Il filo di paglia

Il filo di paglia

I pastori che erano stati alla stalla di Betlemme a onorare il Bambino Gesù tornavano a casa.
Erano arrivati tutti con le braccia cariche di doni, e ora se ne partivano a mani vuote.
Eccetto uno.
Un pastore giovane giovane aveva portato via qualcosa dalla stalla santa di Betlemme.
Una cosa che teneva stretta nel pugno.
Gli altri lì per lì non ci avevano fatto caso, finché uno di essi non disse:
“Che cos’hai in mano?”
“Un filo di paglia!” rispose il giovane pastore, “Un filo di paglia della mangiatoia in cui dormiva il Bambino!”
“Un filo di paglia!” sghignazzarono gli altri, “È solo spazzatura.
Buttalo via!”

Il giovane pastore scosse il capo energicamente.

“No!” disse, “Lo conservo.
Per me è un segno, un segno del Bambino.
Quando tengo questa pagliuzza nelle mie mani, mi ricordo di lui e quindi anche di quello che hanno detto di lui gli angeli!”
Il giorno dopo, gli altri pastori chiesero al giovane:
“Che ne hai fatto della tua pagliuzza?”
Il giovane la mostrò.
“La porto sempre con me!”
“Ma buttala!” esclamarono gli altri pastori.
“No.
Ha un grande valore.
Su di essa giaceva il Figlio di Dio!” ribatté il giovane.
“E con questo?
Il Figlio di Dio vale.
Non la paglia!” gli dissero.

“Avete torto.

Anche la paglia vale tanto.
Su che altro poteva stare il Bambino, povero com’era?
Il Figlio di Dio ha avuto bisogno di un po’ di paglia.
Questo mi insegna che Dio ha bisogno dei piccoli, dei senza valore.
Sì, Dio ha bisogno di noi, i piccoli, che non contiamo molto, che sappiamo così poco!” spiegò il giovane.
Con il passare dei giorni sembrò che il filo di paglia diventasse sempre più importante per il giovane pastore.
Durante le lunghe ore al pascolo lo prendeva spesso in mano:
in quei momenti ripensava alle parole degli angeli ed era felice di sapere che Dio amava tanto gli uomini da farsi piccolo come loro.
Ma un giorno uno dei suoi compagni gli portò via il filo di paglia dalle mani, gridando:
“Tu e la tua maledetta paglia!
Ci hai fatto venire il mal di testa con queste stupidaggini!”
Stropicciò la pagliuzza e la gettò nella polvere.
Il giovane pastore rimase calmo.
Raccolse da terra il filo di paglia, lo lisciò e lo accarezzò con la mano, poi disse all’altro:

“Vedi, è rimasto quello che era:

un filo di paglia.
Tutta la tua rabbia non ha potuto cambiario.
Certo, è facile fare a pezzi un filo di paglia.
Pensa:
perché Dio ci ha mandato un bambino, mentre ci serviva un Salvatore forte e battagliero?
Ma questo Bambino diventerà un uomo, e sarà resistente e incancellabile.
Saprà sopportare tutte le rabbie degli uomini, rimanendo quello che è:
il Salvatore di Dio per noi!”
Il giovane sorrise, con gli occhi luminosi:
“No. L’amore di Dio non si può fare a pezzi e buttare via.
Anche se sembra fragile e debole come un filo di paglia!”

Brano di Bruno Ferrero

La gioia di vivere

La gioia di vivere

Un uomo, di profonda spiritualità, osservava lo spettacolo della città, formicolante di gente indaffarata, sempre alla rincorsa del tempo e alla ricerca del buon affare.
Improvvisamente gli apparve un angelo.
L’uomo spirituale approfittò dell’occasione e chiese all’angelo:

“Illumina la mia ignoranza:

c’è qualcuna di queste persone, di questa città, che entrerà nel paradiso?”
“Nessuno, purtroppo, nessuno!” rispose l’angelo, scrollando il capo.
In quel momento arrivarono nella piazza principale della città due uomini.
Si misero a fare giochi di abilità, scherzi e buffonate per attirare la gente.

