Beniamino

Beniamino

Beniamino era un bambino delizioso.
Quando sgambettava nella culla, in mezzo alle lenzuoline e le coperte di raso celesti, sembrava proprio un angioletto.
La mamma, il papà, le nonne e le zie non sì stancavano di vezzeggiarlo e di ripetergli tante parole dolci e carine.
La nonna materna diceva:
“Guardate che piccole graziose orecchie che ha, e come ci sentono bene!
Certamente diventerà un grande musicista!”
La nonna paterna, per non essere da meno, incalzava:
“Osservate piuttosto la sua adorabile boccuccia e come dice bene ‘nghée, ‘nghée.
Sicuramente diventerà un grande poeta!”

La zia Clotilde cinguettava:

“Macché, macché!
Sono i piedini che devono essere ammirati:
sarà un grandissimo ballerino, ve lo dico io che me ne intendo!”
A sentire tutti questi complimenti, i genitori di Beniamino esprimevano tanta soddisfazione, con il cuore gonfio d’orgoglio paterno e materno.
Beniamino cresceva un po’ capriccioso, ma papà, mamma, nonne e zie si consolavano facilmente dicendo:
“Sono tutti così, da piccoli!”
Così arrivò, anche per Beniamino, il momento di varcare, con aria baldanzosa e lo zainetto nuovo, il portone della scuola elementare.
I primi tempi furono felici.
Beniamino si comportava come tutti gli altri:
non era più gentile né più maleducato dei suoi compagni.
Ma con il passare del tempo, la situazione peggiorò.
Beniamino cominciò a trasformarsi.
Piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse, divenne cattivo e prepotente.
Si divertiva a far cadere dalla giostra i bambini più piccoli; giocando a calcio nel cortile scalciava più gli avversari che il pallone; trovava sempre qualcuno con cui litigare.

Faceva la “spia” per farsi bello con la maestra.

“Dov’è finito il mio bell’angioletto?” si disperava la mamma di Beniamino, davanti alle note che i maestri gli scrivevano sul diario.
“Uffa!” sbuffava Beniamino, “Ce l’hanno tutti con me!”
Prometteva di migliorare, ma il giorno dopo se n’era già dimenticato.
Alla Scuola Media le cose non migliorarono.
Beniamino diventò un attaccabrighe impertinente.
Imparò a tempo di record tutte le peggiori parolacce e non si faceva certo pregare a ripeterle, specialmente sull’autobus, tanto per sembrare “più grande”.
Le mamme del quartiere minacciavano i figli:
“Guai a te se ti vedo con Beniamino:
è un ragazzaccio!”
Se qualcuno raccontava barzellette sporche, Beniamino era il primo ad ascoltare.
Se c’era da prendere in giro o canzonare qualcuno, Beniamino era del numero.

Aveva pochi amici, ma tutti della sua risma.

La loro impresa preferita era riuscire a rubacchiare qualcosa ai supermercati e poi scappare.
Anche la zia Clotilde, che pure gli voleva bene, si beccò una rispostaccia così volgare, che per il dispiacere fu costretta a mettersi a letto.
“Ma se fanno tutti così!” continuava a ripetere Beniamino, quando qualcuno lo rimproverava.
La cosa strana cominciò quando compì i quattordici anni.
E questa volta Beniamino cominciò a preoccuparsi per davvero.
Durante l’adolescenza il corpo cambia, ma lo specchio rivelava a Beniamino che in lui avvenivano dei cambiamenti inconsueti.
Le sue orecchie si allungavano sempre di più, appuntite verso l’alto, e prendevano una strana grigia pelosità.
I suoi piedi gli prudevano spesso e soprattutto non sopportavano più né calze né scarpe.
Prendevano anch’essi uno strano colorito grigiastro, finché un giorno si trasformarono in due zoccoli d’asino
Beniamino li guardò inorridito.
Ma invece di dire:
“Che cosa mi succede?” si mise a ragliare come un asino, “Ihah! Ihah!”
A quel roboante raglio, tutti i suoi parenti accorsero.
Il povero Beniamino, con le lacrime agli occhi, non sapeva spiegarsi.
“È nell’età del cambiamento di voce.” disse zia Clotilde, ma non ci credeva neppure lei.

