La pallina d’oro

La pallina d’oro

Molto tempo fa c’era un giovane che se ne andava in giro tra i boschi pensando a cosa dovesse fare della sua vita, quale fosse la strada giusta da imboccare e come poteva fare per guadagnarsi un pezzo di pane.
Mentre camminava sentì una voce che lo chiamava e, dopo aver guardato in giro, scoprì un fringuello su un ramo che gli parlava con voce umana:
“Bel giovane, fermati e ascolta.
Adesso canterò la mia canzone; mentre la canto dovrai prendermi e scuotermi senza farmi male.

Vedrai che dal becco mi uscirà una pallina d’oro:

raccoglila e mettila in tasca, così diventerai capace di saper sempre ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e, in ogni momento saprai che cosa è meglio per te.
Quanto a me mi addormenterò nel cavo dell’albero e tu potrai andartene per la tua strada!”
Così andarono le cose e il giovane riprese il cammino con la pallina d’oro in tasca, finché arrivò in una città con ricche botteghe e bei palazzi, dove la gente vendeva e comprava, mangiava e dormiva, leggeva e scriveva, discuteva e correva come in tutte le città del mondo.
Solo che qui tutti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, piangevano a dirotto senza mai smettere.
Il giovane sentì che la pallina, misteriosamente, gli impediva di tirare dritto ed una vocina gli suggeriva.
“Tu devi fare qualcosa per questa gente!”
Sentendosi pieno di coraggio, andò subito dal re che singhiozzava sul suo trono e gli disse di non preoccuparsi perché era arrivato ad aiutarli.
“Ad aiutarci?” rispose il re piangendo ancora più forte, “Non sai che la nostra città è minacciata da un terribile drago che mangerà tutti noi se non gli consegniamo ad una ad una le nostre ragazze più belle?

Ne ha già prese nove e l’ultima è mia figlia!”

Il giovane sentiva che la pallina gli infondeva sempre più coraggio e con sua stessa sorpresa rispose:
“Vi do la mia parola che domani vi porterò la testa e la coda del drago, così le vostre disgrazie finiranno!”
Il re pensò che fosse pazzo:
i suoi più bravi cavalieri avevano fallito nell’impresa, come poteva un ragazzo così giovane e senza spada e armatura far meglio di loro?
Il giovane indovinò i suoi pensieri, sorrise chiese una spada e dei viveri.
Gli portarono due spade:
una di purissimo acciaio intarsiato d’oro e d’argento che mandava bagliori in tutta la sala e l’altra semplice, ordinaria e pensante che sapeva di sudore e fatica.
Il giovane stava allungando la mano per prendere la prima quando la pallina d’oro fece sentire la sua voce consigliando di prendere l’altra:
“Non tutto ciò che luccica è utile, le cose serie, il più delle volte, non hanno un aspetto attraente!”
Il giovane prese la vecchia spada e partì verso la collina.
Lassù il drago si era costruito un castello di ferro con sette porte e sette torri, circondato da un fossato pieno d’acqua sporca ed enormi coccodrilli.
Il giovane percorse il ponte ed arrivò alla prima porta, bussò e il drago aprì.
Quando lo vide e sentì le richieste del giovane che lo invitava a lasciar stare gli abitanti del paese e a restituire le ragazze, scoppio a ridere e la porta si chiuse con un terribile tonfo e il ponte dietro il giovane crollò.

Al ragazzo non restava che andare avanti.

Si avviò verso le porte e vide che ognuna portava una scritta, “Porta dei Re”, “Riservata ai Principi”, “Di qui passano i cavalieri” e così via finché sulla settima trovò scritto:
“Entrata.”
Pensò, su suggerimento della pallina, di non essere un nobile e quindi aprì la settima porta.
Si udì il grido infuriato del drago che non capiva come il giovane avesse trovato la porta giusta, infatti, dietro alle altre c’erano numerose trappole e trabocchetti e centinaia di cavalieri che vi erano caduti dentro.
Il giovane, attraversato un lungo corridoio, arrivò in un’ampia sala dove giovani e ragazzi elegantemente vestiti, ridevano, ballavano e mangiavano cibi dal profumo invitante.
Lo presero invitandolo a stare con loro e a divertirsi lasciando perdere l’idea di aiutare gli abitanti piagnoni, tanto nessuno lo avrebbe ricompensato.
Il giovane esitò, ma la pallina d’oro bruciava come fuoco.
Emise un gran sospiro e disse:
“Ho dato la mia parola!” e passò oltre.
La parete si aprì, tutti svanirono poiché erano illusioni create dal drago e il giovane si trovò davanti allo stesso drago.
Era arrivato il momento del combattimento ma il drago prima offrì al giovane un’armatura preziosa.
“Fossi matto, questa renderebbe i miei movimenti goffi e impacciati” e, così dicendo, rifiutò.
La pallina d’oro approvò la decisione, il drago era terrorizzato e con due colpi di spada il giovane gli tagliò la testa e la coda.
Dal castello uscirono una dopo l’altra le otto ragazze che teneva prigioniere, ma mancava l’ultima:

la figlia del re.

Gli raccontarono che era stata trasformata in un fringuello ed era riuscita a fuggire nel bosco.
Il giovane si ricordò dell’uccello che gli parlò con voce umana e corse nel bosco.
Addormentata sotto all’albero c’era la principessa, il giovane la svegliò e la riportò a casa insieme alle altre ragazze.
La tristezza nel paese finì e, come succede nelle fiabe, il giovane povero sposò la figlia del re.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Un pomeriggio con papà

Un pomeriggio con papà

Levada è una piccola frazione del comune di Pederobba, situata in pianura, che confina con il comune di Monfumo, il quale è disposto totalmente in collina.
A Monfumo, la mia famiglia possedeva un terreno in una collinetta, e questo (terreno) era in parte popolato da alberi da frutto di vario genere, mentre il restante era dedicato alla fienagione.
Un pomeriggio di tanti anni fa, quando ero ancora un bambino, con mio padre andammo ad espletare proprio questa tecnica (fienagione).

Dopo qualche ora,

passò dal nostro terreno un uomo del luogo, che viveva di espedienti, e mio padre lo invitò ad aggregarsi a noi per fare merenda, cosa che accetto ben volentieri.
Approfittò a sproposito dell’invito, lasciando, addirittura, mio padre senza vino.
Non contento del nostro invito e del modo in cui venne trattato, quando nel tardo pomeriggio caricammo il fieno sul carro, il quale doveva essere trainato dai buoi, notammo che le corde per legare il fieno erano scomparse.
Cercammo invano e non trovandole, mio padre esclamò:

“Un furto!”

Con molta difficoltà riprendemmo la via di casa, la quale, ovviamente, fu molto difficile.
Mio padre dovette fermarsi a riassettare il carico di fieno più di una volta, poiché la strada era piena di buche e, per questa ragione, l’intero carico era a rischio.
A metà percorso ci fermammo in una osteria per rinfrescarci e per rilassarci, incontrando nuovamente l’uomo della merenda.
Mio padre gli offrì, nuovamente, da bere.
Io lo chiamai in disparte e gli dissi:
“Come mai fai questo?
Ci ha rubato le corde e gli offri ancora da bere?”

Mio padre, dolcemente, mi spiegò:

“Dino, non preoccuparti, ricchi si può diventare, ma signori si deve nascere.
Noi siamo signori, nonostante (siamo) poveri da sempre.
Inoltre, ricorda, il tempo è galantuomo!”
Grande fu la lezione che mio padre mi diede e che, ancora oggi, mi segna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il regalo (Il cammino lungo e difficile)

Il regalo
(Il cammino lungo e difficile)

Tobia era un bambino di quarta elementare, silenzioso e sereno.
Viveva con i genitori e la sorellina in una modesta casetta, ai margini del paese, appollaiato su una collina costellata di ulivi, a qualche chilometro dal mare.
Il giorno della chiusura della scuola, prima delle vacanze di Natale, tutti i bambini della quarta elementare fecero a gara per portare un regalo alla maestra, che si chiamava Marisa, ed era gentile e simpatica.

Sulla cattedra, si ammucchiarono pacchetti colorati…

La maestra ne notò subito uno piccolo piccolo, con un bigliettino vergato dalla calligrafia chiara ed ordinata di Tobia:
“Alla mia maestra.”
Marisa ringraziò i bambini, uno alla volta.
Quando venne il turno di Tobia, aprì il pacchettino e vide che conteneva una piccola, magnifica conchiglia, la più bella che la maestra avesse mai visto:
era tutta un ricamo pieno di fantasia, foderato di madreperla iridescente.
“Dove hai preso questa conchiglia, Tobia?” chiese la maestra.