Intorno a loro si formò un cerchio di grandi e piccoli,

che si divertivano e battevano le mani ridendo.
L’angelo: “Questi certamente entreranno nel paradiso!”
L’uomo, incuriosito, andò a parlare ai due pagliacci.
“Scusatemi, ma voi, cosa vendete?” chiese.

Risposero:

“Offriamo ciò che gli uomini cercano affannosamente:
la gioia di vivere!”

Brano senza Autore

La carovana di mercanti

La carovana di mercanti

Una carovana di mercanti abituati da molto tempo a percorrere insieme le lunghe piste d’oriente si preparava ad attraversare un grande e pericoloso deserto.
Il percorso richiedeva una buona conoscenza dei luoghi e delle piste e delle oasi, ma anche delle abitudini degli indigeni.

Così si assicurarono i servizi di una guida locale famosa per la sua esperienza.

Dopo dieci giorni di rapido cammino, la colonna si arrestò contro una barriera di uomini armati, fermi attorno alla statua di una delle loro orribili divinità dall’aspetto crudele, che incombeva sulla pista.
“Non potete proseguire” gridò il capo degli uomini armati, “se non sacrificate un uomo al nostro dio!
È la regola di ogni nuova luna.
Se non lo farete morrete tutti qui immediatamente!”

I mercanti si radunarono e cominciarono a parlottare tra loro.

La scelta era drammatica e l’accordo molto difficile.
“Noi ci conosciamo tutti da molto tempo.
Siamo parenti tra di noi.
Non possiamo sacrificare uno di noi per placare questo dio!”

I loro sguardi si concentrarono tutti sulla guida…

Dopo avere immolato il pover’uomo, secondo il rito, ai piedi della statua, la carovana riprese il cammino.
Ma nessuno conosceva la via e ben presto si persero nel deserto.
Morirono uno dopo l’altro di sete e di sfinimento.

Brano senza Autore

Il regno dei fagioli

Il regno dei fagioli

Un re di un potente e prospero regno doveva la sua fortuna alla corona che portava in testa.
La indossava esclusivamente nelle cerimonie ufficiali.
I sudditi non avevano mai saputo da dove provenisse la corona e, per questa ragione, fantasticavano sulle origini della stessa.
La leggenda maggiormente tramandata era riferita ad un ordine cavalleresco, il quale aveva forgiato la corona con tutti i metalli della terra, provenienti dai quattro poli e, per questo, carica di magnetismo.

Questa leggenda era, inoltre,

alimentata da due differenti tabù, quello di non essere mai stata toccata dalle mani del volgo e quello di essere sempre tenuta ben dritta in capo dal regnante, pena la decadenza dei suoi effetti taumaturgici.
Avvenne che le cose del regno non andassero bene, con guerra e carestia all’orizzonte.
I dignitari di corte intuirono che era colpa del re che, ormai vecchio, non portava la corona in modo coretto; o troppo a destra o a sinistra del capo.
Per via degli atavici tabù e della superstizione, il re non tollerava alcuna illazione verbale su di essa, né che la corona venisse toccata da altre mani diverse dalle sue, essendone morbosamente legato.
Per questa ragione nessuno aveva il coraggio di segnalare e correggere l’anomalia di come venisse portata.

Neppure il giullare di corte osava tanto,

nonostante scherzasse pubblicamente sull’obesità del re.
I dignitari allarmati fecero un consiglio segreto per trovare una soluzione, ma non ne vennero a capo.
Decisero, quindi, di consultare l’ortolano di corte, nonché speziale, considerato uomo saggio e avveduto, chiedendogli se avesse qualche rimedio.
Questi propose, come unico espediente capace di raddrizzare la postura del re, di fargli mangiare in abbondanza fagioli alla vigilia delle cerimonie.
Una difficoltà era rappresentata dal fatto che i legumi non fossero previsti nella cucina reale, siccome da poco presenti nelle coltivazioni di quel regno.
Nonostante ciò, al re piacquero tantissimo i nuovi piatti a base di fagioli.
Non intuì mai che la flatulenza che sopraggiungeva in seguito ai pasti consumati era causata dagli zuccheri nobili contenuti in essi, noti per provocare fastidiosi gas intestinali con l’imbarazzante effetto collaterale del soffio dei peti.

