Un grande amore

Un grande amore

Dopo vari anni di matrimonio scoprii una nuova maniera di mantener viva la scintilla dell’amore.
Mia moglie mi raccomandò di uscire con un’altra donna!
“Io però ho scelto te!” protestai, “Lo so.
Ma ami anche lei.
La vita è molto breve, dedicale tempo.”
Accettai.
L’altra donna, a cui mia moglie voleva che facessi visita, era mia madre.
Gli impegni di lavoro e i figli mi permettevano di farle visita solo occasionalmente.

Una sera le telefonai per invitarla a cena e al cinema.

“Che ti succede?
Stai bene?” mi chiese.
Mia madre è il tipo di donna che pensa che una chiamata serale o un invito sorprendente sia indice di notizie cattive.
“Ho pensato che sarebbe bello passare un po’ di tempo con te.” le risposi.
“Mi piacerebbe moltissimo.” disse.
Quel venerdì mentre, dopo il lavoro, la andavo a prendere, ero nervoso.
Era il nervosismo che precede un appuntamento.
E quando giunsi alla sua casa, vidi che anch’ella era molto emozionata.

Un bel sorriso sul volto, irradiava luce come un angelo.

“Ho detto alle amiche che dovevo uscire con mio figlio e quasi mi invidiavano!” mi spiegò mentre entrava in macchina.
Mi attendeva sulla porta con il suo soprabito, era stata dalla parrucchiera e il vestito era quello dell’ultimo anniversario di nozze.
Andammo a un ristorante non particolarmente elegante, ma molto accogliente.
Mia madre mi prese a braccetto come se fosse “La Prima Dama della Nazione”.
Quando ci sedemmo presi a leggerle il menù.
I suoi occhi riuscivano a leggere solo le scritte più grandi.
Quando andai a sedermi di fronte a lei, alzai lo sguardo:
la mia mamma, seduta dall’altro lato del tavolo, mi guardava con ammirazione.

Un sorriso felice si delineava sulle sue labbra:

“Ero io che ti leggevo il menù, quand’eri piccolo.
Ti ricordi?”
“Adesso è ora che ti riposi e che mi permetta di restituirti il favore!” risposi.
Durante la cena facemmo una gradevole conversazione:
niente di straordinario.
Ci aggiornammo sulla nostra vita.
Parlammo tanto che perdemmo il film che ci eravamo proposti di vedere.
“Verrò ancora fuori con te, solo però se permetti a me di invitarti!” disse mia madre quando la portai a casa sua.
Accettai, la baciai, la abbracciai.
“Come hai trovato la ragazza?” volle sapere mia moglie.
“Molto piacevole.
Molto più di quanto immaginavo!” le risposi.
Alcuni giorni dopo mia madre morì di infarto, e avvenne così velocemente che non si poté fare niente.
Poco tempo dopo ricevetti un avviso dal ristorante dove avevamo cenato mia madre e io e un invito che diceva:

“La cena è stata pagata in anticipo!”

Mia madre era sicura di non poterci essere, ma pagò lo stesso per due:
“Per te e per tua moglie, non potrai mai capire cosa ha significato per me quella serata.
Ti amo!”
In quel momento compresi l’importanza di dire a tempo debito “Ti amo” e di dare ai nostri cari lo spazio che meritano; niente nella vita sarà più importante di Dio e della tua famiglia:
dalle il tempo perché possano sentirsi amati.

Brano tratto dal libro “Un cuore rattoppato.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

I tre cugini e l’eredità

I tre cugini e l’eredità

Tre vignaioli avevano in comune, oltre che una lontana parentela, anche tre appezzamenti di terra pianeggiante pressoché uguali, per estensione e forma, frutto di un’eredità.
Facevano parte di un immenso terreno appartenente ad uno stesso avo, il quale aveva equamente diviso lo stesso ai rispettivi figli, tanti anni prima.

Zolle molto ambite nella fertile e vocata terra di produzione del mitico vino Prosecco.

