La forca e la matassa

La forca e la matassa

Tomo è un ridente e minuscolo paesino a ridosso della città di Feltre, nel Bellunese, ed è chiamato comunemente dagli abitanti dei paesi vicini, Ton.
Esistono numerose storielle fantastiche, tramandate oralmente, che hanno per protagonisti i suoi abitanti di un tempo, famosi per le loro iniziative inverosimili.
Una di queste leggende narra che, diversi anni fa, al centro del paese era piantato un bellissimo pino, e che tutti gli abitanti erano fieri di quest’albero.

A causa di una prolungata siccità,

la punta del pino incominciava a seccarsi e gli abitanti di Tomo non volevano perdere il simbolo del loro paesello.
Dopo un consiglio di comunità, decisero di piegare la punta dell’albero con delle corde, facendo partecipare all’impresa tutto il paese, per far toccare ed immergere la punta in una buca d’acqua, fatta scavare per questa ragione della lunghezza necessaria per rigenerare la pinacea al più presto possibile.
L’operazione ebbe successo, ma sul più bello, avendo la pianta acquistato vigore, fece elastico spaccando le corde e raddrizzandosi di colpo, scaraventando i tiratori in un rovinoso mucchio, ed intrecciando corda, braccia e gambe, tanto da non essere capaci di districarsi e venirne fuori.

Solo uno non fu coinvolto nella matassa, poiché ritardatario.

Gli fu imposto l’ordine di prendere una forca e di pungere i loro arti, per capire dove ognuno avesse le sue, e per sciogliere la matassa umana.
Alla fine si districarono tutti, tra atroci dolori causati dall’infilzamento delle numerose inforcate inferte a casaccio sul mucchio.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La volpe ed il bramino

La volpe ed il bramino

C’era una volta un bramino, un sacerdote dell’India, un po’ ingenuo e molto buono.
Il religioso si muoveva spesso per andare a celebrare cerimonie religiose in luoghi lontani ed isolati.
Un giorno decise di andare a predicare in un villaggio lontano, per raggiungerlo dovette passare attraverso una foresta.
Lungo il cammino incontrò un leone rinchiuso in una gabbia.
Il bramino provò pietà per l’animale e decise di liberarlo, nonostante sapesse che i leoni potevano mangiare gli uomini.

Il leone gli disse:

“Ti giuro che non mangerei mai il mio benefattore!”
Così il buon bramino lo liberò.
A quel punto l’animale disse:
“Come hai potuto pensare che dicessi la verità?
Ho fame e ti mangerò!”
Allora il bramino gli chiese:
“Prima di mangiarmi, sentiamo cosa ne pensa questo albero!”

L’albero rispose:

“Gli uomini sono cattivi.
Io offro loro riparo e refrigerio, e loro per tutta ricompensa mi tagliano e mi uccidono.
Per me lo puoi mangiare!”
Il bramino decise di chiedere un altro parere:
poco lontano, in una radura, c’era un asino che stava brucando… gli fecero la stessa domanda e l’asino rispose:
“Gli uomini?
Creature perfide!
Ci sfruttano tutta la vita, e quando siamo vecchi ci abbandonano.
Mangialo pure!”
In quell’ istante, videro che stava arrivando una volpe:
“Chiediamo anche a lei, disse il bramino, e se anche lei dirà di mangiarmi, potrai mangiarmi!”

La volpe guardò i due e disse:

“Voi mi state prendendo in giro:
ma come faceva un leone così ciccione a stare in una gabbia così piccola?”
Il leone, un po’ alterato, rispose che invece era possibile, e la volpe continuò:
“Sì, e io vi credo!
Figuriamoci un po’… secondo me, mi state prendendo in giro!”
Arrabbiato, il leone entrò nella gabbia e immediatamente la volpe chiuse la porta di ferro e l’assicurò con la sbarra; poi si rivolse al bramino e disse:
“Nella vita non basta essere buoni e bravi, ci vuole sempre un po’ d’astuzia!”
Quel giorno il bramino non andò al villaggio, ma ritornò a casa a meditare su quello che aveva imparato dall’astuta volpe.