“Giù, alla Scogliera Grande!” rispose il bambino.

La Scogliera Grande era molto lontana, e si poteva raggiungere solo tramite un sentierino scosceso.
Era un cammino interminabile e tribolato, ma solo là si potevano trovare delle conchiglie speciali, come quella di Tobia.
“Grazie, Tobia!
Terrò sempre con me questo bellissimo regalo, che mi ricorderà la tua bontà…
Ma dovevi proprio fare tutto quel lungo e difficile cammino, per cercare un regalo per me?” chiese.

Tobia sorrise e rispose:

“Il cammino lungo e difficile fa parte del regalo!”

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’angelo e le preghiere della sera

L’angelo e le preghiere della sera

Nel cuore di una vallata di campi, prati e boschi, in una casetta a due piani, viveva una famigliola felice.
Erano in tre per il momento:
una mamma, un papà e un bambino biondo di sei anni.
Al centro della valle scorreva un torrente “allegro” e “tortuoso”.
La casetta sorgeva un po’ isolata dal paese e così, la domenica, la famigliola saliva in un’auto piccolina e andava a Messa nella Chiesa parrocchiale.
La sera, prima di addormentarsi, tutti insieme pregavano.
Un Angelo del Signore, tutte le sere, raccoglieva le preghiere e le portava in cielo.
Un inverno piovve per molti giorni.
Il torrente si gonfiò di acqua scura.
La valle cominciò ad essere sommersa dall’acqua.

Il papà svegliò la mamma e il bambino.

Si strinsero spaventati perché l’acqua aveva invaso il pian terreno della casetta.
E continuava a salire.
Sempre più scura, sempre più veloce.
“Saliamo sul tetto!” esclamò il papà.
Prese il bambino e salì in soffitta e di là sul tetto, mentre la mamma li seguiva.
Sul tetto si sentirono come naufraghi su un’isoletta che diventava sempre più piccola.
Perché l’acqua che continuava a salire arrivò implacabile fino alle ginocchia del papà.
Il papà si sistemò ben saldo sul tetto, abbracciò la mamma e le disse:
“Prendi il bambino in braccio e sali sulle mie spalle!”
Mamma e bambino salirono sulle spalle del papà, che continuò:
“Mettiti in piedi sulle mie spalle e alza il bambino sulle tue, non avere paura!
Qualunque cosa capiti, io non ti lascerò!”

La mamma baciò il bambino e disse:

“Sali sulle mie spalle e non avere paura.
Qualunque cosa capiti, io non ti lascerò!”
L’acqua continuava ad alzarsi.
Sommerse il papà e le sue braccia tese a tenere la mamma, poi inghiottì la mamma e le sue braccia tese a tenere il bambino.
Ma il papà non mollò la presa e neanche la mamma.
L’acqua continuò a salire.
Arrivò alla bocca del bambino, agli occhi ed infine alla fronte.
L’Angelo del Signore, che era venuto a prendere le preghiere della sera, vide solo un ciuffetto biondo spuntare dall’acqua torbida.
Con mossa leggera afferrò il ciuffo biondo e tirò.
Attaccato ai capelli biondi venne su il bambino e, attaccata al bambino, venne su la mamma e, attaccato alla mamma, venne su il papà.
Nessuno aveva mollato la presa!
L’Angelo spiccò il volo e posò con dolcezza l’originale “catena” sulla collina più alta dove l’acqua non sarebbe mai arrivata.

Papà, mamma e bambino “ruzzolarono” sull’erba:

poi si abbracciarono, piangendo e ridendo.
Invece delle preghiere, quella sera, l’Angelo portò in cielo il loro amore.
E tutte le “schiere celesti” scoppiarono in un fragoroso applauso!

Brano senza Autore

I supereroi

I supereroi

Diversi anni fa, poco più che adolescente, mio padre mi chiese di andare a verificare una nostra proprietà.
Si trattava di raggiungere un bosco, posto in cima ad una amena collina, facente parte del corollario dell’Asolano, per verificare e valutare di quanta legna da ardere avremmo potuto disporre in quel momento.