Terra dalle molte ed ataviche tentazioni di possesso, con confini che si concordavano faticosamente di giorno e si spostavano di notte, come i nanetti da giardino, a seconda delle fasi lunari.
Due dei tre proprietari portavano avanti un contenzioso legale da molto tempo per la definizione dei rispettivi confini.

I geometri a cui si erano rivolti, usavano due diversi tipi di catasto (mappa e registro dei terreni).

Uno usava quello Napoleonico (1807-1816) e l’altro quello Austriaco (1807-1852), in auge in Veneto in quel periodo.
Un’alternanza dettata dalla convenienza, rimandando all’infinito il contenzioso, con la motivazione, non tanto segreta, che avevano figli da mantenere all’università con conseguenti laute parcelle da riscuotere.
Insistevano anche con il terzo, affinché partecipasse alla disputa per i confini, ma questo, essendo saggio, alla maniera di re Salomone, sentenziò:

“Se in origine le parti erano uguali,

per verificare i confini basta tirare un semplice spago di recupero e fare due nodi equidistanti per definire le tre parti, una stretta di mano per finirla per sempre e un brindisi conciliatore!”
Alcune volte, la vita, vuoi per ignoranza e/o per avarizia, è un cinema che costa caro!

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I gessetti colorati

I gessetti colorati

Nessuno sapeva quando quell’uomo fosse arrivato in città.
Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all’uomo.

Qualcuno gettava una moneta sul disegno.

Qualche volta si fermavano e gli parlavano.
Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che Facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare…
L’uomo ascoltava.
Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l’uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene.

Si riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano.

Lo guardavano ed aspettavano:
“Lasciaci qualcosa. Per ricordare…”
L’uomo mostrava le sue mani vuote:
che cosa poteva donare?
Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l’uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente.

Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.

Che cosa fece la gente dei gessetti colorati?
Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Signora, scriverebbe una poesia per me?


Signora, scriverebbe una poesia per me?

Molte persone che hanno una storia da raccontare sono capaci di metterla sulla carta, quasi tutti coloro che vorrebbero scrivere una poesia non riescono a trovare le rime o a scrivere versi che scorrano.
Ecco perché una volta redassi per una rivista una rubrica che intitolai:
“Una poesia vostra e mia.”
A tutti coloro che avevano in mente una poesia, chiedevo di comunicarmi l’idea e promettevo che avrei pubblicato la loro lettera e scritto la poesia secondo le loro richieste.
Ricevetti migliaia di lettere da persone che avevano un poema nel cuore.
Ce ne fu una che ricorderò sempre.
Era di una ragazza, una certa Mary.
Non ne ho mai saputo il cognome.
Un giorno, in un cestino colmo di posta, trovai una lettera espresso contenente un foglio di carta rigata da poco prezzo e, in mezzo al foglio, un consunto biglietto da un dollaro.
Leggendo la lettera, mi sembrava quasi di sentire la voce di Mary:
“Voi dite, signora, che scriverete una poesia per chi desidera averne una scritta e pubblicata nella rivista.
Io vorrei che me ne scriveste una e me la mandaste invece di pubblicarla.

Ecco perché accludo un dollaro.

Non voglio che vi disturbiate senza compenso.
Credo che vorrete sapere qualcosa di me.
Fui lasciata sui gradini di un orfanotrofio quand’ero in fasce, e nessuno mi adottò perché non ero bella nè molto intelligente.
Perciò rimasi all’orfanotrofio finché non ebbi l’età d’andarmene e allora mi trovarono un lavoro in una fabbrica.
Lavoravo sei giorni la settimana perché eravamo in tempo di guerra e in fabbrica c’era molto da fare, ma la domenica ero libera e andavo a passeggiare nel parco.
Una domenica un soldato mi rivolse la parola; mi chiese se ero sola, io risposi di si, ed egli disse che anche lui era solo.
Aggiunse che non era di quella città e che sperava di poter passeggiare un po’ con me.
Era un giovane in uniforme e mi parve che non ci fosse niente di male.
Cosi, passeggiando e discorrendo, mi disse che era d’una regione rurale e che era in una caserma dall’altra parte del fiume.
Mi disse che al suo paese abitava con la madre e che era figlio unico; non era sposato, e non aveva nemmeno l’innamorata, perché se la madre avesse saputo che s’interessava a qualche ragazza avrebbe fatto il diavolo a quattro.
Quindi mi chiese se quella sera volevo cenare con lui e poi andare al cinema.
Fu cosi che Mary conobbe Ross, il soldato, e fu al cinema che sentì la mano di lui cercare la sua…

E capì, senza ombra di dubbio, d’essere innamorata.