Fiaba Indiana
Brano senza Autore.

Il sentiero di rose (Ave Maria)

Il sentiero di rose (Ave Maria)

Una bambina viveva felice con il suo papà e la sua mamma.
Ma per una meschina vendetta, alcuni uomini perfidi la rapirono.
Arrivarono un giorno nei loro grandi mantelli e, sulla strada che portava alla scuola,

s’impadronirono della bambina.

Galoppando di gran carriera su cavalli neri si allontanarono ben presto dal villaggio e presero la strada della foresta.
La buia e tenebrosa foresta che ingoiava per sempre gli incauti che vi si avventuravano senza guida.
Quegli uomini dal cuore di pietra portarono la bambina nel cuore della foresta.
Volevano che si perdesse per sempre nella foresta.
La bambina piangeva terrorizzata.
E ripeteva, quasi gridava, la preghiera che la mamma le aveva insegnato:
“Ave Maria, piena di grazia…”
Giunsero dove la foresta era più intricata e impenetrabile.

Là abbandonarono la bambina.

La poverina si accucciò ai piedi di un grande albero, continuando a ripetere tra i singhiozzi:
“Ave Maria, piena di grazia…
Ave Maria, piena di grazia…”
Improvvisamente, fra le lacrime, proprio ai suoi piedi scorse una rosa.
Una rosa dai petali teneri come una carezza.
Poco più avanti, ben visibile, tra l’erba e le foglie, c’era un’altra rosa, poi un’altra, un’altra ancora… formavano un sentiero che si snodava tra gli alberi.
La bambina cominciò a camminare da una rosa all’altra, prima esitante, poi quasi di corsa.
Dopo un po’ arrivò al margine della foresta e si trovò nelle braccia della mamma e del papà.

Anche loro avevano visto il sentiero di rose ed erano partiti alla sua ricerca.

Perché anche la mamma e il papà avevano continuato a dire l’Ave Maria.
E tutte quelle Ave Maria, quelle dei genitori e quelle della figlia, erano diventate un sentiero di rose che li aveva riportati tutti insieme.

Anche le nostre Ave Maria formano il sentiero che ci aiuta a non perderci nelle foreste di questo mondo.
E che ci riporta al sicuro nelle braccia del Padre dei Cieli.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Giobbe e i bachi da seta (La leggenda di San Giobbe)

Giobbe e i bachi da seta
(
La leggenda di San Giobbe)

La festa di San Giobbe si celebra il 10 maggio, che è anche il giorno del mio compleanno.
Da piccolo, diversi anni fa, mia nonna,

proprio in questo giorno, mi raccontò questa leggenda.

Giobbe era un sant’uomo e non peccava mai.
Notando tutta questa bontà il diavolo disse al Signore:
“Meraviglia!
Se non fa mai peccato ha già tutto quel che vuole.”

Allora il Signore disse:

“Fai quello che vuoi, mettilo alla prova!”
Il diavolo per prima cosa gli tolse tutte le sue ricchezze, ma Giobbe non si lamentò.
Vedendo questo, il diavolo allora gli mandò dolorose malattie ed il sant’uomo le sopportò in silenzio.
Il diavolo, non contento, aggravò le malattie a Giobbe e lo riempì di piaghe puzzolenti pieni di vermi.
La moglie lo portò perfino sopra un letamaio e tutti lo deridevano, ma nessun lamento uscì mai dalla sua bocca, al contrario, solo preghiere.
Trascorsero diversi giorni e sul letamaio, nel frattempo, era cresciuto un verde albero che faceva ombra a Giobbe.

Allora il Signore, vista la fedeltà di Giobbe, disse al diavolo:

“Visto che Giobbe è stato paziente, d’ora in poi non gli farai nessun male ed avrà la mia protezione!”
Il Signore diede al Santo il doppio delle ricchezze che possedeva e pose fine alle sue tribolazioni.
Trasformò l’albero del letamaio in gelso ed i vermi in bachi da seta.
Giobbe poté ritornare dalla sua famiglia, divenne vecchio, contento e ricco con la seta dei suoi bachi, poiché con il loro filo venivano realizzati i paramenti sacri dei sacerdoti ed i vestiti dei re.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’albero prodigioso

L’albero prodigioso

In un paese lontano si trovava un albero prodigioso.
Nessuno conosceva la sua età.
Alcuni dicevano che era più vecchio della terra.
Donne e uomini venivano a supplicarlo.
Anche i lupi, nelle notti senza luna, ululavano verso di lui.

