L’uomo di sale e la donna di zucchero

L’uomo di sale e la donna di zucchero

Ai piedi di una collina, c’era una piccola casetta costruita di sale.
In questa casetta vivevano un uomo di sale e una donna di zucchero.
C’erano dei giorni in cui si amavano e dei giorni in cui si detestavano.
Un giorno si misero a litigare furiosamente.
L’uomo prese un grosso bastone di sale e cacciò la donna.

Gridava come un ossesso:

“Vattene e fatti una casa di mattoni!”
La donna se ne andò piangendo, ma non troppo, perché le sue guance di zucchero rischiavano di sciogliersi.
Si costruì una casetta di mattoni, poco lontano dalla casetta di sale dell’uomo.
Era una casetta di mattoni molto graziosa, con i balconi fioriti e il camino di pietra, ma la donna era triste.
Pensava notte e giorno all’uomo di sale.
Un giorno si decise.
Andò alla casetta di sale e bussò alla porta.

Domandò all’uomo un po’ di sale per la minestra.

Ma l’uomo prese il suo grosso bastone di sale e minacciò la donna:
“Vattene immediatamente o sarà peggio per te!”
La donna tornò a casa piangendo, ma non troppo, per non rischiare di sciogliere le sue guance di zucchero.
Il cielo, grande e pietoso, aveva assistito alla scena e si commosse e cominciò a piangere anche lui.
Così cominciò a piovere.
A piovere a secchiate.
La graziosa casetta di sale cominciò a sciogliersi.
In fretta, fretta, l’uomo corse verso la casetta di mattoni.

Bussò alla finestra:

“Lasciami entrare, ti prego, o questa pioggia mi farà fondere completamente!”
“Ah, ah! È finita la festa!” ridacchiò la donna, “Tu mi hai rifiutato un po’ di sale, adesso arrangiati!”
Ma l’uomo riuscì a trovare parole così gentili e tenere che la donna s’impietosì e gli aprì la porta.
Si gettarono una nelle braccia dell’altro e si scambiarono un lungo bacio dolce-salato.
Ma siccome l’uomo di sale era bagnato fradicio si trovò incollato alla donna di zucchero.
Gli ci volle un bel po’ per asciugare e ritrovare la libertà.
Da quel giorno l’uomo di sale ha la bocca di zucchero e la donna di zucchero ha la bocca salata.
E non litigano più.

Sono proprio le differenze che fanno la ricchezza strabiliante dell’amore…

Brano tratto dal libro “40 Storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il salto nelle braccia di papà

Il salto nelle braccia di papà

Era una famiglia felice e viveva in una casetta di periferia.
Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.

Mentre le fiamme divampavano, genitori e figli corsero fuori.

In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni.
Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore.
Che fare?
Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare.

Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile…

E i vigili del fuoco tardavano.
Ma ecco che lassù, in alto, s’aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò, urlando disperatamente:
“Papà! Papà!”
Il padre accorse e gridò: “Salta giù!”
Sotto di se il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma senti la voce e rispose:

“Papà, non ti vedo…”

“Ti vedo io, e basta. Salta giù!” urlò l’uomo.
Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

La ragazza che regalava il tempo



La ragazza che regalava il tempo

“Chi ha bisogno di un’ora?”
Gliela regalo.
Lo diceva camminando per la strada, come un ambulante che offra mazzetti di fiori e accendini.
Naturalmente nessuno le badava, pensavano che scherzasse o fosse un po’ matta.
Solo una donna le si avvicinò:
stava andando all’ospedale dal vecchio padre moribondo e per questo le prestò ascolto.
“Davvero puoi darmela?” chiese.

“Certo,” disse la ragazza “e gliela diede.”

La donna corse a portarla al padre, che poté così vivere un’ora in più.
Quando la cosa si seppe, la voce che una ragazza regalava il tempo si sparse in un baleno.
La casetta dove abitava fu assediata, la gente non bussava solo alla porta, ma anche ai vetri delle finestre.
“A me! A me!” gridavano.
“Regalami un mese, te lo pago a peso d’oro!”
“Dammi una settimana! Un giorno solo!”

Lei accontentava tutti, e senza farsi pagare.

Una madre le chiese un mese per la sua bambina gravemente ammalata e lo ebbe.
Un’altra, sofferente di cuore, aveva un unico figlio emigrato in Australia.
“Posso morire da un momento all’altro,” disse “e lui ha bisogno di tempo per mettere da parte i soldi per venire a trovarmi.
Posso non rivederlo più, capisci?”
La ragazza le regalò un anno.
Regalava ore, mesi, anni, ed erano pezzetti della sua vita che dava via.
Quando le chiedevano:
“Perché lo fai?” lei non sapeva rispondere.

Qualcuno diceva addirittura:

“Non lo farà perché non ama vivere?”
Invece chi è generoso non sa spiegare perché lo è, o forse lei si vergognava di dire che, essendo
molto povera, non aveva nient’altro da regalare.
Si penserà che a furia di dar via pezzetti della sua vita morì giovane.
Invece no, chi regala il suo tempo agli altri, non lo perde, lo guadagna:
gliene ricresce tanto.

Brano tratto dal libro “Storie del Tic-Tac.” di Marcello Argilli