetta!
Si abitueranno presto, vedrai…”
Elisabetta tirò su con il naso, si infilò il cappellino, prese lo zainetto e si avviò.
Davanti alla porta della Seconda B, il cuore le martellava forte.

Chiuse gli occhi ed entrò.

Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco, vide qualcosa di strano.
Tutti, ma proprio tutti, i suoi compagni avevano un cappellino in testa!
Si voltarono verso di lei e sorridendo si tolsero il cappello esclamando:
“Bentornata Elisabetta!”
Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera dei suoi riccioli, anche Paolo, anche Elena e Giangi e Francesca…
Tutti!
Ma proprio tutti!
Si alzarono e abbracciarono Elisabetta che non sapeva se piangere o ridere e mormorava soltanto: “Grazie…”
Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati, che non si era rasato i capelli, semplicemente perché era pelato di suo e aveva la testa come una palla da biliardo.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

Il boscaiolo e la principessa


Il boscaiolo e la principessa

C’era una volta un giovane boscaiolo che, un giorno, andò in città al castello del Re, per vendere un po’ di legna.
Caricò quindi il carretto, con fascine e tocchi di legna da ardere, e partì.
Lungo il tragitto si fermò sulla riva di un fiume per far bere un sorso d’acqua al cavallo; d’un tratto si accorse che in mezzo alle canne, che crescevano sulla sponda, c’erano tre pesciolini che boccheggiavano:
erano rimasti incastrati e non riuscivano più a nuotare.
Il boscaiolo, che voleva molto bene agli animali, prese allora una ciotola dal suo zaino e con molta delicatezza vi fece scivolare dentro uno alla volta i pesciolini e li liberò nel fiume:
“Ciao pesciolini!
Fate più attenzione la prossima volta!”
Poco dopo salì sul suo carretto e si rimise in cammino.
Era una bella giornata soleggiata e il boscaiolo era di ottimo umore.
Mancava ancora un’ora all’arrivo e decise allora di fermarsi per mangiare un po’ di pane e del formaggio che aveva nel suo zaino.

Sul ciglio del sentiero c’era un grande masso sotto un albero.

Slegò il cavallo così che potesse mangiare l’erba che c’era lì intorno e lui si sedette sul masso.
Mangiò il suo panino con grande appetito, si rimise in piedi e si scrollò di dosso le briciole di pane.
Molte formichine si erano già raggruppate per recuperare le briciole e portarle nel loro formicaio.
Il boscaiolo si mise a osservarle incuriosito:
“Buon appetito formichine!” disse sorridendo.
Seguì la carovana con lo sguardo e si accorse ben presto che si interrompeva vicino la ruota del carretto.
Si rese subito conto che aveva ostruito con la ruota l’ingresso del formicaio, creando panico tra le piccole operaie.
Dispiaciuto per l’accaduto, si adoperò subito per liberare l’ingresso del formicaio, spostando la ruota e liberando l’ingresso dalla terra che era caduta dentro.
Subito dopo riprese il viaggio.
Finalmente arrivò in città e si diresse verso il castello per vendere lì la sua legna.
Bussò alla porta riservata ai mercanti e aprì un servitore: “Chi è?”

“Sono il boscaiolo e sono qui per vendere la legna!”

Il servitore fece entrare il boscaiolo e il suo carretto e lo condusse nel cortile interno per scaricare la legna.
Lui vuotò il carretto e aspettò di venir pagato.
Si mise a girovagare per il cortile e si avvicinò all’albero che era al centro.
Sentiva un debole pigolio e incuriosito si mise a cercare da dove proveniva.
Poco sotto l’albero c’erano tre piccoli di gazza che erano caduti dal nido che si trovava su un ramo.
Pigolavano disperatamente: erano affamati e spaventati.
Il boscaiolo prese un pezzo di pane che aveva con se, lo sbriciolò e diede da mangiare le briciole agli uccellini.
Una volta sfamati, li prese e li rimise nel nido.
La principessa era affacciata alla finestra e da lì vide il giovane boscaiolo che nutriva gli uccellini e li salvava.
Piacevolmente colpita, decise di dover conoscere più da vicino il giovane del cortile.
Finse di essere una serva e andò nel cortile:
era emozionata perché da vicino il giovane boscaiolo era molto più carino.

“Buongiorno giovane, che fate qui?”