I fagioli venivano fatti consumare al grasso re prima delle cerimonie ufficiali che,

trovandosi puntualmente in imbarazzo durante le stesse, era costretto ad assumere una posizione confacente al suo ruolo sul trono, raddrizzando la postura del corpo ed evitando così la caduta della corona, sistemata tempestivamente da lui stesso.
Fortuna e prosperità tornarono in quel regno, nel quale i fagioli divennero pietanza ufficiale apprezzata a corte e dai sudditi, tanto da chiamarsi in seguito “Fagiolandia”.
Il fastidioso disturbo dei legumi fu chiamato per scaramanzia “aria di festa”, dato che, in quel momento di difficoltà, i fagioli salvarono il regno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La pecora e Dio

La pecora e Dio

Appena creata, la pecora scoprì di essere il più debole degli animali.
Viveva con il continuo batticuore di essere attaccata dagli altri animali, tutti più forti e aggressivi.
Non sapeva proprio come fare a difendersi.

Tornò dal Creatore e gli raccontò le sue sofferenze.

“Vuoi qualcosa per difenderti?” le chiese amabilmente il Signore.
“Sì.” rispose la pecora.
“Che ne dici di un paio di acuminate zanne?” domandò allora il Signore.
La pecora scosse il capo:
“Come farei a brucare l’erba più tenera?
Inoltre mi verrebbe un’aria da attaccabrighe!”

“Vuoi dei poderosi artigli?” il Signore la interrogò.

“Ah no! Mi verrebbe voglia di usarli a sproposito!” spiegò la pecora.
“Potresti iniettare veleno con la saliva!” continuò paziente il Signore.
“Non se ne parla neanche.
Sarei odiata e scacciata da tutti come un serpente!” replicò la pecora.
“Due robuste corna, che ne dici?” proseguì il Signore.
“Ah no!
E chi mi accarezzerebbe più?” chiese la pecora.
“Ma per difenderti ti serve qualcosa per far del male a chi ti attacca…” spiegò il Signore.

“Far del male a qualcuno?

No, non posso proprio.
Piuttosto resto come sono!” rispose la pecora.
Dopo aver ringraziato il Signore, andò via.

Brano tratto dal libro “Solo il vento lo sa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il rimorso di un padre

Il rimorso di un padre

Ascolta, figlio:
“Ti dico questo mentre stai dormendo con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte.”
Mi sono introdotto nella tua camera da solo:
“Pochi minuti fa, quando mi sono seduto a leggere in biblioteca, un’ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.”
E stavo pensando a queste cose:
“Ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe.
Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.

A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto:

hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo.
Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai cominciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato:
“Ciao, papino!” e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: “Su diritto con la schiena!”
E tutto è ricominciato da capo nel tardo pomeriggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze bucate.
Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoli a casa.
Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura.
Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell’offesa subita?
Quando ho alzato gli occhi dal giornale, impaziente per l’interruzione, sei rimasto esitante sulla porta.

“Che vuoi?” ti ho aggredito brusco.

Tu non hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l’affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai.
Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale.
Be’, figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un’angoscia terribile.
Cosa mi sta succedendo?
Mi sto abituando a trovare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto?
Nient’altro per stanotte, figliolo.
Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergogna.
È una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio.
Ma domani sarò per te un vero papà.
Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti.

