Giocare sulle scale (Essere Dio)

Giocare sulle scale
(Essere Dio)

Un bambino giocava a “fare il prete” insieme ad un coetaneo, sulle scale della sua casa.
Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare.

Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente:

“Posso predicare soltanto io!
Tu non puoi predicare!

Tocca a me!

Rovini il gioco, sei cattivo!”
Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare.

A questo punto il bambino si imbronciò per un attimo.

Poi, illuminandosi, salì sul gradino più alto e rispose:
“Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il tizzone rimasto isolato

Il tizzone rimasto isolato

Il parroco di una chiesetta del New England si accorse che uno dei suoi più assidui fedeli disertava da tempo le funzioni della domenica.
Una sera, decise di fargli visita e lo trovò solo in casa,

seduto davanti al caminetto.

Senza dire una parola il prete prese con le molle un tizzone ardente e lo posò sul pavimento; poi sedette su una poltrona e rimase a fissare per qualche minuto il tizzone che rimasto isolato fuori del caminetto, lentamente si spegneva.

L’uomo intuì l’ammonimento e disse:

“Mi avete fatto un bellissimo sermone, reverendo.
Da domenica prossima, verrò di nuovo in chiesa!”

Brano tratto dal libro “Metodo e tecniche di redazione del ricorso al T.A.R.: Teso all’annullamento di un provvedimento amministrativo.” di Francesco Turrini Dertenois

Informazione, prego!

Informazione, prego!

Quando ero bambino, mio padre ebbe il primo telefono del paesino dove vivevamo.
Mi ricordo bene la vecchia scatola di legno, bella lucida, fissata al muro e il bel ricevitore nero, bello lucido, appeso al suo fianco.
Ero troppo piccolo per giungere fino al telefono, ma ero abituato ad ascoltare estasiato mia madre parlargli.
Più tardi, ho scoperto che da qualche parte, dentro quel meraviglioso apparecchio, viveva una persona fantastica…
Il suo nome era “Informazione, prego!” e non c’era nulla che non sapesse
“Informazione, prego!” poteva fornire il numero di chiunque in più dell’ora esatta.
La mia prima esperienza personale con quel “genio della lampada” accadde un giorno quando mia madre si era recata da una vicina:

“Stavo giocando in cantina e diedi un forte colpo di martello su un dito.

Il dolore era tremendo, ma non mi sembrava utile che mi mettessi ad urlare.
Ero da solo e non c’era nessuno per potermi sentire e consolare.
Andavo avanti e indietro intorno a casa, succhiando il mio dito.
Giunsi per caso ai piedi della scalinata.
Il telefono!
Di fretta, corsi in cucina, presi il piccolo sgabello e lo trascinai fin sotto il telefono.
Dopo essere salito, sganciai il ricevitore e lo avvicinai all’orecchio.
“Informazione, prego!” dissi nel microfono, lì, un po’ sopra la mia testa.
Un clic, o forse due… e sentii una vocina chiara dirmi:

“Informazione!”

“Mi sono fatto male al dito!” dissi quindi, “Mi sono fatto male al dito!”
“Stai sanguinando?” mi chiese la voce.
Gli risposi:
“No, mi sono colpito un dito con un martello e mi fa tanto male!”
Mi chiese:
“Puoi aprire lo scomparto del ghiaccio!”
Ho riposto che, certo, potevo farlo.
“Allora, prendi un cubetto di ghiaccio e mettilo sul tuo dito!” mi disse.”
Dopo quell’esperienza ho chiamato “Informazione, prego!” per qualsiasi cosa:
“Gli chiesi di aiutarmi per la geografia, e mi ha detto dove si trovava Montréal.
Mi ha aiutato anche per i compiti di matematica.
Mi ha detto che il piccolo scoiattolo, che avevo trovato nel parco il giorno prima, doveva mangiare della frutta e delle noccioline.

Un brutto giorno, il mio canarino è morto

Ho chiamato “Informazione, prego!” e gli ho raccontato la mia triste storia.
Mi ha ascoltato attentamente e mi ha detto le solite cose che dice un adulto per confortare un bambino, ma ero inconsolabile.
Allora, gli chiesi con un nodo alla gola:
“Perché gli uccelli cantano così melodiosamente e recano tanta gioia alle famiglie, solo per finire miseramente come un mucchietto di piume in fondo ad una gabbia?”
Probabilmente ha percepito la mia profonda disperazione e mi ha detto, con voce molto rassicurante:
“Paul, ricordati che c’è un altro mondo dove si può cantare!”
In un certo senso mi sono sentito meglio.”
Un’altra volta chiamai di nuovo: “Informazione, prego!”
“Informazione!” mi rispose la voce, ormai diventata così familiare.
Gli chiesi:
“Come si scrive la parola riparazione!” ”
Tutto questo si svolse nella citta di Québec, in quel tempo avevo 9 anni.
Poi, traslocammo nell’altra parte della provincia, a Baie-Comeau.