Ma nessuno osava mangiare i suoi frutti.

Eppure erano frutti magnifici, enormi, innumerevoli, che pendevano dalle due ramificazioni dell’albero.
Metà di questi frutti erano velenosi.
Nessuno sapeva quale delle due metà.
Dei due grandi rami, uno portava la vita, l’altro la morte.
Venne una grande carestia e la gente del paese soffriva la fame.
Solo l’albero rimaneva imperturbabile, carico di frutti splendidi.

Gli abitanti dei dintorni si avvicinavano indecisi e timorosi.

Erano affamati e soffrivano, ma non volevano morire avvelenati.
Ma, un giorno, un uomo che stava per morire si fermò sotto il ramo di destra, raccolse un frutto e lo mangiò senza esitare.
Rimase in piedi, tranquillo, con un respiro che si faceva sempre più gioioso.
Tutti di colpo si accalcarono verso il ramo di destra e cominciarono a mangiare quei frutti deliziosi e salutari.
Alla sera, gli abitanti dei posto si riunirono in consiglio.
Il ramo di sinistra era non solo inutile, ma anche pericoloso.

Decisero di reciderlo con decisione, dal tronco.

Il giorno dopo, tutti si svegliarono presto e si affrettarono a cercare il loro cibo.
Tutti i frutti del ramo di destra erano caduti in terra e imputridivano nella polvere.
Gli uccelli che abitavano tra le foglie erano scomparsi.
L’albero era morto durante la notte.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Crescendo impari

Crescendo impari

Crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose.
Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi!
La felicità non è quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente!
Non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari!
La felicità non è quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.

Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose…

… ed impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentirti una felicità lieve.
Impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi,
Impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

Ed impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate,

di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, ed impari che il tempo si dilata e che quei cinque minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore!
Ed impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.
Impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.
Impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

Ed impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità.

Impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami!
Impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.
Ed impari che nonostante le tue difese, nonostante il tuo volere o il tuo destino, in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande Jonathan Livingston.
Ed impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

Brano tratto dal libro “Il gabbiano Jonathan Livingston.” di Richard Bach

L’alberello ed il palo di frassino

L’alberello ed il palo di frassino

Al fragile tronco di alberello, il giardiniere legò un robusto palo di frassino che gli facesse da tutore e lo aiutasse a crescere diritto.
Quando il vento invitava alla danza, l’albero adolescente agitava la chioma sempre più folta e incominciava a dondolare, e gridava:
“Lasciami, per favore, perché mi tieni così?
Guarda tutti gli altri si lasciano cullare dal vento.

Perché solo io devo stare così rigido?”

“Ti spezzeresti!” ripeteva inflessibile il palo di frassino, “Oppure prenderesti delle brutte posizioni, diventeresti brutto e tutto storto!”
“Sei solo vecchio e invidioso, lasciami, ti dico!” diceva il giovane albero mentre si divincolava con tutta la sua forza.
Ma il vecchio palo resisteva tenacemente, più saldo e ostinato che mai.
Una sera d’inverno, annunciato da tuoni e lampi, accompagnato da violente sferzate di grandine, un uragano si abbatte sulla zona.
Ghermito dai furiosi tentacoli del vento, l’alberello scricchiolava in tutte le giunture, con la chioma che a tratti sfiorava la terra.
Le folate più forti quasi strappavano le radici dal terreno.

“È finita!” pensava l’alberello.

“Resisti figliolo!” gridò invece il vecchio palo di frassino, che raccolse le forze ancora presenti nelle annose fibre e sfidò la bufera.
Una lotta dura, lunga, estenuante.
Ma alla fine l’alberello era salvo.
Il vecchio palo di frassino invece era morto, spezzato in due miserabili tronconi.
L’albero giovane capì e cominciò a piangere.