Una cosa era certa.

Con quelle orecchie e quegli zoccoli da asino, per non parlare della voce, Beniamino non poteva tornare a scuola.
“Dobbiamo cercare un medico, il più grande che c’è.
Ti saprà certamente guarire!” disse il papà.
Cercarono sulle Pagine Gialle, ma non trovarono nessun medico specializzato nella cura di ragazzi che diventano asini.
Così un mattino freddo e nebbioso, Beniamino lasciò i suoi genitori e la sua casa.
Andava per il mondo a cercare qualcuno che lo guarisse da quella strana malattia che fa diventare animali gli uomini.
Beniamino attraversò il mondo da nord a sud e poi da est a ovest.
Interrogò dottori, stregoni, sciamani, guaritori di tutti i tipi.
Tutti erano molto gentili con lui, ma poi gli dicevano che le sue orecchie pelose erano molto utili contro il freddo, che i suoi zoccoli gli facevano risparmiare le scarpe e che la sua voce era comoda quando la nebbia era fitta fitta.
Passarono sette anni.
Beniamino ora conosceva le lacrime, apprezzava la gentilezza, sapeva quanto ferivano i rifiuti e le villanie.
Senza accorgersene, era diventato un altro.
Ma il suo problema rimaneva.
Stava per rassegnarsi al suo triste destino, quando giunse alla grande villa dei marchesi Bellaspina.
Tutti quelli che vedeva però erano in lacrime.
Piangevano il marchese e la marchesa, singhiozzavano le cameriere, gemeva il maggiordomo, uggiolavano i cani, si lamentavano i gatti.
Uno spettacolo da strappare il cuore.
In un profluvio di lacrimoni, la marchesa spiegò a Beniamino il motivo di tanto dolore:

“Ahinoi!

La nostra bella Rosalia, nostra figlia, è stata rapita.
L’ha portata via il perfido Battistone e l’ha nascosta sulla Montagna del Diavolo, dove nessuno osa salire!”
Beniamino si commosse:
“Non piangete più.
Andrò sulla montagna e la troverò!”
La Montagna del Diavolo era aspra, ma Beniamino era più che mai deciso ad affrontare il bandito.
Tendeva le sue lunghe orecchie d’asino per sentire anche il minimo rumore.
Passando davanti all’imboccatura di una grotta nera e paurosa, percepì un flebile lamento.
Coraggiosamente s’inoltrò nel nero imbuto dove svolazzavano i pipistrelli.
Ora sapeva dove si trovava Rosalia.
Il bandito aveva disseminato sul terreno della grotta taglientissimi pezzi di vetro e chiodi affilati, ma, con i suoi zoccoli d’asino, Beniamino poteva correre, mentre con la sua voce roboante gridava continuamente:
“Ihah! Ihah!”
Gridava con tutte le sue forze, sperando che Rosalia sentisse e gli rispondesse per guidarlo nei mille cunicoli della grande grotta nera.
Tendeva le sue orecchie a destra e a sinistra, finché sentì chiaramente un singhiozzo.
Sfregò un fiammifero su una pietra e vide Rosalia legata a un palo.
Com’era bella!
Beniamino la slegò, poi fece un inchino e mormorò:

“Buongiorno, madamigella, io mi chiamo Beniamino!”

In quel momento si accorse che la sua voce era una bella voce baritonale, perfettamente umana.
Aveva talmente gridato che la sua voce d’asino si era rotta.
Aveva talmente ascoltato che le sue orecchie d’asino erano cadute come foglie morte.
I suoi zoccoli si erano talmente consumati sui pezzi di vetro e sui chiodi che erano spariti.
Al loro posto c’erano due bei piedoni umani.
Al colmo della felicità, ma anche per paura di un improvviso ritorno di Battistone, Beniamino prese in braccio la bella Rosalia e fuggì più veloce che poteva, correndo con i nuovi piedi sul sentiero spianato dai suoi zoccoli.
Quando arrivò a Bellaspina tutti lo abbracciarono e baciarono.
Anche Rosalia naturalmente che, per non essere da meno, lo sposò.
Ebbero tre figli.
Il primo fu ballerino, il secondo musicista e il terzo poeta.
Perché Beniamino e Rosalia vegliarono attentamente che a nessuno di loro crescessero orecchie, zoccoli o voce d’asino.