La mia amica mi mancava da morire.

“Informazione, prego!” apparteneva a quella cassetta di legno del casolare di famiglia, e, stranamente, non ho mai pensato di utilizzare il nuovo telefono, appoggiato su un tavolo nel corridoio dell’ingresso!
Giunto nell’adolescenza, i ricordi di quelle conversazioni nella mia infanzia non mi hanno mai lasciato.
Spesso, nei momenti di dubbi e di difficoltà, mi sono ricordato di quelle sensazioni rassicuranti che avevo all’epoca.
Apprezzavo ora la pazienza, la comprensione e la gentilezza che ha avuto, per dedicare il suo tempo ad un ragazzino!
Alcuni anni dopo, mentre mi recavo al collegio, a Montréal, il mio aereo doveva fare scalo in Québec.
Avevo mezzora d’attesa prima di prendere l’altro aereo.
Ho trascorso 15 minuti al telefono con mio fratello, che vive sempre in Québec.
Poi, senza pensare veramente a quello che stavo facendo, ho pigiato su “0” e ho detto “Informazione, prego!”
Come per incanto, ho udito quella stessa vocina chiara che conoscevo benissimo:

“Informazione!”

Non avevo per niente previsto questo, ma mi è scapato di dirgli:
“Come si scrive la parola riparazione?”
Ci fu un attimo di silenzio…
Poi, udii quella voce tanto dolce rispondermi:
“Immagino che il tuo dito è guarito ormai!”
Con un misto tra la gioia e l’emozione gli ho detto:
“E quindi sempre lei! Mi chiedo se ha la minima idea di quanto è stata importante per me in tutti quegli anni trascorsi!”
“Io mi chiedo,” dice lei, “se tu sai quanto erano importanti per me le tue chiamate.
Non ho mai avuto figli ed ero sempre impaziente di ricevere le tue telefonate!”
Gli ho detto quanto spesso, ho pensato a lei nel corso degli ultimi anni e le ho chiesto se potevo richiamarla, quando tornavo a trovare mio fratello.

“Ben volentieri, puoi chiedere di Sally!” mi rispose.

Tre mesi dopo, quando mi recai di nuovo a Québec, un’altra voce mi rispose a “Informazione!” chiesi di parlare a Sally.
“Lei è un amico?” mi chiese quella voce sconosciuta.
Gli risposi:
“Sì, un vecchio amico!”
Sentii allora quella voce dirmi:
“Sono dispiaciuta di doverle dire questo, Sally lavorava solo Part-Time in questi ultimi anni perché era molto ammalata.
Ed è deceduta, ormai da cinque settimane!”
Fui molto sconcertato!
Ma prima che potessi riagganciare, mi disse ancora:
“Aspetti un instante!
Ha detto che si chiama Paul?”
Risposi di si.

“Allora, Sally a lasciato un messaggio per lei.
Lo ha scritto, nel caso che chiamasse.
Me lo lasci leggere!
Quel messaggio diceva:
“Gli dica che credo sempre che c’è un altro mondo dove si può cantare.
Saprà quello che voglio dire!”
La ho ringraziata e ho riagganciato.
Certo, sapevo quello che Sally voleva dire!”
Non sottovalutare mai l’effetto positivo che puoi avere sugli altri!

Brano senza Autore, tratto dal Web

Guarda dove vai (La candela spenta)


Guarda dove vai
(La candela spenta)

Nei tempi remoti, in Giappone, si usavano lanterne di carta e di bambù con le candele dentro.
Una notte, a un cieco che era andato a trovarlo,

un tale offrì una lanterna da portarsi a casa.

“A me non serve una lanterna.” disse il cieco, “Buio o luce per me sono la stessa cosa!”
“Lo so che per trovare la strada a te non serve una lanterna,” rispose l’altro, “ma se non la hai, qualcuno può venirti addosso.
Perciò devi prenderla.”
Il cieco se ne andò con la lanterna, ma non era ancora andato molto lontano

quando si sentì urtare con violenza.