Il boscaiolo si voltò e vide una bellissima ragazza con lunghi capelli, occhi grandi e sorridenti e una bocca color di ciliegia.
Si innamorò di lei a prima vista e rispose balbettando:
“Sono un boscaiolo e sono venuto a portare la legna.”
“Ho visto che avete salvato la vita a quei poveri uccellini.”
Il boscaiolo rispose umilmente:
“Chiunque lo avrebbe fatto al mio posto, chi non si adopererebbe per aiutare dei poveri uccellini indifesi?”
In quel momento arrivò il servitore per pagare il boscaiolo ed esclamò:
“Principessa!
Cosa fate qui in cortile così abbigliata?
Ah, se lo venisse a sapere vostro padre!”
La principessa pregò il servitore di mantenere il segreto e si ritirò nelle sue stanze, non prima di aver salutato il boscaiolo.
Mentre rientrava in camera la principessa si rese conto di essersi innamorata del boscaiolo a prima vista:
era, sì, di umili origini,

ma da come si era comportato con gli uccellini si capiva che aveva un animo nobile.

Sapeva però che era un amore impossibile perché il re, suo padre, non avrebbe mai acconsentito ad un matrimonio con un uomo che non fosse un principe.
Soffriva così tanto per questo amore impossibile che si ammalò e nessun medico di quelli a corte riuscì a lenire il suo dolore, perché non ci sono medicine che possono guarire un cuore innamorato.
I medici dissero al re che, il malore della principessa, veniva dal profondo del cuore, solo lei poteva decidere di guarire.
Mentre tornava nella sua casa, il boscaiolo non poteva non pensare alla dolce principessa, al suono melodioso della sua voce:
peccato che fossero riusciti a scambiarsi così poche parole!
Passava intere giornate a chiedersi come fare per poter conquistare il suo cuore, ignorando che i suoi sentimenti fossero ricambiati.
Intanto le condizioni della principessa si aggravarono e il padre, disperato, si recò nella stanza della principessa e le disse:
“Figlia mia, cosa posso fare per aiutarti?
Farò tutto ciò che vuoi e che è in mio potere per poter far guarire il tuo cuore.”
Con un filo di voce la principessa disse:
“Il mio cuore appartiene al boscaiolo.
Se non potrò vivere con lui, io morirò.”
“Figlia mia, non puoi sposare un semplice boscaiolo, tu sei la figlia del re!” esclamò il re.
“Non posso vivere senza il mio amore!” disse la principessa con un filo di voce.

Il re sospirò e lasciò la stanza.

Era combattuto, non poteva vedere la figlia morire ed allo stesso tempo non poteva tollerare l’idea di dare la sua unica figlia in sposa a un semplice boscaiolo.
Alla fine decise di dare al boscaiolo una possibilità:
se avesse superato tre prove alle quali lo avrebbe sottoposto, avrebbe potuto avere in sposa la principessa.
Il boscaiolo venne fatto chiamare al cospetto del Re che gli offrì la mano della principessa, a condizione che lui se ne mostrasse degno.
L’araldo poi illustrò le prove che avrebbe dovuto superare.
La prima prova consisteva nel recuperare un anello che era stato gettato in un punto imprecisato del fiume.
Il boscaiolo aveva un solo giorno per provare a trovare l’anello:
se avesse fallito, avrebbe dovuto dire addio alla sua amata.
Il boscaiolo era deciso a riuscire nell’impresa perché amava tanto la sua principessa, ma era disperato perché non sapeva nuotare.
Era seduto sulla riva del fiume tenendosi la testa tra le mani quando scorse nell’acqua tre pesciolini:
erano i pesciolini ai quali aveva salvato la vita il giorno che andò in città.
Uno di loro aveva in bocca un piccolo oggetto luccicante:
era l’anello!
I pesciolini lo stavano ringraziando per averli aiutati!

Il boscaiolo era commosso e stupito.

Recuperò l’anello dalla bocca del pesciolino e corse al castello per consegnarlo al re.
La prima prova era stata superata.
La principessa era stata informata di quello che stava accadendo dalla sua fida ancella e, quando seppe che la prima prova era stata superata, cominciò a stare un po’ meglio.
Il giorno dopo fu il momento della seconda prova:
il boscaiolo venne condotto nel cortile del castello, quel cortile che vide nascere l’amore tra lui e la principessa.
Su un lato del cortile c’erano dieci sacchi di grano e dieci servitori.
Ad un cenno del re, i servitori rovesciarono i dieci sacchi di grano per tutto il cortile e l’Araldo spiegò che il boscaiolo avrebbe dovuto raccogliere tutti i chicchi di grano:
aveva tempo fino all’alba del giorno dopo.
I chicchi erano ovunque nel cortile, tra la ghiaia, i fili d’erba, nascosti nei più piccoli anfratti.
L’entusiasmo che aveva per il superamento della prima prova pian piano svanì lasciando nuovamente posto allo sconforto.
Per quanto velocemente raccogliesse il grano, difficilmente sarebbe riuscito a portare a termine la prova entro i tempi stabiliti.
Era oramai calato il sole, al castello dormivano tutti e il boscaiolo era ancora in alto mare, quando, da sotto la porta, vide una processione di formiche:

erano tantissime!