Brano di Bruno Ferrero

Una colazione da principe

Una colazione da principe

Diversi anni fa, quando non era all’ordine del giorno spostarsi e conseguentemente non era semplice incontrarsi, conobbi mia moglie.
Lei era di Padova mentre io abitavo in provincia di Treviso.
Ci incontrammo, casualmente, poiché entrambi frequentavamo l’associazione CVS (Centro Volontari Sofferenza) che, per statuto, promuove e promuoveva la spiritualità dei malati.
Decidemmo di fare il viaggio di nozze, nel lontano 1984, in una casa per esercizi spirituali nel comune di Re, nella Val Vigezzo, ai confini del Piemonte ed a ridosso della Svizzera, per servire come volontari i disabili.

Io pulivo le camere al mattino e mia moglie serviva a tavola duranti i pasti.

Proprio in quei giorni, venne a mancare Monsignor Luigi Novarese, carismatico fondatore dell’associazione e, i sacerdoti preposti, volarono a Roma per il funerale, raccomandandoci di essere gioiosi, poiché il cielo aveva accolto un nuovo angelo.
Anni dopo, infatti, fu beatificato.
Seguendo le istruzioni, passammo da un silenzio solenne e meditativo ad un approccio diverso, creando più interazioni tra i vari partecipanti.
Trovammo tutti beneficio, ricevendo più di quello che avevamo donato.

Qualche giorno dopo rientrammo a casa, stanchi ma felici.

Essendo arrivati a tarda ora con l’autobus, non riuscimmo ad andare a fare spesa.
La mattina dopo, non appena ci svegliammo, proposi a mia moglie di andare a fare colazione al bar, ma lei mi disse:
“Non preoccuparti, mio principe, ci penso io.
Ad una sola condizione:
ti dovrai alzare solamente quando ti chiamerò io!”
Rimasi, quindi, in camera.

Udivo, però, uno strano ed insistente sbattere.

Il suono proveniva dalla cucina ma non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Alla fine mia moglie mi chiamò per la colazione e con mia sorpresa trovai le fette biscottate imburrate.
Sopra ogni fetta biscottata aveva disegnato un cuore con lo zucchero di canna.
Rimasi sì sorpreso, ma anche perplesso, poiché la sera prima non avevamo burro in casa, e le chiesi come avesse fatto.
Mia moglie mi spiegò che il continuo sbattere che avevo udito, era stato provocato dal fiasco usato per fare il burro in casa.
Fece il burro con la panna ed il latte presenti in casa, con la tecnica dello sbattere, che sua nonna le aveva insegnato.
Mi sentii, in quella circostanza, veramente un principe fortunato e mai colazione fu così buona e gradita.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La sosta in una tavola calda

La sosta in una tavola calda

Di ritorno da un viaggio, un uomo raccontò di un’esperienza che gli era parsa una parabola sulla vita.
Durante una breve sosta egli entrò in una tavola calda dall’aspetto pulito e ordinato.
C’erano minestre deliziose, spezzatini caldi e ogni genere di piatti invitanti.

Ordinò una minestra.

“Lei viaggia con quell’autobus?” gli domandò la proprietaria che era al banco.
L’uomo annuì.
“Allora niente minestra!” esclamò la proprietaria.
“Uno spezzatino ben caldo con riso bollito?” domandò l’uomo perplesso.

“No, se è di quell’autobus.

Posso darle un sandwich.
Ci ho messo tutta la mattina a preparare quei piatti e lei ha soltanto dieci minuti per mangiarli.
Non le permetterò di mangiare cibo che non ha il tempo di gustare!” spiegò la proprietaria.

