La donna nella caverna

La donna nella caverna

Racconta la leggenda che una donna povera con un bimbo sulle braccia, passando davanti a una caverna udì una voce misteriosa che da dentro le diceva:
“Entra per otto minuti, prendi quanto desideri, ma non dimenticare la cosa più importante.

Ricorda ancora:

quando sarai uscita, la porta si chiuderà per sempre.
Perciò, approfitta della possibilità, ma non dimenticare la cosa più importante!”
La donna entrò nella caverna e vi trovò molte ricchezze.
Affascinata dall’oro e dai gioielli, mise il bimbo per terra e cominciò a raccogliere ansiosamente quanto poteva nel suo grembiule.

La voce misteriosa parlò di nuovo:

“Hai solo otto minuti!”
Passati gli otto minuti, la donna carica d’oro e pietre preziose corse fuori dalla caverna, e la porta si chiuse.
Quando fu fuori si ricordò che il bambino era rimasto dentro la caverna.
Ma la porta era ormai chiusa per sempre.
La ricchezza durò poco e la disperazione per sempre.

Lo stesso avviene spesso con noi.
Abbiamo circa ottant’anni di vita in questo mondo, e una voce sempre ci avverte:
“Non dimenticarti la cosa più importante!”
E la cosa più importante sono i valori spirituali:
la salvezza della nostra anima, la preghiera, la vigilanza, la famiglia, gli amici, la vita, Dio!
Così sprechiamo il nostro tempo quaggiù, e lasciamo da parte l’essenziale:

“I tesori dell’anima!”

E quando la porta di questa vita si chiuderà a niente serviranno i rimpianti.
Viviamo in un modo disperato perché abbiamo “dimenticato la cosa più importante!”

Brano senza Autore

È tempo, vieni!

È tempo, vieni!

Un’anziana signora stava stirando!
Arrivò l’Angelo della morte e le disse:
“È tempo, vieni!”

La donna rispose:

“Va bene, ma lasciami finire di stirare tutta la biancheria!
Chi lo fa altrimenti?
E poi devo cucinare; mia figlia lavora fino a tardi:
ha bisogno di qualcosa da mangiare quando torna a casa sfinita…
Lo capisci questo?”
L’Angelo se ne andò…
Dopo un po’ di tempo, tornò!
Chiese alla donna se fosse pronta a lasciare la casa…
“È tempo, vieni!” le disse.

La donna rispose:

“Questa è la mia ora per il turno alla casa di riposo per anziani!
Là mi aspettano almeno dieci persone dimenticate dalla loro famiglia…
Posso piantarle in asso, così?”
L’Angelo se ne andò!
Dopo un po’ di tempo tornò e disse:
“È l’ora, andiamo!”
La donna rispose:
“Sì, sì!
Hai ragione!
È giusto!
Ma chi va a prendere il mio nipotino alla Scuola Materna se io non ci sono più?”
L’Angelo sospirò:
“D’accordo, aspetterò finché il tuo nipotino potrà andare a Scuola da solo!”
Alcuni anni dopo, la donna era stanca e piena di acciacchi e, seduta sulla sua poltrona, pensava:
“Adesso potrebbe arrivare l’Angelo…
Dopo tutta la fatica, la Casa di Dio deve essere meravigliosa!”
L’Angelo arrivò…

La donna chiese:

“Mi porti, adesso, nelle braccia di Dio?”
L’Angelo rispose:
“Dove credi di essere stata in tutto questo tempo?”

Brano senza Autore

100 punti per il paradiso

100 (Cento) punti per il paradiso

Una buona cristiana si presentò alla porta del Cielo.
Era tutta intimorita.
San Pietro la ricevette cordialmente.
Cercò di rassicurarla, ma le disse serio:
“Per entrare in Paradiso, ci vogliono cento punti!”

La brava donna cominciò a elencare:

“Sono stata fedele a mio marito per tutta la vita.
Ho educato cristianamente i miei figli; non ci sono riuscita tanto, ma ho fatto tutto quel che ho potuto.
Sono stata catechista per ventidue anni.
Ho fatto volontariato per le Missioni e ho dato una mano alla Caritas.
Ho cercato sempre di sopportare le persone che mi stavano accanto, soprattutto il parroco e i miei vicini di casa…”
Quando si fermò a tirare il fiato, San Pietro le disse:
“Due punti e mezzo.”
Per la donna fu un pugno nello stomaco.