Continuerò a ripetermi, come una formula di rito:

“È ancora un bambino, un ragazzino!”
Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo.
E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei ancora un bambino.
Ieri eri dalla tua mamma, con la testa sulla spalla.
Ti ho sempre chiesto troppo, troppo!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il lustrascarpe

Il lustrascarpe

In Scozia, nella città di Glasgow, c’era un lustrascarpe di nome Jack.
Un giorno questo ragazzo pensò che avrebbe potuto fare qualcosa di meglio nella vita e decise di diventare commesso in un elegante negozio della città.
Senza perdere tempo, Jack andò a presentarsi sul posto e chiese di parlare con il capo del personale.
Questi diede una rapida occhiata al ragazzo, lo vide a piedi nudi e gli disse:
“Per poter lavorare qui dovresti almeno avere un paio di scarpe.”

Senza dire una parola il lustrascarpe se ne andò.

Ritornò al suo posto all’angolo della strada e continuò a lavorare per giorni e giorni fino a che non riuscì a guadagnare abbastanza per comprarsi un discreto paio di scarpe.
Allora, tutto contento, corse al negozio e si presentò al capo del personale.
Questi, un po’ sorpreso della visita di Jack, ascoltò la richiesta del ragazzo e poi osservò:
“Non hai nemmeno un vestito decente; non puoi lavorare per noi con quegli stracci addosso!”
Anche questa volta Jack se ne andò senza fiatare e ritornò al suo vecchio lavoro.
Ce la mise tutta, risparmiò ogni centesimo e, dopo alcuni mesi, ecco che poté comprarsi il vestito necessario.
Ora, abito indosso e scarpe ai piedi, viso e mani pulite, Jack si presentò per la terza volta al capo del personale.
Egli lo guardò con interesse e simpatia.
“Bene,” gli disse, “riempi questo modulo!”

Triste e sconsolato Jack mormorò:

“Non so scrivere!”
“Mi dispiace davvero,” ribatté il capo del personale, “ma non puoi essere assunto se non sai né leggere né scrivere!”
Deluso, ma non scoraggiato, Jack ringraziò e andò via.
L’essersi procurato un paio di scarpe e un vestito sviluppò in lui rispetto per se stesso e l’ambizione di potere riuscire nel suo intento di fare qualcosa di meglio del lustrascarpe.
Allora trovò un lavoro diverso.
Si iscrisse a una scuola serale.
Dedicò tutto il tempo libero a studiare con successo altre materie e, nel giro di due anni, eccolo in grado di ripresentarsi al grande negozio, dove venne subito assunto.

“Mi sa che un giorno quel ragazzo prenderà il mio posto!”

disse fra sé il capo del personale.
Questa non è una storia inventata, ma un fatto veramente accaduto tanti anni fa.
Jack era deciso a raggiungere il suo scopo e si impegnò con tutta la sua abilità.
Era un ragazzo pieno di buona volontà, paziente, perseverante ed anche gentile e ben educato.
Sul lavoro intuiva ciò che si doveva fare e lo faceva senza aspettare che glielo chiedessero.
Dopo pochi anni, Jack divenne non solo capo del personale ma socio e azionista del negozio.

Brano tratto dal libro “Incontri con Gesù.” di Fiorella Carelli Ferraro

Le calze di Giovanni

Le calze di Giovanni

Nel XIX secolo, in una cittadina inglese, dopo mesi di lavoro, una schiera di muratori aveva terminato la costruzione di un’altissima ciminiera per una fabbrica.
L’ultimo operaio era sceso dalla vertiginosa impalcatura di legno.
L’intera popolazione della città era là per festeggiare l’evento e soprattutto per assistere alla caduta spettacolare dell’impalcatura.