Brano senza Autore

Il predicatore ed il quarto di dollaro

Il predicatore ed il quarto di dollaro

Molti anni fa un predicatore si trasferì a Houston, in Texas.
Alcune settimane dopo essere arrivato, ebbe l’occasione per andare con l’autobus dalla sua casa al centro.
Quando si sedette, scoprì che il conducente, nel fargli il biglietto, gli aveva dato accidentalmente un quarto di dollaro in più.
Allora lui cominciò a pensare cosa fare, e così pensò di darlo indietro.
Sarebbe stato sbagliato tenerlo.

Poi però pensò:

“Ma dai!
È solo un quarto di dollaro.
Chi si potrebbe preoccupare per questa piccola cifra?
Di certo la società degli autobus già ha applicato una tariffa troppo alta; evidentemente stanno al riparo da ogni fallimento.

Di certo non fallirà per questo!

Accettalo come un regalo da Dio e stai in pace!”
Quando arrivò il momento di scendere, si fermò alla porta e diede il quarto di dollaro al conducente, dicendo:
“Guardi!
Lei mi ha dato dei soldi in più!”

Il conducente con un sorriso rispose:

“Lei non è il nuovo predicatore in città?
Io stavo già pensando ultimamente di andare a frequentare qualche altra chiesa, ma volevo ancora vedere quello che Lei avrebbe fatto se le avessi dato il resto sbagliato!”
Quando quel conducente cominciò ad allontanarsi, il predicatore trovò un posticino tranquillo per pregare e disse:
“O Dio, non ho venduto Tuo Figlio per un quarto di dollaro!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Parla solo di ciò che ami

Parla solo di ciò che ami

Quando parli dei tuoi problemi economici, di relazione, di salute, o persino degli utili in ribasso della tua impresa, non stai parlando di quello che ami.
Quando parli di un tragico fatto di cronaca, oppure di una persona o di una situazione che ti ha irritato o deluso, non stai parlando di quello che ami.
Lamentarti della giornataccia che hai affrontato, di un ritardo a un appuntamento, di un ingorgo in cui sei rimasto intrappolato, dell’autobus che hai perso significa parlare di ciò che non ami.

Ogni giorno accadono molte piccole cose:

ognuna di esse renderà più difficoltosa la tua vita se ti fai trascinare in discorsi che riguardano ciò che non ami.
Tieni a mente le buone notizie della tua giornata.
Parla dell’appuntamento andato a buon fine.

Del piacere di essere puntuale, di come sia bello godere di buona salute.

Parla dei guadagni che vuoi realizzare, delle situazioni e degli incontri proficui di oggi.
Devi parlare di ciò che ami se vuoi attrarre ciò che ami.
Ripetendo a pappagallo le cose negative che ti accadono e lagnandoti di quelle che non ami, ti metti letteralmente in gabbia.
Tutte le volte in cui parli di ciò che non ami, aggiungi un’altra sbarra alla gabbia in cui ti rinchiudi, allontanandoti da tutto ciò che c’è di buono intorno a te.

Le persone con una vita meravigliosa, al contrario, parlano più spesso di ciò che amano.

Così facendo, godono di un accesso illimitato al meglio della vita, e sono libere come gli uccelli che volano nel cielo.
Per vivere un’esistenza meravigliosa, spezza le sbarre della gabbia in cui sei imprigionato:
dai amore, parla solo di ciò che ami, e l’amore ti libererà!

Brano di Rhonda Byrne

Bella giornata, non è vero?

Bella giornata, non è vero?

Il giorno era cominciato male e stava finendo peggio.
Come al solito, l’autobus era molto affollato.
Mentre venivo sballottata in tutte le direzioni, la tristezza cresceva.
Poi sentii una voce profonda provenire dalla parte anteriore dell’autobus:

“Bella giornata, non è vero?”

A causa della folla non riuscivo a vedere l’uomo, ma lo sentivo descrivere il paesaggio estivo, richiamando l’attenzione sulle cose che si avvicinavano:
la chiesa, il parco, il cimitero, la caserma dei pompieri.
Di lì a poco tutti i passeggeri guardavano fuori dal finestrino.
L’entusiasmo era cosi contagioso che mi misi a sorridere per la prima volta nella giornata.

Arrivammo alla mia fermata.