Erano le formiche del formicaio che aveva salvato dalla distruzione ed erano lì a ringraziarlo per aver salvato la loro vita!
Le formichine iniziarono a raccogliere i chicchi di grano e a riporli nei sacchi; grazie al loro olfatto riuscivano a scovare anche i chicchi di grano che erano nascosti nei posti dove il boscaiolo mai avrebbe potuto trovarli.
Prima dell’alba ogni singolo chicco di grano era stato recuperato e anche la seconda prova era stata superata.
E la principessa migliorò ancora un po’.
Era giunto il momento della terza e ultima prova.
Se il boscaiolo l’avesse superata, finalmente i due innamorati avrebbero potuto coronare il loro sogno d’amore.
L’araldo iniziò a spiegare l’ultima prova.
Il boscaiolo avrebbe dovuto portare al Re una delle mele d’oro che crescevano sull’albero magico che si trovava in cima alla montagna incantata.
Tutti sapevano che coloro che erano partiti per la montagna incantata non avevano fatto ritorno e lo sapeva anche il boscaiolo.
Si incamminò verso la montagna incantata e, arrivato quasi a metà strada, vide arrivare in volo tre uccelli.

Erano le gazze che aveva salvato e che ora erano cresciute.

Avevano udito della prova che doveva superare e avevano deciso di ringraziare il giovane boscaiolo andando a prendere la mela d’oro.
Infatti una di loro aveva, stretta nel becco, la mela preziosa e la diede al giovane che non poteva credere ai suoi occhi.
Prese la mela e corse verso il castello per consegnare la mela al Re e per poter finalmente abbracciare la sua amata.
La principessa guarì e finalmente i due innamorati poterono sposarsi con la benedizione del Re.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La coperta


La coperta

La piccola coperta bianca che lo aveva scaldato nella culla non lo aveva lasciato.
Era minuscola, un po’ lisa, e lo accompagnava dovunque.
Se proprio era costretto a starle lontano, il bambino pretendeva che il piccolo rettangolo di stoffa bianca fosse in un luogo visibile.
Piegata o arrotolata nello zainetto colorato lo seguiva a scuola.

La piccola coperta bianca era come la sua ombra.

Quando, dopo mille insistenze, la mamma riusciva convincerlo a mettere la coperta in lavatrice, il bambino si sedeva inquieto davanti all’oblò dello sportello e aspettava, senza perderla d’occhio un istante.
La sorellina di poco più grande lo canzonava per questa mania, ma al bambino non importava.
La coperta era il suo talismano segreto, il suo scudo, la sua protezione.
Un giorno, il papà annunciò che per motivi di lavoro doveva affrontare un lungo viaggio in aereo.

Per il bambino era una novità.

La vigilia della partenza, trascinando la sua coperta, seguì preoccupato tutti gli spostamenti del papà, fissandolo con apprensione durante la preparazione della valigia.
“Papà, non cadono mai gli aerei?” chiese preoccupato il bambino.
“Quasi mai!” rispose il papà.
“Quello che prendi tu è un aereo bello grosso, vero?” prosegui il bambino.
“Certo. Il più grosso di tutti.” lo rassicurò il papà.
“E sta su anche se c’è la bufera?” chiese ancora il bambino.
“Di sicuro.” e così dicendo il papà cercò di tranquillizzare il bimbo.
“Tu però stai attento. C’è il paracadute?” riprese nuovamente il bimbo.
“Ma sì, bimbo mio.” esclamò dolcemente il papà.
Il padre partì e l’aereo arrivò in orario.
L’uomo si sistemò in albergo, ma quando aprì i bagagli rimase di stucco.
In cima a tutto, nella valigia, c’era la piccola coperta bianca del suo bambino.

Allarmato, telefonò immediatamente alla moglie:

“E’ capitata una cosa terribile, non so come sia potuto succedere ma la coperta del bambino è qui nella mia valigia!
Come facciamo?”
“Stai tranquillo!” rispose la moglie.
“Poco fa il bambino mi ha detto:
Non preoccuparti, mamma.
Ho dato a papà la mia coperta:
non gli succederà niente!”