“Guarda dove vai!” esclamò il cieco allo sconosciuto, “Non vedi questa lanterna?”
“La tua candela si è spenta, fratello!” rispose lo sconosciuto.

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

Un cerchio nell’acqua

Un cerchio nell’acqua

Il piccolo stagno sonnecchiava perfettamente immobile nella calura estiva.
Pigramente seduto su una foglia di ninfea, un ranocchio teneva d’occhio un insetto dalle lunghe zampe che stava spensieratamente pattinando sull’acqua:
presto sarebbe stato a tiro e il ranocchio ne avrebbe fatto un solo boccone, senza tanta fatica.
Poco più in là, un altro minuscolo insetto acquatico, un ditisco,

guardava in modo struggente una graziosa ditisca:

non aveva il coraggio di dichiararle il suo amore e si accontentava di ammirarla da lontano.
Sulla riva a pochi millimetri dall’acqua un fiore piccolissimo, quasi invisibile, stava morendo di sete.
Proprio non riusciva a raggiungere l’acqua, che pure era così vicina.
Le sue radici si erano esaurite nello sforzo.
Un moscerino invece stava annegando.

Era finito in acqua per distrazione.

Ora le sue piccole ali erano appesantite e non riusciva a risollevarsi e l’acqua lo stava inghiottendo.
Un pruno selvatico allungava i suoi rami sullo stagno.
Sulla estremità del ramo più lungo, che si spingeva quasi al centro dello stagno, una bacca scura e grinzosa, giunta a piena maturazione, si staccò e piombò nello stagno.
Si udì un “pluf!” sordo, quasi indistinto, nel gran ronzio degli insetti.
Ma dal punto in cui la bacca era caduta in acqua, solenne e imperioso, come un fiore che sboccia, si allargò il primo cerchio nell’acqua.
Lo seguì il secondo, il terzo, il quarto…
L’insetto dalle lunghe zampe fu carpito dalla piccola onda e messo fuori portata dalla lingua del ranocchio.

Il ditisco fu spinto verso la ditisca e la urtò:

si chiesero scusa e si innamorarono.
Il primo cerchio sciabordò sulla riva e un fiotto d’acqua scura raggiunse il piccolo fiore che riprese a vivere.
Il secondo cerchio sollevò il moscerino e lo depositò su un filo d’erba della riva, dove le sue ali poterono asciugare.
Quante vite cambiate per qualche insignificante cerchio nell’acqua.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il cucciolo di cammello

Il cucciolo di cammello

Mongolia del Sud.
È primavera nel Deserto Dei Gobi, una famiglia di pastori nomadi alleva cammelli.

Tra aprile e maggio nascono i cuccioli, da sempre.

La vita quotidiana è fatta di rituali, mansioni da svolgere con costanza e umiltà, di tempeste di sabbia e di canti.
Una famiglia di pastori nomadi aiuta a far nascere un cammello del loro branco.
Il parto risulta essere molto difficile e doloroso per la madre, che stremata, dopo due giorni metterà alla luce un cucciolo di cammello albino.
Ma dopo la nascita, la madre non accetta questo suo piccolo così diverso.

Quindi gli rifiuta il latte e le cure materne.

Dopo tanti sforzi, i pastori mandano i loro figli nel deserto, alla ricerca di un musicista.
Finalmente arriva un violinista, e dopo alcuni giorni, la dolce musica e le carezze da parte di una donna, riescono a commuovere e intenerire la madre del piccolo cammello fino alle lacrime, riuscendo così a recuperare l’istinto materno, cominciando a nutrire e ad accudire il proprio cucciolo.

Brano tratto dal film-documentario sulla perdita dell’amore “La storia del cammello che piange.” di Luigi Falorni e Byambasuren Davaa.

Un film semplice e straordinario, che cerca di parlare con l’amore della natura.
Talvolta, le storie vere racchiudono in se stesse quella magia dell’incanto che nessuna finzione riesce ad eguagliare.
Non ci sono effetti speciali, costumi o sofisticate strategie in grado di competere con la bellezza che ci circonda.
Basta saper vedere con gli occhi del cuore e riscoprire la meravigliosa semplicità dello stupore.