Dirigendomi con difficoltà verso la porta, diedi un’occhiata alla nostra guida: una figura grassottella con la barba nera, gli occhiali da sole, con in mano un bastone bianco.
Era cieco!
Scesi dall’autobus e, all’improvviso, tutta la mia tensione era svanita.

Dio nella sua saggezza aveva mandato un cieco che mi aiutasse a vedere:

a vedere che, sebbene a volte le cose vadano male, quando tutto sembra scuro e triste, il mondo continua ad essere bello.
Canticchiando un motivetto salii le scale del mio appartamento.
Non vedevo l’ora di salutare mio marito con le parole:
“Bella giornata, non è vero?”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il nastro bianco

Il nastro bianco

Un giovane era seduto da solo; teneva lo sguardo fisso fuori del finestrino.
Aveva poco più di vent’anni ed era di bell’aspetto, con un viso dai lineamenti delicati.
Una donna si sedette accanto a lui.
Dopo avere scambiato qualche chiacchiera a proposito del tempo, caldo e primaverile, il giovane disse, inaspettatamente:
“Sono stato in prigione per due anni.
Sono uscito questa mattina e sto tornando a casa.”
Le parole gli uscivano come un fiume in piena mentre le raccontava di come fosse cresciuto in una famiglia povera ma onesta e di come la sua attività criminale avesse procurato ai suoi cari vergogna e dolore.

In quei due anni non aveva più avuto notizie di loro.

Sapeva che i genitori erano troppo poveri per affrontare il viaggio fino al carcere dov’era detenuto e che si sentivano troppo ignoranti per scrivergli.
Da parte sua, aveva smesso di spedire lettere perché non riceveva risposta.
Tre settimane prima di essere rimesso in libertà, aveva fatto un ultimo, disperato tentativo di mettersi in contatto con il padre e la madre.
Aveva chiesto scusa per averli delusi, implorandone il perdono.
Dopo essere stato rilasciato, era salito su quell’autobus che lo avrebbe riportato nella sua città e che passava proprio davanti al giardino della casa dove era cresciuto e dove i suoi genitori continuavano ad abitare.

Nella sua lettera aveva scritto che avrebbe compreso le loro ragioni.

Per rendere le cose più semplici, aveva chiesto loro di dargli un segnale che potesse essere visto dall’autobus.
Se lo avevano perdonato e lo volevano accogliere di nuovo in casa, avrebbero legato un nastro bianco al vecchio melo in giardino.
Se il segnale non ci fosse stato, lui sarebbe rimasto sull’autobus e avrebbe lasciato la città, uscendo per sempre dalla loro vita.
Mentre l’automezzo si avvicinava alla sua via, il giovane diventava sempre più nervoso, al punto di aver paura a guardare fuori del finestrino, perché era sicuro che non ci sarebbe stato nessun fiocco.

Dopo aver ascoltato la sua storia, la donna si limitò a chiedergli:

“Cambia posto con me.
Guarderò io fuori del finestrino.”
L’autobus procedette ancora per qualche isolato e a un certo punto la donna vide l’albero.
Toccò con gentilezza la spalla del giovane e, trattenendo le lacrime, mormorò:
“Guarda! Guarda!
Hanno coperto tutto il giardino di nastri bianchi.”

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero

Ogni persona ha una propria storia. Non giudicatela sino a quando non la conoscete.


Ogni persona ha una propria storia.
Non giudicatela sino a quando non la conoscete.

Un ragazzo di 24 anni guardando attraverso la finestra dell’autobus gridò:
“Papà guarda, gli alberi ci vengono incontro!”

Il padre alzò lo sguardo verso di lui e sorrise.

Una giovane coppia seduta vicino rise per il comportamento infantile del ragazzo.
Il ragazzo tornò ad esclamare:

“Guarda papà, le nuvole ci seguono!”

La coppia non poté resistere e disse al padre del ragazzo:
“Perché non porti tuo figlio da un buon medico?”

L’uomo sorrise e rispose:

“Ci siamo appena stati, siamo usciti dall’ospedale proprio pochi minuti fa.
Mio figlio era cieco dalla nascita e oggi per la prima volta può vedere.”

Brano senza Autore, tratto dal Web