Accettai di buon grado,

sia per la fiducia che mio padre aveva riposto in me sia perché due giorni prima aveva nevicato, nonostante fosse iniziata la primavera da qualche giorno.
Calpestare per primo il sentiero immacolato mi dava un piacere immenso, essendo innamorato della natura, soprattutto se incontaminata.
Arrivato in cima ed avvolto da quel silenzio ovattato, mentre stavo contemplando il paesaggio circostante con all’orizzonte il monte Grappa ed il fiume Piave, intravidi il mio paesello innevato.
Caddi come in estasi per le troppe cose belle che mi ritrovai davanti agli occhi.
Fui riportato alla realtà in maniera traumatica.
Sentì sulla schiena un corpo contundente ed una voce, contemporaneamente, gridare:

“Mani in alto!”

Mi spaventai tantissimo, al punto che temetti per il mio cuore.
Voltandomi vidi il guardiacaccia sogghignare nel puntarmi contro il suo fucile.
Vedendomi pallido e tremante cambiò atteggiamento e si scusò, spiegandomi che pensava fossi un bracconiere, andato a piazzare le trappole per le volpi.
Nei mesi seguenti questo trauma mi segnò a lungo e lo volli superare alla mia maniera, facendo lo stesso percorso in una calda notte d’estate.
Mentre stavo percorrendo il sentiero per raggiungere il nostro bosco, mi sentivo orgoglioso di me stesso perché incurante del buio e degli animali notturni che andavo a disturbare.
Non mi agitavo neanche per gli strani rumori che popolavano il bosco finché, ad un certo punto, qualcosa mi urtò la schiena e, istintivamente, alzai le mani, memore della passata esperienza, ma non parlò nessuno.

Mi voltai lentamente,

nuovamente tutto tremante con il cuore alla gola e capii che era solo un ramo secco che si era impigliato nel mio giubbotto.
Imparai a mie spese la lezione che con il bosco non si fanno sfide.
Non bisogna andare da soli, soprattutto di notte, ne fare gli eroi fuori luogo, anche perché andai senza avvisare nessuno.
Il vero coraggio va dimostrato semmai in altri modi e luoghi.

A distanza di anni, con l’arrivo della primavera, ci ritroviamo a dover combattere contro un nemico invisibile, il coronavirus.
Ed i veri eroi ed i supereroi, pieni di coraggio, in questo particolare e delicato momento per l’Italia, sono medici ed infermieri, oltre a tutte le forze dell’ordine.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Giosuè e la luce dalla finestra

Giosuè e la luce dalla finestra

Una strana epidemia si abbatté sulla città all’improvviso.
Iniziava come un raffreddore:
i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri.
Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
“Ciò che conta sono i soldi.
Con i soldi si fa tutto.” sostenevano.
Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini.
In certi alloggi la porta d’ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka.
Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini.

I bambini chiedevano:

“Quanto mi date per sparecchiare?”
Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile.
Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio.
L’eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: “Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio.
È dovuta ad un virus che si chiama “sgrinfiacchiappa” ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra.
Si può sfuggire al contagio per un po’ di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c’è un solo rimedio: l’acqua della “Montagna che canta.”
Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato.
Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente.
Perché l’acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.

Logico, no?

Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell’impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla!”
“Noi aspetteremo. Tutti!” giurarono il sindaco e i consiglieri, “Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città!”
“…e vuota le casse comunali!” aggiunse l’assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus “sgrinfiacchiappa.”
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando:
“Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica!”
Si presentarono in duemila.
Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano.
Tutti, meno uno.
Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone.
Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la “Montagna che canta.”
“La cercherò.” disse tranquillamente Giosuè.

“Noi ti aspetteremo.” promise la gente.

“Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo!”
Giosuè mise un po’ di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma ed il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò:
“Anch’io ti aspetterò!”
Salutò tutti e partì.
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell’orizzonte.
“Una volta là, mi basterà cercare la “Montagna che canta.”
Non deve essere difficile.” pensava.
Ma si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all’orizzonte.
Ma Giosuè non si fermava.
Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.

Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo.
Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce.
Era il segno della speranza:
aspettavano l’acqua della generosità portata da Giosuè.
Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo:
“Non ce la ha fatta.
Non tornerà più!”
Ogni notte, c’era qualche luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili.

Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli.

Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la “Montagna che canta.”
Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava.
Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione.
Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse:
“La “Montagna che canta.”?
Certo che so dov’è.
Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti.
Ma è un accidenti di montagna!
Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione!”

“Chi è?” domandò Giosuè.

“Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna!”
“Pazienza, ma io devo salire lassù!” disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
“Buona fortuna!”
La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po’ stonato.
Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia.
Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri.
Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato.

Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò.

Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire.
Pesante com’era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare.
Dopo un po’ il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare.
Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell’acqua della generosità.
Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto:
la gente della città sarebbe tornata felice come prima.
Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua.
Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città.
Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri.
Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza.

La città era completamente avvolta dal buio.

Non c’erano luci sui davanzali delle finestre.
Nessuno lo aveva aspettato.
“È stato tutto inutile…
Se nessuno mi ha aspettato, l’acqua non farà effetto…
Tutta la mia fatica è stata inutile!”
Si avviò mestamente.
Aveva voglia di buttar via l’acqua che gli era costata tanto.
Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò.
C’era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.
“Qualcuno mi ha aspettato!” disse.
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa.
Riconobbe la finestra e la casa.
In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato.
Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’Angelo del Signore e le tre prove

L’Angelo del Signore e le tre prove

Un saggio, che aveva passato la vita in meditazione e ricerca, scorse una mattina tra la folla uno strano essere, magro, con una folta barba lunga, e gli disse:
“So chi sei, e ti riconosco perché sono un mistico:
tu sei l’Angelo del Signore, e vai per la terra a compiere i suoi disegni.
Lascia allora ch’io ti segua, lascia che ti serva perché questo è ciò che per tutta la vita ho desiderato: essere utile ai disegni di Dio.”
L’altro lo guardò perplesso, e dopo un lungo silenzio rispose:
“Sia; ma ad una condizione:
rimarrai con me sino al tramonto senza criticare mai le mie azioni né chiedere mai spiegazione del mio operato.”
“Va bene.” esclamò il saggio, “So tacere quando occorre…”
E si misero in cammino.
Dopo un po’ giunsero in vista d’un villaggio i cui abitanti s’eran raccolti attorno a un muro che recintava un orto e cominciavano a demolirlo pietra dopo pietra.
L’individuo magro dalla barba folta chiese loro ragione di quel lavoro, e uno rispose:

“Vedi quei due ragazzi?

Sono orfani, e il loro unico sostentamento è dato da questo piccolo orto.
Stamane, passando da qui, il giudice del distretto è stato colpito da una pietra caduta dal muretto; ha ritenuto che il muretto fosse pericolante e ha ingiunto ai ragazzi di demolirlo completamente entro il tramonto, pena la confisca dell’orto.
Poiché non ce la faranno da soli né hanno denaro per pagar manovali, noi tutti li aiutiamo!”
Udito ciò, l’Angelo del Signore gli rispose:
“Ma perché proprio tu sei qui?
Non hai forse una mucca in atto di figliare, bisognosa dunque del tuo aiuto?”
Poi, mentre quello correva alla sua stalla, preso in disparte uno dopo l’altro quelli che lavoravano, parlò loro della necessità che s’occupassero dei fatti propri, e li convinse tutti ad abbandonare i due orfani che, rimasti soli, gli lanciarono una lunga, sconsolata occhiata di rimprovero; poi, con le lacrime agli occhi, presero a demolire il muro dicendo:
“Facciamo quanto possibile, e forse il giudice ci permetterà di terminare domani!”
Il saggio e l’uomo magro ripresero il cammino, non senza una certa perplessità del primo che a un certo momento sbottò:
“Ma non ti pare di aver agito male nei riguardi di quei poveri orfani?”

L’altro gli rispose:

“Ricordati la tua promessa; taci e seguimi!”
Nel primo pomeriggio i due giunsero sulle rive di un grande fiume.
I traghettatori vociavano e berciavano per richiamare l’attenzione dei pellegrini, ma non vollero abbassare il loro prezzo quando l’Angelo del Signore protestò:
“Quattro monete a testa?
Così tanto?
Non potremmo darvene due?”
“Niente da fare, oppure andate laggiù, da Husein il povero.
Ha una barca sgangherata e traghetta per una sola moneta!” risposero diversi traghettatori
Fecero così, e infatti Husein, un giovane che non poteva acquistare una barca più bella, doveva proprio accontentarsi delle briciole.
Li traghettò per una moneta a testa, ma quando arrivarono sulla riva opposta l’Angelo del Signore sguainò la spada e menando un fendente sul fondo della barca vi fece un buco che la colò a picco.
Husein cominciò a inveire, ma i due si allontanarono in fretta.