L’aquila che visse come un pollo

L’aquila che visse come un pollo

Un giorno un allevatore di polli, appassionato scalatore, mentre si arrampicava su una montagna particolarmente difficile, s’imbatté in una sporgenza.
Su quella sporgenza c’era un nido e nel nido c’erano tre grandi uova.
Uova di aquila.
L’uomo sapeva di comportarsi in modo anti ecologico e forse anche illegale, ma cedette alla tentazione di prendere una delle uova e metterla nel suo zaino, accertandosi, prima, che l’aquila madre non fosse nei paraggi.
L’allevatore continuò la sua scalata, alla fine tornò alla fattoria e mise l’uovo nel pollaio.

Quella sera la gallina si sedette su quell’enorme uovo per covarlo:

era l’immagine della madre più orgogliosa che si potesse immaginare.
E anche il gallo sembrava fiero di sé.
A tempo debito, l’uovo si schiuse e l’aquilotto uscì, si guardò attorno, vide la gallina e disse: “Mamma!”
E fu così che l’aquila crebbe con i suoi fratelli pollastri.

Imparò a fare tutto ciò che fanno i polli:

chiocciare e schiamazzare, grattare per terra alla ricerca di vermi, agitare le ali furiosamente e volare a poche spanne d’altezza prima di ricadere, a terra, in una nuvola di polvere e piume.
L’aquilotto era assolutamente sicuro di essere un pollo.
Un giorno, quando era ormai anziana, l’aquila che credeva di essere un pollo guardò il cielo.
Lassù, in alto tra le correnti, volava maestosa, senza sforzo e senza quasi muovere le ali, un’aquila.
“Cos’è quella?” chiese stupita la vecchia aquila, “È magnifica.
Quanta potenza e quanta grazia!

È poesia in movimento.”

“Quella è un’aquila!” disse un pollo, “È il re degli uccelli.
È un uccello dei cieli, noi siamo solo polli, uccelli di terra!”
E fu così che l’aquila visse e morì da pollo; perché questo era ciò che credeva di essere.

Brano tratto dal libro “Messaggio per un’aquila che si crede un pollo.” di Anthony de Mello

Il topo ubriaco

Il topo ubriaco

Un topo domestico, nobile, gentile e di bell’aspetto, durante una delle sue disperate corse per sfuggire al gatto, si trovò un bel giorno nella cantina di una ricca villa.
Là, a causa del buio, finì dentro una strana pozzanghera.

Era una pozzanghera di ottimo brandy,

sfuggito dallo spinotto difettoso di una botticella di pregiato rovere.
Il buon topo dapprima diede qualche timida leccatina a quel liquido curioso.

Il sapore gli piacque.

Aveva un gusto forte e deciso, scendeva in gola come fuoco.
Quando ebbe “bevuto” la pozzanghera, il topo si raddrizzò, picchiò i pugni sul petto, fece la faccia feroce e gridò:
“Dov’è il gatto?”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Due ranocchie nella panna

Due ranocchie nella panna

C’erano una volta due ranocchie che caddero in un recipiente di panna.
Immediatamente intuirono che sarebbero annegate:
era impossibile nuotare o galleggiare a lungo in quella massa densa come sabbie mobili.
All’inizio, le due rane scalciarono nella panna per arrivare al bordo del recipiente però era inutile, riuscivano solamente a sguazzare nello stesso punto e ad affondare.

Sentivano che era sempre più difficile affiorare in superficie e respirare.

Una di loro disse a voce alta:
“Non ce la faccio più.
È impossibile uscire da qui, questa roba non è fatta per nuotarci.
Dato che morirò, non vedo il motivo per il quale prolungare questa sofferenza.
Non comprendo che senso ha morire sfinita per uno sforzo sterile!”
E detto questo, smise di scalciare e annegò con rapidità, venendo letteralmente inghiottita da quel liquido bianco e denso.

L’altra rana, più perseverante o forse più cocciuta, disse fra sé e sé:

“Non c’è verso!
Non si può fare niente per superare questa cosa.
Comunque, dato che la morte mi sopraggiunge, preferisco lottare fino al mio ultimo respiro.
Non vorrei morire un secondo prima che giunga la mia ora!”
E continuò a scalciare e a sguazzare sempre nello stesso punto, senza avanzare di un solo centimetro.

Per ore ed ore!

E ad un tratto… dal tanto scalciare, agitare e scalciare… la panna si trasformò in burro.
La rana sorpresa spiccò un salto e pattinando arrivò fino al bordo del recipiente.
Da lì, non gli rimaneva altro che tornare a casa gracidando allegramente.