Allora riprovò:

“E… Ah sì!
Ho assistito i miei vecchi genitori.
Ho perdonato a mia sorella che mi faceva la guerra per via dell’eredità … e… Ecco!
Non ho mai saltato una Messa la domenica, eccetto che per la nascita dei miei figli.
Ho anche partecipato a dei ritiri e alle conferenze quaresimali…
Ho recitato sempre le preghiere…
E il rosario nel mese di maggio…”
San Pietro le disse:
“Siamo a tre punti.”
La donna si demoralizzò.
Come poteva arrivare a cento punti?
Aveva detto l’essenziale e le riusciva difficile trovare ancora qualcosa.

Con le lacrime agli occhi e la voce tremante, disse:

“Se è così, posso contare solo sulla misericordia di Dio!”
“Cento punti!
Prego, si accomodi, la stavamo aspettando!” esclamò San Pietro…
Anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, col cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, poiché so quanto egli ami il figliol prodigo che ritorna a lui.

Brano di Santa Teresa di Lisieux

La forca e la matassa

La forca e la matassa

Tomo è un ridente e minuscolo paesino a ridosso della città di Feltre, nel Bellunese, ed è chiamato comunemente dagli abitanti dei paesi vicini, Ton.
Esistono numerose storielle fantastiche, tramandate oralmente, che hanno per protagonisti i suoi abitanti di un tempo, famosi per le loro iniziative inverosimili.
Una di queste leggende narra che, diversi anni fa, al centro del paese era piantato un bellissimo pino, e che tutti gli abitanti erano fieri di quest’albero.

A causa di una prolungata siccità,

la punta del pino incominciava a seccarsi e gli abitanti di Tomo non volevano perdere il simbolo del loro paesello.
Dopo un consiglio di comunità, decisero di piegare la punta dell’albero con delle corde, facendo partecipare all’impresa tutto il paese, per far toccare ed immergere la punta in una buca d’acqua, fatta scavare per questa ragione della lunghezza necessaria per rigenerare la pinacea al più presto possibile.
L’operazione ebbe successo, ma sul più bello, avendo la pianta acquistato vigore, fece elastico spaccando le corde e raddrizzandosi di colpo, scaraventando i tiratori in un rovinoso mucchio, ed intrecciando corda, braccia e gambe, tanto da non essere capaci di districarsi e venirne fuori.

Solo uno non fu coinvolto nella matassa, poiché ritardatario.

Gli fu imposto l’ordine di prendere una forca e di pungere i loro arti, per capire dove ognuno avesse le sue, e per sciogliere la matassa umana.
Alla fine si districarono tutti, tra atroci dolori causati dall’infilzamento delle numerose inforcate inferte a casaccio sul mucchio.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il sentiero di rose (Ave Maria)

Il sentiero di rose (Ave Maria)

Una bambina viveva felice con il suo papà e la sua mamma.
Ma per una meschina vendetta, alcuni uomini perfidi la rapirono.
Arrivarono un giorno nei loro grandi mantelli e, sulla strada che portava alla scuola,

s’impadronirono della bambina.

Galoppando di gran carriera su cavalli neri si allontanarono ben presto dal villaggio e presero la strada della foresta.
La buia e tenebrosa foresta che ingoiava per sempre gli incauti che vi si avventuravano senza guida.
Quegli uomini dal cuore di pietra portarono la bambina nel cuore della foresta.
Volevano che si perdesse per sempre nella foresta.
La bambina piangeva terrorizzata.
E ripeteva, quasi gridava, la preghiera che la mamma le aveva insegnato:
“Ave Maria, piena di grazia…”
Giunsero dove la foresta era più intricata e impenetrabile.

Là abbandonarono la bambina.

La poverina si accucciò ai piedi di un grande albero, continuando a ripetere tra i singhiozzi:
“Ave Maria, piena di grazia…
Ave Maria, piena di grazia…”
Improvvisamente, fra le lacrime, proprio ai suoi piedi scorse una rosa.
Una rosa dai petali teneri come una carezza.
Poco più avanti, ben visibile, tra l’erba e le foglie, c’era un’altra rosa, poi un’altra, un’altra ancora… formavano un sentiero che si snodava tra gli alberi.
La bambina cominciò a camminare da una rosa all’altra, prima esitante, poi quasi di corsa.
Dopo un po’ arrivò al margine della foresta e si trovò nelle braccia della mamma e del papà.