Appena il castello di assi e travi crollò tra il frastuono,

la polvere, le risate e le grida della gente, con stupore si vide spuntare sulla sommità della ciminiera la testa di un muratore che aveva appena terminato il lavoro nel colletto interno.
La folla degli spettatori ammutolì di colpo e l’orrore cominciò a serpeggiare in mezzo a loro:
“Ci vorranno giorni per alzare un’altra impalcatura.
E fino ad allora quel muratore sarà morto di freddo, di sete o di fame!”
In mezzo alla gente c’era anche la mamma del muratore, che sembrava disperata.
Ma poi ad un tratto si fece largo ed arrivata sotto la ciminiera fece un segno al figlio e gridò: “Giovanni, togliti le calze!”

Un mormorio si diffuse:

“Poverina, il dolore le ha fatto perdere la ragione!”
Ma la donna insistette.
Per non preoccuparla oltre, Giovanni si tolse la calza.
La donna gridò di nuovo:
“Rovesciala e cerca il nodo, poi tira!”
L’uomo ubbidì e ben presto si trovò in mano una grossa manciata di lana.
“Fai lo stesso con l’altra e lega insieme i fili e poi buttane giù il capo.
E tieni l’altro ben saldo fra le dita!”

Giovanni eseguì.

Al filo di lana fu legato un filo di cotone che l’uomo tirò fino in cima.
Poi al filo di cotone fu attaccata una cordicella e alla cordicella una corda ed infine alla corda un robusto cavo.
Giovanni lo fissò saldamente alla ciminiera e scese in mezzo agli “Urrà” della gente.

La tua vita e la tua salvezza dipendono da cose piccole e fragili, che molto probabilmente già possiedi.
Basta pensarci.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Le elezioni, il Re Leone e la scimmietta

Le elezioni, il Re Leone e la scimmietta

Era appena finita la stagione delle piogge.
Il Re leone convocò per le nuove elezioni tutti gli animali della foresta equatoriale.
Muniti di regolare certificato elettorale, accorsero tutti alla convention.
Dal palco presidenziale il vecchio leone, con un ruggito deciso e potente, ottenne un religioso silenzio in tutta la vasta assemblea.
Poi, secondo un rituale che si ripeteva ormai da decenni, prese la parola e disse:
“Cari amici, come ben sapete, con l’arrivo della democrazia ogni anno ci ritroviamo per eleggere il Re della foresta.
Anche quest’anno, come sempre, rinnoveremo “liberamente” l’elezione dell’unico Capo che può legittimamente governare tutta la foresta e l’intera savana:
cioè … il sottoscritto, Sua Maestà il leone!

Lo eleggeremo, come sempre, a pieni voti!”

Ma, a questo punto, nel silenzio assoluto dell’immensa assemblea, si sentì una vocina squillante che scendeva dall’alto, da uno dei rami di un baobab.
Una vocina che domandava al Re leone:
“Perché?”
Tutti gli animali della foresta si girarono istintivamente verso la piccola incosciente che aveva osato parlare, per di più interrompendo il Re!
Era semplicemente una scimmietta, alunna della quarta classe elementare, ingenua, con pelo bruno e occhietti scintillanti.
Il Re leone, spalancando bonariamente le zampe massicce in un gesto di paternalismo indulgente e comprensivo, regalando a tutti un sorriso, forzato a quarantasei denti, rispose:
“Cara scimmietta, tu sei piccolina.
Ai bambini si può perdonare tutto.
Ma crescendo, tra non molto, capirai anche tu.

Ogni regno ha bisogno di un re.

Ogni comunità ha bisogno di un Capo, di una guida, di un condottiero!”
Convinto di aver risposto esaurientemente, stava per riprendere il filo del suo breve discorsetto preelettorale, quando la vocina chiese nuovamente:
“Perché?”
Stupito, contrariato, offeso, il leone ruggì con vigore:
“Piccola impertinente!
Chi ti ha concesso la parola?
Non sai che qui posso parlare soltanto io?”
“Perché?” domandò ancora, tutta impaurita e tremante, la piccola ingenua scimmietta.
“Già … perché?” si domandarono in coro tutti gli altri animali, “Perché? Perché? Perché?”
“Perché…” ruggì spavaldamente sbavando di rabbia il Leone, “Perché io sono il più forte!