Brano tratto dal libro “Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere.” di Jorge Bucay

Sean e la mucca

Sean e la mucca

In un piccolo pesino dell’Irlanda vivevano una volta un figlio e una madre molto poveri.
Sean che era ancora un ragazzetto, non solo doveva lavorare tutto il giorno ma per arrotondare faceva anche delle scope che poi vendeva al mercato.
Ogni giorno portava a pascolare l’unica mucca che possedevano, e questa dava ogni giorno latte fresco.
Una bella mattina, Sean decise di raccogliere erica per intrecciare e fabbricare nuove scope, e così seguito dalla mucca si spinse oltre il bosco.
Ad un certo punto sentendosi stanco decise di riposarsi in una piccola valletta.
Si sdraiò e d’improvviso vide che tutto il prato era pieno di folletti che cantavano e che giocavano allegramente:

“Beati voi come siete contenti.

Io invece devo lavorare tutto il giorno e non ho mai tempo per giocare.”
“Vieni, vieni a giocare e ci divertiremo.” risposero i folletti.
“Oh grazie,” rispose Sean, “e a che cosa giochiamo?”
“A calcio,” rispose uno dei folletti, “tu stai in porta.”
E così cominciarono a giocare.
Tutto andò per il meglio finché arrivò una pallonata giusto in faccia al ragazzo e per cinque minuti non poté vedere niente.
Tutti gli elfi ridevano a crepapelle, e se ne andarono correndo per il prato.
Quando Sean recuperò la vista, non trovò più la sua mucca e subito pensò che si era persa nel bosco.

Tornò a casa e raccontò quanto era successo alla madre.

Il giorno dopo madre e figlio andarono subito alla ricerca della mucca e solo dopo lunghe ore di ricerca la trovarono morta in un dirupo.
La madre si disperò molto, e si sentiva perduta senza quella mucca che almeno le dava il latte.
Passò del tempo…
Una bella mattina Sean stava intrecciando dell’erica per le scope quand’ecco che scorse due elfi che pascolavano una mucca.
La guardò e la riguardò e ben presto si accorse che quella era la sua mucca.
Si avvicinò le saltò in groppa e la mucca indispettita cominciò a dimenarsi e a correre giù per il prato con i due elfi attaccati alla coda.
E la mucca correva e correva e arrivò nei pressi del lago, e sempre più vicino alla riva, e sempre più vicino all’acqua… finché non si immersero nell’acqua!
Il ragazzo stava dicendo le sue ultime preghiere quando scorse nel fondo del mare un palazzo di cristallo.
Entrarono e scorsero moltissime dame e cavalieri che erano nella sala principale.
Subito gli venne incontro il re.
“Lei si è impossessato della mia mucca!” disse il ragazzo.
“No caro ragazzo questa è la mia mucca, l’ho comprata da due elfi.” rispose il re.
Il ragazzo allora raccontò tutta la storia, ed il re che era un uomo buono propose al ragazzo un borsa piene di monete d’oro in cambio della sua mucca che faceva un ottimo latte.
“Niente affatto,” continuò il ragazzo, “io sono per le cose giuste, quindi rendetemi la mucca di mia madre e io toglierò il disturbo.”

Il re sbalordito per questo rifiuto disse:

“Come puoi rifiutare un’offerta del genere, la mucca è indispensabile qui a corte.
Con il suo latte macchiamo sempre il te delle sei.”
“E a me sicuramente servirà di più, perché noi lassù siamo molto poveri.” esclamò il ragazzo.
Il re commosso da tanta onestà gli concedette la mucca e gli regalò un sacchetto pieno di monete d’oro.
Ma il ragazzo rifiutò: “Penseranno tutti che li ho rubati.
Teneteli pure!”
“Mi sento in torto nei tue confronti ragazzo per cui ti faccio una proposta:
ogni giorno verso le cinque porterai in riva al lago un secchio pieno di latte di mucca e noi lo pagheremo per quanto per noi vale.” concluse il re.
Contento e soddisfatto Sean ritornò a casa e raccontò quello che era successo alla madre che credeva che suo figlio fosse diventato pazzo.
Così il ragazzo la dovette portare in riva al lago e quando vide due folletti uscire dal lago con due pacchettini pieni di monete d’oro restò molto meravigliata.
Così finisce questa storia, Sean si guadagnò sempre onestamente da vivere e visse ancora per molti anni con la sua mamma.

Favola Irlandese.
Brano senza Autore, tratto dal Web