Anche loro avevano visto il sentiero di rose ed erano partiti alla sua ricerca.

Perché anche la mamma e il papà avevano continuato a dire l’Ave Maria.
E tutte quelle Ave Maria, quelle dei genitori e quelle della figlia, erano diventate un sentiero di rose che li aveva riportati tutti insieme.

Anche le nostre Ave Maria formano il sentiero che ci aiuta a non perderci nelle foreste di questo mondo.
E che ci riporta al sicuro nelle braccia del Padre dei Cieli.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il rimorso di un padre

Il rimorso di un padre

Ascolta, figlio:
“Ti dico questo mentre stai dormendo con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte.”
Mi sono introdotto nella tua camera da solo:
“Pochi minuti fa, quando mi sono seduto a leggere in biblioteca, un’ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.”
E stavo pensando a queste cose:
“Ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe.
Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.

A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto:

hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo.
Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai cominciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato:
“Ciao, papino!” e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: “Su diritto con la schiena!”
E tutto è ricominciato da capo nel tardo pomeriggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze bucate.
Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoli a casa.
Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura.
Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell’offesa subita?
Quando ho alzato gli occhi dal giornale, impaziente per l’interruzione, sei rimasto esitante sulla porta.

“Che vuoi?” ti ho aggredito brusco.

Tu non hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l’affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai.
Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale.
Be’, figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un’angoscia terribile.
Cosa mi sta succedendo?
Mi sto abituando a trovare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto?
Nient’altro per stanotte, figliolo.
Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergogna.
È una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio.
Ma domani sarò per te un vero papà.
Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti.

Continuerò a ripetermi, come una formula di rito:

“È ancora un bambino, un ragazzino!”
Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo.
E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei ancora un bambino.
Ieri eri dalla tua mamma, con la testa sulla spalla.
Ti ho sempre chiesto troppo, troppo!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’abbraccio del Signore

L’abbraccio del Signore

Nella bella cattedrale di Wùrzburg, in Germania, si trova una veneranda Croce del XIV secolo.
Il Signore ha le mani staccate dalla traversa e le tiene incrociate una sull’altra sul petto, avendo i chiodi ancora tra le dita.

Una leggenda racconta che un ladro incredulo,

vista la corona d’oro sulla testa del Re crocifisso, stese la mano per prenderla.
In quel preciso istante il Signore staccò le mani e i chiodi dalla croce, s’inchinò in avanti, abbracciò il ladro e lo accostò al suo cuore.
“Quali furono i pensieri che attraversarono la mente di quell’uomo?
Vergogna… pentimento… riconoscenza… desiderio di non staccarsi più da quell’abbraccio?”

Lo trovarono svenuto.

Da quel tempo Cristo non ha mai più riallargato le sue braccia, ma ha continuato a tenerle cosi, come sono ora, come se volesse sempre stringere al cuore l’uomo peccatore, guardandolo profondamente negli occhi, per donargli occhi capaci di vedere la sua gloria e il suo grande amore.

Brano tratto dal libro “Gesù insegnò in parabole 2° – Omelie per fanciulli ciclo C.” Editrice Domenicana Italiana.

Il vecchio mai stato giovane

Il vecchio mai stato giovane

C’era una volta un vecchio che non era mai stato giovane.
In tutta la sua vita, in realtà, non aveva mai imparato a vivere.
E non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.
Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere.
Tutto ciò che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva.
Passava le sue giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il cielo, l’immenso cristallo azzurro che, anche per lui, il Signore ogni giorno puliva con la soffice bambagia delle nuvole.

Qualche viandante lo interrogava.

Era così carico d’anni che la gente lo credeva molto saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza.
“Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?” chiedevano i giovani.
“La felicità è un’invenzione degli stupidi!” rispondeva il vecchio.
Passavano uomini dall’animo nobile, desiderosi di rendersi utili al prossimo.
“In che modo possiamo sacrificarci per aiutare i nostri fratelli?” chiedevano.
“Chi si sacrifica per l’umanità è un pazzo!” rispondeva il vecchio, con un ghigno sinistro.
“Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?” gli domandavano dei genitori.
“I figli sono serpenti!” rispondeva il vecchio, “Da essi ci si possono aspettare solo morsi velenosi!”
Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio che tutti credevano saggio.
“Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell’anima!” gli dicevano.

“Fareste meglio a tacere!” brontolava il vecchio.