Passò un mese, e un’altra domenica, mentre erano al parco, si misero a sedere su una panchina e parlarono dell’avvenire.
Non avevo mai avuto un avvenire fino a quella domenica, perché fu allora che Ross mi disse che mi amava e che voleva sposarmi.
Naturalmente gli risposi di si, e poi Ross si rannuvolò in viso e spiegò che non osava dirlo alla madre, perciò non avrebbe potuto far assegnare a me la quota della paga destinata alla persona a carico, ne farmi beneficiaria della sua assicurazione.
Ma a me non importava.
Volevo soltanto lui e il suo amore.
Volevo soltanto qualcuno che m’appartenesse.
Quando glielo dissi, il viso gli si rischiarò.
Cosi Mary e Ross si sposarono, e appena Ross aveva un permesso andava nella camera ammobiliata di Mary.
Le comprò il primo vestito di seta della sua vita, le scarpe con il tacco alto e una vestaglia.
Ma il regalo più importante fu l’anello nuziale.
E quando Ross fu mandato oltremare, Mary gli scrisse tutte le sere ed egli rispondeva ogni volta che poteva.
Passò il tempo, e poi un giorno Mary svenne mentre era in fabbrica.
Il medico della Società le disse che avrebbe avuto un bambino.
Fu proprio mentre scriveva a Ross la più bella notizia del mondo che la sorte volle colpirla in modo crudele.

Ricevette un telegramma dalle autorità militari.

“Ne fui sconvolta, signora.” mi scrisse Mary “Mio marito era morto.
Non avrei più sentito le sue labbra sulle mie, ma avevo una consolazione.
Non ero più sola come prima.
Sebbene Ross non fosse più mio, m’aveva lasciato qualcosa che sarebbe stata mia per sempre.
Mary lavorò fin quando potè e risparmiò ogni centesimo (non aveva l’assicurazione di Ross, ricordate?)
Sulla polizza c’era il nome della madre.
Non scrisse alla madre di Ross perché, come mi disse nella sua lettera, non le avrebbe creduto.
La bambina di Mary nacque nel reparto maternità d’un ospedale e quando Mary ne usci, si trovò a dover affrontare un problema.
Adesso doveva guadagnare da vivere non soltanto per sé, ma anche per la sua creatura.
E cosi decise di mettere la bimba in un nido per l’infanzia, non in uno gratuito, ma in uno di cui i suoi mezzi le permettessero di pagare la retta.
“Tutte le mattine portavo la piccola al nido, e tutte le sere, dopo il lavoro, andavo a prenderla e la portavo a casa.

La vedevo sveglia di rado, tranne la domenica.

Siccome tutto quello che guadagnavo serviva per il vitto, per la pigione e per il nido, la piccola non aveva belle vestine o giocattoli.
Gli abitini che portava durante il giorno appartenevano al nido, e cosi i giocattoli.
Io avevo soltanto il cesto di vimini nel quale dormiva, le coperte e un sonaglio di celluloide.
Ma ero felice perché, mentre lavoravo, sapevo che l’avrei portata a casa la sera e l’avrei tenuta tra le braccia finché si fosse addormentata.
Un pomeriggio mi telefonarono dal nido e mi dissero di accorrere subito…
ma non arrivai in tempo.”
E cosi Mary si ritrovò sola come prima:
una giovane donna non molto bella, non molto intelligente, una donna che aveva soltanto la gran dote di amare e di dare.
La sua lettera finiva cosi:
“Siccome la mia piccola non aveva bei vestiti o giocattoli, o nessuna delle cose che i bimbi di solito hanno, io non avrò nulla di lei da conservare.
E temo che, con il passare degli anni, il suo ricordo svanirà, e chiudendo gli occhi non riuscirò più a vederne il viso.
Ecco perché voglio che scriviate una poesia su di lei, una poesia bella come era lei, una poesia che me la riporti vicina ogni volta che la leggerò, che mi faccia sentire ch’è ancora accanto a me, non tra le mie braccia, ma nel mio cuore.