Poco dopo il saggio sbottò:

“Ma perché hai rovinato quella barca?
Quel giovane è povero, ha bisogno di soldi.
Non potrà più lavorare per tutta la giornata!”
“Ti ho detto di tacere, dunque taci!” ribatté l’altro.
Era quasi il tramonto quando si trovarono a passare accanto alla casetta di un boscaiolo.
Come questi li vide, andò loro incontro dicendo:
“Viandanti, è felice dovere d’ogni buon musulmano ospitare alla propria tavola lo straniero.
Accomodatevi da noi e desinate di buon grado!”
Così i due passarono più di un’ora in compagnia del boscaiolo, parlando con i suoi quattro figli e in particolare con l’ultimo, che era il prediletto dei genitori, oramai attempati.
Quando venne il momento di partire, l’Angelo del Signore chiese indicazioni sulla strada per la città.

Il boscaiolo spiegò:

“Segui il sentiero fin dopo la collina, poi prendi quello a destra dei due alberi…”
Ma l’Angelo pareva non capir bene, talché alla fine disse:
“Facci accompagnare dal tuo ultimogenito fino a quei due alberi, così saremo sicuri di non sbagliare!”
Così fu fatto, e i tre si incamminarono.
Superata la collina, giunti infine alla biforcazione, il ragazzo indicò la strada giusta, li salutò e si volse per tornare indietro.
Allora l’Angelo del Signore sguainò di nuovo la spada e con un gran fendente gli tagliò netta la testa.
L’uomo saggio inorridì…
Rimase un momento col fiato mozzo, e poi, violentemente, urlò:
“Angelo del Signore?
Macché Angelo del Signore:
un delinquente, un assassino, ecco chi sei!
L’Angelo del demonio, forse.
Mio Dio, ma come ho fatto a non capirlo prima?
Vattene, vattene via!
La maledizione su di te, assassino!”
Al che l’altro rispose:
“Certo, me ne vado, e capisco perché non mi vuoi più seguire.

D’altronde non lo potresti fare:

avevamo pattuito che non avresti dovuto protestare per ciò che facevo, né criticare, e per tre volte hai contravvenuto al patto.
Tuttavia, prima di lasciarti, ti darò la spiegazione dei fatti.
Quella gente che aiutava i due orfani, hai visto in effetti com’ era egoista?
Non appena gli ho parlato dei loro interessi se ne sono andati.
Orbene:
ai piedi di quel muretto era sepolta una marmitta piena di monete d’oro.
Se quella gente l’avesse trovata, non ne avrebbe parlato coi ragazzi e si sarebbe spartito il tesoro di nascosto.
Ora i due giovani hanno trovato le monete, e il loro avvenire è assicurato!”
“Sì, ma quella barca?” domandò il saggio.
L’angelo del Signore rispose:
“Dietro di noi stava sopraggiungendo una banda di predoni che aveva compiuto un grande saccheggio.
I predoni, giunti al fiume, hanno razziato tutte le barche per discendere il fiume sino alla loro nave, dove tutte le barche sono state affondate.
La sola che non hanno potuto prendere è quella di Husein, che la potrà riparare durante la notte e domani, unico traghettatore, lavorerà per molti giorni al prezzo che vuole!”
“Sì, ma il ragazzo che hai ucciso?” chiese allora il saggio, “Il più piccolo, il più caro a quei boscaioli!”
“Questa notte sarebbe impazzito, e nella sua follia avrebbe ammazzato nel sonno i suoi fratelli.

Ora, che cosa è preferibile per quei genitori?

Piangere il loro figlio minore, confortati dagli altri tre, o avere i primi tre uccisi dal fratellino, e quest’ultimo ucciso dal boia?
Stolto l’uomo che giudica le azioni di Dio; anzi:
stolto è l’uomo che giudica, quando gli elementi di giudizio possesso sono inadeguati o scarsi!”
Conclusa la spiegazione, l’Angelo del Signore se ne andò.

Brano tratto dal libro “Saggezza islamica.” di Gabriel Marcel. Edizione Paoline.

Dov’è finita la stella cometa?

Dov’è finita la stella cometa?

Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all’asino.
Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.
“La nostra missione è compiuta!” disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. “Torniamo a casa!” esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco, “Guardate!
La stella continua a guidarci.” annunciò Baldassarre.
La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente.
La corte dei Magi si avviò serpeggiando attraverso il deserto di Giudea.
La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri.
Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile.
Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.
Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo.