“Non mi lasciare!

Ho ancora bisogno di te!”
Ma non ebbe risposta.
Un pezzo di palo di frassino era rimasto ancora stretto al giovane tronco dal laccio.
Come in un ultimo abbraccio.
Oggi, i passanti guardano meravigliati quel robusto alberello che, nei giorni di vento, sembra quasi che stia cullando teneramente un vecchio pezzo di legno secco.

Brano senza Autore.

Gli abeti

Gli abeti

Una pigna gonfia e matura si staccò da un ramo di abete e rotolò giù per il costone della montagna, rimbalzò su una roccia sporgente e finì con un tonfo in un avvallamento umido e ben esposto.
Una manciata di semi venne sbalzata fuori dal suo comodo alloggio e si sparse sul terreno.
“Urrà!” gridarono i semi all’unisono, “È arrivato il nostro momento!”
Cominciarono con entusiasmo ad annidarsi nel terreno, ma scoprirono ben presto che l’essere in tanti provocava qualche difficoltà, ed esclamavano:
“Fatti un po’ più in là, per favore!”
“Attento!
Mi hai messo il germoglio in un occhio!”

E così via.

Comunque, urtandosi e sgomitando, tutti i semi si trovarono un posticino per germogliare.
Tutti meno uno.
Un seme bello e robusto dichiarò chiaramente le sue intenzioni:
“Mi sembrate un branco di inetti!
Pigiati come siete, vi rubate il terreno l’un con l’altro e crescerete rachitici e stentati.
Non voglio avere niente a che fare con voi.
Da solo potrò diventare un albero grande, nobile e imponente.

Da solo!”

Con l’aiuto della pioggia e del vento, il seme riuscì ad allontanarsi dai suoi fratelli e piantò le radici, solitario, sul crinale della montagna.
Dopo qualche stagione, grazie alla neve, alla pioggia e al sole divenne un magnifico giovane abete che dominava la valletta in cui i suoi fratelli erano invece diventati un bel bosco che offriva ombra e fresco riposo ai viandanti e agli animali della montagna.
Anche se i problemi non mancavano:
“Stai fermo con quei rami!
Mi fai cadere gli aghi!”

“Mi rubi il sole!

Fatti più in là!”
“La smetti di scompigliarmi la chioma?”
L’abete solitario li guardava ironico e superbo.
Lui aveva tutto il sole e lo spazio che desiderava.
Ma una notte di fine agosto, le stelle e la luna sparirono sotto una cavalcata di nuvoloni minacciosi.
Sibilando e turbinando il vento scaricò una serie di raffiche sempre più violente, finché devastante sulla montagna si abbatté la bufera.
Gli abeti nel bosco si strinsero l’un l’altro, tremando, ma proteggendosi e sostenendosi a vicenda.
Quando la tempesta si placò, gli abeti erano estenuati per la lunga lotta, ma erano salvi.
Del superbo abete solitario non restava che un mozzicone scheggiato e malinconico sul crinale della montagna.

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’albero e la natura

L’albero e la natura

C’era una volta un albero che viveva solitario in un piccolo frammento di terra in mezzo ad uno specchio d’acqua.
Era bellissimo, ma su quel pezzettino di terra c’era spazio solamente per lui e lui, per sopravvivere, doveva spingere le sue radici sempre più giù, fin quasi al cuore della Madre Terra.
Gli altri alberi un po’ ne ammiravano ed invidiavano la bellezza, ma soprattutto lo compativano, e nella compassione c’era quasi un piccolissimo, impalpabile velo di disprezzo.
“Guarda quel poveraccio,” dicevano continuamente, “sempre solo, vive, invecchia e muore senza nessuno accanto, senza nessuno da amare e che lo ami.
A che gli serve tanto spreco di bellezza?

A che gli serve vivere così?