Vi prego spedite la poesia a Mary,

Fermo Posta, e io passerò all’ufficio postale tutti i giorni finché arriverà.”
Scrivere quella poesia fu uno dei compiti più difficili che abbia mai avuto e, per quanto sembri un paradosso, uno dei più facili.
Non ne ho tenuto una copia perché temevo che, prima o poi, potessi essere tentata di pubblicarla, e allora la poesia non sarebbe più appartenuta soltanto a Mary.
Quando misi la poesia nella busta, fui sul punto di mettervi anche il biglietto da un dollaro, ma poi mi resi conto che sarebbe stata una crudeltà.
Mi resi conto che Mary comprava un ultimo regalo per la sua creatura.
Sì, cercai di rintracciare Mary, ma non fu possibile; aveva ritirato la lettera, e poi era scomparsa.
Sebbene questo sia accaduto parecchio tempo fa, conservo ancora il dollaro, nella speranza che un giorno, non so dove, mi capiti d’incontrare Mary.
Se m’avverrà d’incontrarla, le darò il dollaro e le spiegherò che un ricordo non si può comprare.
Deve essere sempre un dono.

Brano di Margaret Elizabeth Sangster

Ricordo una volta quando ero giovane…


Ricordo una volta quando ero giovane…

Ricordo una volta quando ero giovane e stavo tornando da non so dove, un cinema o forse qualcos’altro.
C’era una ragazza che era seduta di fronte a me, indossava un vestito che era abbottonato quasi fin quassù.

Era la cosa più bella che avessi mai visto.

Allora ero timido, così quando lei mi guardava abbassavo gli occhi.
Poi dopo, quando ero io a guardarla li abbassava lei.
Arrivai dove dovevo scendere, e scesi; le porte si chiusero, e quando il treno stava ripartendo lei mi guardò negli occhi e mi fece un incredibile sorriso.

Fu terribile.

Volevo aprire per forza le porte.
Tornai ogni sera alla stessa ora.
Per due settimane.
Ma non l’ho più vista.

Questo è stato trenta anni fa…

E non credo che passi giorno senza che io non rivolga un pensiero a lei!

Dialogo tratto dal film “Proposta indecente.”

Dedicato alle mamme… Ed anche alle nonne!


Dedicato alle mamme… Ed anche alle nonne!

Quando sei venuto al mondo, lei ti ha accolto tra le braccia, tu l’hai ringraziata gridando.
Quando avevi 1 anno, lei ti ha dato da mangiare e ti ha pulito, tu l’hai ringraziata piangendo per notti intere.
Quando avevi 2 anni, lei ti insegnò a camminare, tu la ringraziasti scappando quando ti chiamava.
Quando avevi 3 anni, lei ti preparava da mangiare con amore, tu la ringraziavi facendo cadere i piatti sul pavimento.
Quando avevi 4 anni, lei ti comprò alcuni pennarelli colorati, tu la ringraziasti scrivendo sui muri della sala da pranzo.
Quando avevi 5 anni, lei ti vestiva bene per le occasioni speciali, tu la ringraziavi camminando nelle pozzanghere della via.
Quando avevi 6 anni, lei ti accompagnava a scuola, tu la ringraziavi gridandole: non voglio andare!

Quando avevi 7 anni, lei ti regalò un pallone, tu la ringraziasti calciandolo nella finestra del vicino.

