La stanza ordinata (Gabriele e la mamma)

La stanza ordinata (Gabriele e la mamma)

Strano, ma vero…
Gabriele, un bambino di quattro anni, quella mattina si alzò dal letto proprio deciso a fare un bel regalo alla mamma.
Era la sua festa!
“Mamma, oggi ci penso io a mettere in ordine la mia stanza!” e, dopo aver detto questo, la pregò di lasciarlo solo almeno per due ore.
Si chiuse nella sua camera per la grande “operazione-regalo!”

Ce la mise proprio tutta!

Passate le due ore la mamma bussò alla porta, lo chiamò e si fece aprire.
Il sorriso di compiacenza della mamma si intrecciò con lo sguardo rammaricato del figlio.
Com’era prevedibile il disordine nella stanza del piccolo regnava più sovrano di prima.
Gabriele capii di non essere riuscito a portare a termine l’impresa chiedendo alla mamma altre due ore di tempo.

A questo punto, la mamma lo prese in braccio,

facendogli capire che il regalo fosse già completo e gradito, ma dicendogli:
“È ancora meglio se tu lasci la tua stanza e vai a giocare con tuo fratello!”
“Ma… L’ordine nella mia cameretta?” domandò il bimbo.
“Preferisco che tu vada a giocare con tuo fratello che ti aspetta, alla tua stanza ci penso io!” rispose dolcemente la mamma.

Verso mezzogiorno, i piccoli, dopo aver giocato, rientrarono.

Prima di mettersi a tavola a consumare il pranzetto che la mamma aveva preparato, Gabriele andò in camera a deporre berretto e cappotto, accorgendosi di quanto fosse vero quello che gli aveva detto la sua mamma:
“Tu pensa a stare con tuo fratello:
impegnati a giocare con lui ed io penserò a te e a farti trovare il regalo di una stanza ordinata!”

Brano senza Autore

L’alchimista e la pietra filosofale

L’alchimista e la pietra filosofale

C’era una volta un alchimista che aveva dedicato la sua vita alla ricerca della pietra filosofale, la rara pietra che aveva il potere di trasformare in oro gli oggetti di ferro.
“Proverò tutte le pietre della terra, una dopo l’altra.
Troverò certamente la pietra filosofale!” pensava.
In principio, sembrava una cosa semplice.
L’alchimista si era cinto i fianchi con una catena di ferro e aveva cominciato a toccarla con tutte le pietre che trovava.
Camminava e camminava e, appena vedeva una pietra, la prendeva e con essa toccava la sua catena.

Quel gesto era diventato tutta la sua vita.

Passarono gli anni e l’alchimista, con i capelli arruffati, coperti di polvere, il corpo ridotto a un’ombra, le labbra serrate come le porte chiuse del suo cuore, continuava a vagare in cerca della pietra magica.
Tutti ormai lo credevano pazzo.
Un giorno, un ragazzo del villaggio si avvicinò e gli chiese:
“Dimmi, dove hai trovato questa catena d’oro che ti cinge la vita?”

L’alchimista trasalì:

la catena, che una volta era di ferro, era proprio diventata d’oro e splendeva alla sua cintura.
Non era un sogno, ma quando era avvenuto questo mutamento?
Si colpì con violenza la fronte:
dove, oh dove, senza saperlo, aveva raggiunto la sua meta?
Si era ormai abituato a raccogliere pietre e toccare con esse la catena, e poi gettarle via senza guardare se la trasformazione era avvenuta.

Così il povero alchimista aveva trovato la pietra filosofale, e l’aveva perduta…

Tornò sui suoi passi per cercare di nuovo.
Ma ora il suo corpo era più curvo e privo di forze, il suo cuore più stanco e lui come un albero sradicato…

Brano senza Autore

Tobia e la preghiera dell’alfabeto

Tobia e la preghiera dell’alfabeto

La giornata di Tobia, come accade a tutti i bambini, aveva molti più impegni di quella del Presidente della Repubblica.
Il mattino alle sette, la mamma arrivava ronzando come un implacabile elicottero: “
Tobia, pigrone, fuori dal letto, giù i piedoni!”
Il bambino fingeva di riaddormentarsi e la mamma gli faceva il solletico dappertutto.