Poco alla volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo.
Dal suo angolo squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano neanche gli uccelli, Pessimismo (perché questo era il nome del vecchio malvagio) faceva giungere un vento gelido sulla bontà, l’amore, la generosità che, investiti da quel soffio mortifero, appassivano e seccavano.
Tutto questo dispiacque molto al Signore, che decise di rimediare.
Chiamò un bambino e gli disse:
“Va’ a dare un bacio a quel povero vecchio!”
Il bambino obbedì.
Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia rugosa.

Per la prima volta il vecchio si stupì.

I suoi occhi torbidi divennero di colpo limpidi.
Perché nessuno lo aveva mai baciato.
Così aperse gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.

A volte, davvero, basta un bacio.
Un “Ti voglio bene”, anche solo sussurrato.
Un timido “Grazie.”
Un apprezzamento sincero.
È così facile far felice un altro.
Allora, perché non lo facciamo?

Brano di Bruno Ferrero

La piccola Arianna e la mamma

La piccola Arianna e la mamma

La piccola Arianna, era passata dal seggiolone ai primi passi, con la sua bella dose di cadute e ginocchia sbucciate, come succede a tutti i bimbi.
In quelle occasioni di solito la mamma apriva le braccia e le diceva:
“Vieni da me!”
Allora Arianna andava a gattoni verso di lei, le saliva sulle ginocchia e mamma e bambina si abbracciavano.
La mamma le chiedeva:
“Sei la mia bambina?”
Piangendo Arianna faceva “si” con il capo.

Poi aggiungeva:

“La mia dolce nespolina Arianna?”
La bambina annuiva ancora, ma con un sorriso.
La mamma, infine, le diceva:
“Ed io ti voglio bene, sempre, in eterno e ad ogni costo!”
Dopo una risata ed un abbraccio, la bambina era pronta per un’altra sfida.
Anche a cinque anni Arianna continuava a ripetere la scenetta del “Vieni da me” per le ginocchia sbucciate e i sentimenti feriti, per scambiarsi il “Buongiorno” e la “Buonanotte.”

Un giorno capitò alla mamma di avere una giornataccia.

Era stanca, irritabile e stressata dall’impegno che richiede prendersi cura di un marito, di una bambina di cinque anni, di due ragazzi adolescenti e del lavoro che svolgeva da casa.
Ogni volta che squillava il telefono o che suonavano alla porta arrivava del lavoro che l’avrebbe impegnata per un giorno intero e che doveva essere fatto immediatamente.
Raggiunse il punto di rottura nel pomeriggio e si rifugiò in camera a piangere in santa pace.
Arianna corse subito a cercarla e le disse:
“Vieni da me!”
Si accoccolò vicino alla mamma, mise le manine sulle sue guance bagnate dalle lacrime e disse: “Sei la mia mammina?”
Piangendo la mamma fece “sì” col capo.

Poi continuò:

“La mia dolce nespolina mamma?”
Sorridendo la donna fece “sì” con il capo.
Alla fine Arianna concluse:
“E io ti voglio bene, sempre, in eterno e ad ogni costo!”
Una risata, un abbraccio e anche la mamma era pronta per la prossima sfida.
Anche i genitori a volte hanno bisogno di essere consolati, e Arianna questo lo ha capito benissimo!

Brano di Bruno Ferrero

Un abbraccio tra madre e figlia

Un abbraccio tra madre e figlia

La ragazza era di pessimo umore.
Aveva tutte le sue spine fuori, proprio come un porcospino tormentato da un cane.
Troppi compiti a casa, troppe interrogazioni, troppo tutto… ecco!

La madre le ripeteva la solita predica,

con ragionamenti, spiegazioni e raccomandazioni.
La ragazza si fece ancora più scura.
Poi guardò la madre dritta negli occhi e scandì:
“Mamma, sono stanca e stufa delle tue prediche.

Perché invece non mi prendi tra le tue braccia e mi tieni stretta?

Nessun consiglio potrà mai farmi altrettanto bene!”
La madre rimase a bocca aperta.
Gli occhi della figlia imploravano un abbraccio.
Con la voce rotta dalla voglia di piangere, disse:

“Vuoi… vuoi che ti abbracci?

Ma lo sai che anch’io… anch’io voglio che tu mi abbracci?”
Accolse la figlia nelle braccia aperte e la strinse a sé, come fosse ancora una bimba.
E, quasi d’incanto, non ci furono più discussioni…

Brano senza Autore