Perché qui comando io!

Perché tocca sempre a me dire l’ultima parola!
E basta!”
Ma tutti i presenti continuarono a chiedere in coro:
“Perché? Perché? Perché?”
In questo modo ebbe inizio la grande rivoluzione politica degli animali.
L’ex Re Leone, fremente di rabbia, scoprì di essere nudo, abbandonato da tutti, irreparabilmente solo.
E, sconfitto, se ne rientrò, più inferocito che mai, a incrudelire selvaggiamente nella savana.

Brano senza Autore

La pecora nera

La pecora nera

C’era una volta una pecora nera.
Tutte le altre pecore del gregge erano bianche.
Detestavano la povera pecora nera e la coprivano di insulti.
Ogni volta che la vedevano belavano rabbiose:
“Stai lontana da noi!
Sei uno scherzo della natura, non sei normale!”
Erano malignamente felici quando riuscivano a farla piangere.
Soprattutto Belinda, una grossa pecora bianca la trattava in modo perfido e crudele.
Era la Capo gregge.

Tutte le altre andavano sempre dietro di lei.

Tutte facevano quello che faceva lei.
La pecora nera era triste.
Le sarebbe piaciuto tanto essere come le altre.
Ma non poteva cambiare il colore nero del suo mantello.
Qualche volta tentava di scappare e si nascondeva.
Ma poi tornava perché non sapeva cavarsela da sola.
Belinda era robusta e presuntuosa.
Decise di fare un viaggio per conoscere il mondo.
Raggiunse in poco tempo pascoli nuovi.
Quando trovava un gregge sconosciuto, si metteva in mezzo e si vantava:
“Nel mio gregge io sono il capo.
Tutte mi ubbidiscono.
Sono io che decido come devono andare le cose…”
Un giorno, Belinda incontrò un grosso gregge molto particolare.

Tutte le pecore erano nere.

Quando Belinda se ne accorse si fermò interdetta; poi si mise a ridacchiare.
E, ancheggiando come una indossatrice, si diresse verso il gregge sicura della sua bellezza e del suo splendido vello bianco.
Tutto il gregge scoppiò invece in una sonora risata di scherno.
Prima che Belinda potesse emettere un belato di sorpresa, una pecora nera, grossa e robusta quanto lei, si fece avanti e in tono quanto mai minaccioso disse:
“Avete mai visto niente di più ridicolo?
Ti strapperemo quella orribile pellaccia e così vedremo di che colore sei veramente!”
Tutto il gregge sghignazzò.
Belinda fece il più rapido dietro front della sua vita e scappò a rotta di collo inseguita dalle risate e dallo scherno delle pecore nere.
Mise un bel po’ di distanza tra sé e il pascolo delle pecore nere, finché arrivò ad un grande recinto dove vide un gregge molto numeroso.
Non ne aveva mai visto uno simile.
Era composto da pecore bianche, pecore nere, pecore rossicce, pecore chiazzate e perfino pecore metà bianche e metà nere.
Aveva perso molta della sua baldanzosa sicurezza, perciò si fermò interdetta e guardinga, pensando: “Chissà come mi trattano qui…”

Le pecore si erano accorte di lei e, cordialmente, le chiesero:

“Da dove vieni?”
“Dall’altra parte della montagna.” rispose.
Una pecora nera le venne incontro.
Belinda fece per scappare, ma la pecora nera disse:
“Non aver paura!
Resta qui con noi finché ti pare.
L’erba è buona e abbondante.
Da noi sono tutti benvenuti!”
Belinda rimase in quello strano gregge per due giorni.
Poi decise di tornare a casa.
Prima dell’addio disse:
“Siete il miglior gregge del mondo.
Accettate e rispettate le pecore di tutti i colori.
Da noi, abbiamo solo una pecora nera…”

Brano tratto dal libro “Racconti di Natale.” di Giuseppe D’Ambrosio Angelillo