Quando avevi 8 anni, lei ti comprò un gelato, tu la ringraziasti rovesciandolo sulla sua gonna.
Quando avevi 9 anni, lei ti pagò le lezioni di piano, tu la ringraziasti non frequentandole.
Quando avevi 10 anni, lei ti scarrozzava in macchina da tutte le parti: a scuola, alla partita di calcio, alle feste di compleanno e ad ogni altra festa, tu la ringraziavi scendendo sempre dalla macchina senza mai voltarti indietro.
Quando avevi 11 anni, lei accompagnava te e i tuoi amici al cinema, tu la ringraziavi dicendole di sedersi in un’altra fila.
Quando avevi 12 anni, ti consigliò di non guardare alla tv certi programmi, tu la ringraziasti sperando che lei se ne stesse a lungo fuori casa.
Quando avevi 13 anni, lei ti regalò un giaccone in pelle, tu la ringraziasti dicendole che non aveva gusto.

Quando avevi 14 anni, ella ti pagò un mese di vacanze estive in campeggio, tu la ringraziasti dimenticandoti di mandarle una cartolina.

Quando avevi 15 anni, tornava dal lavoro e avrebbe voluto abbracciarti, tu la ringraziasti chiudendo a chiave la tua stanza.
Quando avevi 16 anni, ti insegnò a guidare la sua macchina, tu la ringraziasti usandola ogni volta che potevi.
Quando avevi 17 anni, lei aspettava una telefonata importante, tu la ringraziasti occupando il telefono tutta notte.
Quando avevi 18 anni, lei pianse alla festa del tuo diploma, tu la ringraziasti restando alla festa fino all’alba.
Quando avevi 19 anni, lei ti pagò le tasse dell’università, ti accompagnò al campus trasportando i tuoi bagagli, tu la ringraziasti salutandola fuori della tua stanza, per non vergognarti davanti ai tuoi amici.
Quando avevi 20 anni, ti domandò se stavi uscendo con una ragazza, tu la ringraziasti dicendole: non ti interessa!

Quando avevi 21 anni, lei ti propose alcune strade per il futuro, tu la ringraziasti dicendole: non voglio essere come te !

Quando avevi 22 anni, ti abbracciò alla festa di laurea, tu la ringraziasti chiedendole una vacanza premio per l’Europa.
Quando avevi 23 anni, lei ti diede dei mobili per il tuo primo appartamento, tu la ringraziasti dicendo ai tuoi amici che erano brutti.
Quando avevi 24 anni, conobbe la tua futura sposa, e le domandò dei progetti per il futuro, tu la ringraziasti gridandole ferocemente: taci !
Quando avevi 27 anni, ti aiutò a pagar le spese del matrimonio, e piangendo ti diceva che ti amava moltissimo, tu la ringraziasti trasferendoti in un altro paese.
Quando avevi 30 anni, lei ti diede alcuni consigli per tuo figlio appena nato, tu la ringraziasti dicendo che le cose non erano più come una volta.
Quando avevi 40 anni, ti chiamò per ricordarti il compleanno di papà, tu la ringraziasti dicendo che eri molto occupato.
Quando avevi 50 anni, lei si ammalò e necessitò di cure, tu la ringraziasti discutendo sugli obblighi dei genitori verso i figli.

Improvvisamente, un giorno, lei morì.

Tutto ciò che non avevi fatto per lei, ti cadde addosso come fulmine e tempesta.
Prenditi un momento per pensare.
Rendi onore e omaggio, dimostra quanto ami colei che chiami mamma.
Non c’è sostituto alcuno per lei.
E anche se non sempre la si può considerare la migliore amica, anche se il suo modo di pensare non s’accorda con il tuo, lei è sempre la mamma.
Domandati: hai avuto tempo per star con lei, per ascoltare le sue lamentele, per alleviare le sue stanchezze?
Sii prudente e generoso.
Portale il debito rispetto.
Quando lei avrà lasciato questo mondo, ti resteranno solo bei ricordi di colei che hai chiamato mamma.

Evviva le mamme!
Brano senza Autore