Subito dopo, arrivavano le cose serie:

“Le orecchie, tutte e due!
I denti!
Non ti accorgi che i calzini sono scompagnati?
No e poi no!
A scuola con le scarpe da ginnastica non ci vai!
Non me ne importa un fico secco se sono comode!
Attento che scivoli…
Te l’avevo detto che scivolavi!”
In cucina, il ronzio ripartiva:
“Mangia con calma!
Niente brioche!
Pane e marmellata!
Non sorbire il latte come un’idrovora.
Non ti sporcare!
Ti sei sporcato!
Intanto la sorellina gli faceva le boccacce e lui non poteva reagire perché la mamma stava sempre dalla parte della più piccola.
Quando finalmente si sedeva sul bus, tirava un grosso sospiro di sollievo.
Un sollievo che durava poco.

Le maestre ronzano come la mamma:

“State fermi!
Oggi impariamo il passato remoto del verbo “crogiolarsi”.
Tobia, prova tu!”
Poi c’era l’inglese:
“Toby, can you speak more slowly, please?”
E l’aritmetica:
“Se ho cinque pere, due mele, quattro kiwi, ma perdo una pera e due kiwi, che mi resta?”
Fino all’ora di tornare a casa.
Qui tutto ricominciava:
“Tobia, lascia stare tua sorella!”
“Mi ha sporcato il quaderno apposta!” replicava il bimbo.
“Tobia, lavati le mani!
Tobia, non mettere i gomiti sul tavolo!
Tobia, mangia la verdura!” gridava la mamma.
Finalmente dopo il rito del pigiamino, dei piedi, dei denti, Tobia poteva andare a letto.
Il rito della buonanotte era il migliore della giornata.
Il papà lo abbracciava, la sorellina fingeva di baciarlo e gli morsicava l’orecchio, la mamma lo stringeva forte.

Per Tobia l’odore di mamma era la cosa più bella del mondo.

“II mio ometto.
Ti voglio tanto bene, Tobia!” gli sussurrava la mamma.
“Anch’io, mamma!” rispondeva Tobia.
“E prima di addormentarti ricordati la preghiera!” gli ricordò la mamma.
“Sì, mamma!” esclamò Tobia.
Le lenzuola sapevano di fiori e di mamma.
Tobia affondò nel letto e chiuse gli occhi.
Si ricordò della preghiera.
Allora pregò in questo modo:
“Sono veramente stanco, Signore.
E non mi ricordo neanche una preghiera.
Facciamo così: reciterò molto lentamente tutto l’alfabeto e tu, che conosci ogni preghiera, potrai mettere insieme le lettere in modo da formare le preghiere che ti piacciono di più!”
Quella sera, il buon Dio disse ai suoi angeli:
“Di tutte le preghiere che oggi ho sentito, questa è senz’altro la più bella, perché è nata da un cuore semplice e sincero!”

Brano senza Autore

L’abbraccio

L’abbraccio

Da piccolo, Mordecai era una vera peste.
Così i genitori lo portarono da un sant’uomo a cui tutti ricorrevano per chiedere consigli nei casi più difficili.

“Lasciatemelo qui un quarto d’ora.” disse il sant’uomo.

Quando i genitori furono usciti, l’anziano chiuse la porta.
Mordecai sentì un po’ di timore.
Il sant’uomo si avvicinò al bambino e,

in silenzio, lo abbracciò.

Quel giorno, Mordecai imparò come si convertono gli uomini.

Brano di Bruno Ferrero

Ciao amore!

Ciao amore!

Nelle mie zone, qualche anno fa, viveva una eccentrica signora, molto singolare e leggera nel suo stile di vita, che assaporava senza remore bacco, tabacco e “venere”, avendo esercitato, in passato, il più antico mestiere del mondo in un bordello di periferia.
Tornata in paese per la chiusura delle case chiuse per effetto della legge Merlin e con la pensione,

la signora attraversava continuamente il paese con i suoi vestitini sgargianti.