Che se ne fa di un cuore se non ha un altro albero per cui battere?
Sarà un cuore indurito e atrofizzato!”
L’albero sentiva giorno dopo giorno queste parole portate dal vento e un po’ lo rattristavano.
I suoi rami non avevano accanto altri rami da carezzare e stringere, ed il destino che lo aveva fatto nascere su un coriandolo di terra, lo aveva condannato ad una vita solitaria.
Lacrime di resina e linfa sgorgavano copiose dal suo cuore.
Madre Terra udì il vibrare del pianto dell’albero, scuoterne le radici e, con voce dolcissima, parlò direttamente al cuore di quella rigogliosa pianta:

“Tu non sei solo!

Ed il tuo cuore non è arido e solitario.
Io lo sento pulsare e battere più forte per ogni nido che i tuoi amici uccellini costruiscono fra i tuoi rami e vedo, alla schiusa delle uova, i tuoi rami amorevolmente e premurosamente protendersi a cullare e proteggere i piccoli appena nati.
Vedo con quanto amore offri i tuoi rami fronzuti agli scoiattoli ed agli altri animaletti che vivono con te.
Tu li ami tutti e da tutti sei amato.
Vedi, albero mio, non esiste soltanto un tipo di amore!
Amore è affetto, c’è tanto amore nell’amicizia e nella solidarietà che dà senza mai chiedere, amore è dare e darsi, e tu ti dai con generosità a tutti quelli che ti sono accanto.
Il tuo cuore è vivo e grande e tu non sei solo e mai tu lo sarai.”
Non soltanto l’albero udì la voce della Madre Terra.

La sentì l’acqua che aggiunse:

“Ti ho visto nascere e crescere e diventare così bello e grande, abbraccio la tua immagine in ogni istante e tu, con la tua ombra, consenti nella calura a tutte le creature che in me vivono di trovar refrigerio.
E tu, lo vedo e sento, tendi con dolcezza i tuoi bei rami a carezzarmi.
Non te l’ho detto mai quanto ti voglio bene?”
A quelle parole si levò un canto.
Tutti gli uccellini intonarono la più dolce canzone d’amore che mai avevano cantato.
Lacrime di felicità carezzarono il cuore di quell’albero, che si unì al loro canto con voce di foglie arpeggiate dalle dita gentili di una brezza amica.

Brano senza Autore.

La leggenda dell’albero di Natale

La leggenda dell’albero di Natale

In un remoto villaggio di campagna, la Vigilia di Natale, un ragazzino si recò nel bosco alla ricerca di un ceppo di quercia da bruciare nel camino, come voleva la tradizione, nella notte Santa.
Si attardò più del previsto e, sopraggiunta l’oscurità, non seppe ritrovare la strada per tornare a casa.

Per giunta incominciò a cadere una fitta neve.

Il ragazzo si sentì assalire dall’angoscia e pensò a come, nei mesi precedenti, aveva atteso quel Natale, che forse non avrebbe potuto festeggiare.
Nel bosco, ormai spoglio di foglie, vide un albero ancora verdeggiante e si riparò dalla neve sotto di esso:

era un abete.

Sopraggiunta una grande stanchezza, il piccolo si addormentò raggomitolandosi ai piedi del tronco; l’albero, intenerito, abbassò i suoi rami fino a far loro toccare il suolo in modo da formare come una capanna che proteggesse dalla neve e dal freddo il bambino.
La mattina si svegliò, sentì in lontananza le voci degli abitanti del villaggio che si erano messi alla sua ricerca e, uscito dal suo ricovero, poté con grande gioia riabbracciare i suoi compaesani.
Solo allora tutti si accorsero del meraviglioso spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi:

la neve caduta nella notte,

posandosi sui rami frondosi, che la pianta aveva piegato fino a terra, aveva formato dei festoni, delle decorazioni e dei cristalli che, alla luce del sole che stava sorgendo, sembravano luci sfavillanti, di uno splendore incomparabile.
In ricordo di quel fatto, l’abete venne adottato come simbolo del Natale e, da allora, in tutte le case, viene addobbato ed illuminato, quasi per riprodurre lo spettacolo che gli abitanti del piccolo villaggio videro in quel lontano giorno.


Leggenda popolare
Brano senza Autore, tratto dal Web