Brano tratto dal libro “Diciassette storie col nocciolo.” di Bruno Ferrero

Per favore vestitemi di rosso


Per favore vestitemi di rosso

Nella mia duplice professione di educatrice e di assistente sanitaria, ho lavorato con numerosi bambini affetti dal virus che provoca l’AIDS.
Il rapporto che ho avuto con questi bambini è stato un dono della mia vita.
Mi ha insegnato tante cose, ma ho imparato soprattutto che il grande coraggio si trova negli involucri più piccoli.
Vi racconterò di Tyler.
Tyler nacque affetto da HIV; anche sua madre era infetta.
Fin dal principio della sua vita Tyler dovette ricorrere alle medicine per sopravvivere. (…)

A volte aveva bisogno anche di ossigeno supplementare per sostenere la respirazione.

Tyler non era disposto a cedere neanche un istante della sua infanzia a questa malattia mortale.
Non era insolito trovarlo a giocare e correre attorno al cortile, portando lo zaino pieno di medicine sulla schiena e trascinando la bombola di ossigeno nel suo carretto.
Tutti noi che conoscevamo Tyler ci meravigliavamo della sua gioia pura nell’essere vivo e dell’energia che questa gli dava.
La mamma di Tyler lo prendeva in giro dicendogli che lui si spostava tanto velocemente che lei avrebbe dovuto vestirlo di rosso.
In quel modo, quando dava un’occhiata fuori della finestra per controllarlo quando giocava in cortile, l’avrebbe individuato rapidamente.

La temuta malattia alla fine logorò anche una piccola dinamo come Tyler.

Il bambino si ammalò gravemente e purtroppo si ammalò anche sua madre, affetta da HIV.
Quando divenne chiaro che Tyler non sarebbe sopravvissuto, sua madre gli parlò della morte.
Lo confortò dicendogli che anche lei stava morendo e che presto sarebbe stata con lui in cielo.
Pochi giorni prima di morire, Tyler mi chiamò al suo letto d’ospedale e mi sussurrò:
“Morirò presto.
Non ho paura.
Quando muoio, per favore vestitemi di rosso.
La mamma ha promesso di venire anche lei in cielo.
Io starò giocando quando arriverà lei, e voglio essere sicuro che mi trovi.”

Brano di Cindy Dee Holms

La città da colorare


La città da colorare

C’era una volta una piccola città dominata dalle ciminiere di una grande fabbrica.
Il cielo della città era grigio per il fumo, grigio era il colore delle case, grigia la faccia della gente.
I bambini erano pallidi e non avevano mai voglia di giocare.
Un giorno arrivò nella piccola città uno sconosciuto.
Era un uomo giovane, dal sorriso simpatico e gli occhi luminosi.
Portava un voluminoso zaino rosso e blu e, sotto il braccio, un grosso ombrellone giallo.

Lo sconosciuto aprì l’ombrellone nella piazza della città e sotto dispose, in bell’ordine, delle statuine di vetro.

I passanti si fermavano, guardavano le statuine, molti le compravano.
In realtà lo sconosciuto non faceva molto per vendere le sue statuine.
Egli si interessava soprattutto alla gente:
parlava con loro, li ascoltava sorridendo, li incoraggiava…
Finché, un mattino, lo sconosciuto estrasse dalle tasche del suo zaino dei gessetti colorati e si mise a disegnare sul marciapiede grigio una città meravigliosa dai colori splendidi, piena di verde, di gente sorridente, di bambini che giocavano.
Da tutta la città accorreva gente per vedere il magnifico disegno, che riusciva a riempire gli occhi e a riscaldare il cuore.

Quando il disegno fu terminato, lo sconosciuto distribuì fra tutti i presenti i suoi gessetti colorati.

Poi se ne andò.
Nessuno l’ha mai più visto.
La gente della piccola città decise di staccare il marciapiede dal suolo e di esporlo nel museo cittadino perché tutti potessero vedere la città meravigliosa dipinta dallo strano venditore.
Ma pochi avevano voglia di andare al museo e i colori cominciarono a sbiadire.
Presto si dimenticarono di lui.
Ma un giorno alcuni bambini trovarono i gessetti colorati che lo sconosciuto aveva distribuito e cominciarono a riempire di colori e di meravigliosi disegni i muri grigi della città grigia.
Oggi la chiamano: “La piccola città colorata dove la gente sorride!”

Brano tratto dal libro “Altre storie.” di Bruno Ferrero