Aveva spesso dei fiori tra i capelli a mo’ di corona, il rossetto sempre di un rosso acceso sulle labbra ed anche sulle guance, e girovagava quasi sempre con un mazzo di fiori in mano.
Fiori che sottraeva in chiesa o al cimitero per poi riportarli in un’altra chiesa o al cimitero stesso.
Salutava tutti con un “Ciao Amore!” ed era conosciuta con questo nome.
Era un personaggio “Felliniano” dal bel volto con capelli corvini, e fu sempre testimone di libertà,

non soggetta a regole e convenzioni.

A “Ciao Amore!” un giorno diedero fuoco alla baracca di legno dove abitava e fu messa in una struttura per anziani facendosi ben volere da operatori e ospiti.
Il regalo che più gradiva era un vasetto di cipolline sotto aceto che divorava come fossero cioccolatini, prendendole con le mani.
Il suo funerale fu a cura del comune, non avendo parenti e figli, ed una sconosciuta signora anch’essa eccentrica, cantò a cappella una Ave Maria che commosse tutti.

Quando qualcuno ricordava a “Ciao Amore!” la sua vita libertina,

ella con una risata rispondeva:
“Vi precederò in paradiso!”
Luogo dove io la immagino.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa

Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa

Una volta, in una piccola città, uguale a tante altre, cominciarono a succedere dei fatti strani.
I bambini dimenticavano di fare i compiti, i grandi si dimenticavano di togliersi le scarpe prima di andare a dormire, nessuno si salutava più.
Le porte della chiesa rimanevano chiuse.
Le campane non suonavano più.
Nessuno sapeva più le preghiere.

Un lunedì mattina, però, un maestro domandò ai suoi alunni:

“Perché ieri non siete venuti a scuola?”
“Ma ieri era domenica!” risposero gli scolari, “La domenica non c’è scuola!”
“Perché?” chiese il maestro.
Gli alunni non seppero che cosa rispondere.
Si avvicinava il Natale.
“Perché suonano questa musica dolce?”
“Perché sull’albero ci sono le candele?”
Nessuno lo sapeva.

Due amici avevano litigato:

si erano insultati fino a diventare rauchi.
“Ora non ho più nessun amico.” pensava tristemente uno di loro il giorno dopo.
E non sapeva che cosa fare.
La piccola città si faceva sempre più grigia e triste.
La gente diventava ogni giorno più egoista e litigiosa.
“Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa!” ripetevano tutti.
Un giorno soffiava un forte vento tra i tetti, così forte da smuovere le campane della chiesa.

La campana più piccola suonò.

Improvvisamente la gente si fermò e guardò in alto.
E un uomo per tutti esclamò:
“Ecco che cosa abbiamo dimenticato: Dio!”

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il pilota e l’aereo

Il pilota e l’aereo

L’aeroporto di una città dell’Estremo Oriente venne investito da un furioso temporale.
I passeggeri attraversarono di corsa la pista per salire su un DC3 pronto al decollo per un volo interno.
Un missionario, bagnato fradicio, riuscì a trovare un posto comodo accanto a un finestrino.
Una graziosa hostess aiutava gli altri passeggeri a sistemarsi.
Il decollo era prossimo e un uomo dell’equipaggio chiuse il pesante portale dell’aereo.

Il missionario guardava fuori.

La pioggia continuava ad abbattersi sulla pista.
Improvvisamente si vide un uomo che correva verso l’aereo, riparandosi come poteva, con un impermeabile.
Il ritardatario bussò energicamente alla porta dell’aereo, chiedendo di entrare.
L’hostess gli spiegò a segni che era troppo tardi.
L’uomo raddoppiò i colpi contro lo sportello dell’aereo.

L’hostess cercò di convincerlo a desistere:

“Non si può… È tardi… Dobbiamo partire!” cercava di farsi capire a segni dall’oblò.
Niente da fare:
l’uomo insisteva e chiedeva di entrare.
Alla fine, l’hostess cedette e aprì lo sportello.
Tese la mano e aiutò il passeggero ritardatario a issarsi nell’interno.

E rimase a bocca aperta.

Quell’uomo era il pilota dell’aereo.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.