Era scomparsa.

“La nostra stella non c’è più!” si lamentò Melchiorre, “Non l’abbiamo nemmeno salutata.”
C’era una sfumatura di pianto nella sua voce.
“Pazienza!” ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico, “Adesso possiamo cavarcela da soli.
Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio!”
Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella.
Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c’era proprio più.
“Dove sarà andata?” domandò, deluso.

Nessuno rispose.

In silenzio, ripresero al marcia verso Oriente.
La silenziosa carovana si trovò presto ad un incrocio di piste.
Qual era quella giusta?
Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore.
Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera.
Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire, poi con semplicità offrì a tutti latte e formaggio.
In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.
I Magi ripartirono pensierosi.
Dopo un po’, incontrarono un villaggio.
Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino.
Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise.

Cominciava a capire.

Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno ad uno dei suoi dromedari che era caduto e aveva disperso il carico all’intorno.
Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia.
Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.
“Adesso so dov’è finita la nostra stella!” esclamò Baldassarre in tono acceso, “È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c’è un cuore buono e generoso!”
Melchiorre approvò:
“La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino:
ciò che conta è l’amore.”
“I gesti concreti dell’amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa.” concluse Gaspare.
E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d’avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.
Ci sono uomini e donne che conservano in sé un frammento di stella cometa.
Si chiamano cristiani.

Brano tratto dal libro “L’iceberg e la duna.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La leggenda della farfalla blu

La leggenda della farfalla blu

La leggenda della farfalla blu narra di un uomo vissuto molti anni fa, rimasto vedovo e con due figlie di cui prendersi cura.
Le due bambine erano estremamente curiose, intelligenti e desiderose di imparare.
Per saziare la loro fame di conoscenza, riempivano in continuazione il padre di domande.
Talvolta egli dava loro risposte sagge, ma non sempre era facile convincere le due bambine o rispondere correttamente ai loro quesiti.
Notando l’inquietudine delle sue due figlie, l’uomo decise di mandarle in vacanza presso un saggio che viveva sull’alto di una collina,

per convivere insieme ed imparare da lui.

Il saggio si mostrò in grado di rispondere senza alcuna esitazione a qualsiasi quesito da parte delle due bambine.
Un giorno, però, le due sorelle decisero di architettare un’astuta trappola per il saggio per poter misurare la sua saggezza.
Una notte, le due si misero ad ideare un piano:
proporre al saggio una domanda alla quale egli non fosse in grado di rispondere.
“Come possiamo ingannare il saggio?
Quale domanda potremmo fargli per coglierlo impreparato?” domandò la sorella minore.
“Aspettami qui, te lo mostro subito.” rispose la più grande.
La sorella maggiore discese la collina, e passata un’ora, tornò con il grembiulino chiuso a mo’ di sacco, nascondendo qualcosa.
“Cos’hai lì?” chiese la sorella piccola.
La sorella maggiore infilò una mano nel grembiule e mostrò alla bambina una splendida farfalla blu.

“Che meraviglia!

Cos’hai intenzione di farne?” domandò allora la sorella piccola.
“Sarà questa l’arma che ci permetterà di ingannare il maestro con una domanda a trabocchetto.
Lo cercheremo e, una volta trovato, terrò la farfalla nascosta in una mano.
Domanderò poi al saggio di dirmi se la farfalla che ho in mano sia viva o morta.
Se egli mi dirà che è viva, stringerò forte la mano e la ucciderò.
Se risponderà che è morta, la lascerò libera.
Qualunque sia la sua risposta sarà dunque sempre errata!”
Accogliendo la proposta della sorella maggiore, entrambe le bambine si misero alla ricerca del saggio.
“Saggio,” disse la più grande, “sapresti indicarci se la farfalla che ho tra le mani è viva o morta?”

Al che il saggio, con uno scaltro sorriso, rispose:

“Dipende da te, essa è nelle tue mani!”

Il nostro presente e il nostro futuro sono unicamente nelle nostre mani.
Quando qualcosa va storto, non bisogna dare la colpa a nessuno.
Siamo sempre e solo noi gli unici responsabili di ogni nostra perdita e ogni nostra conquista.
La farfalla blu rappresenta la nostra vita.
Sta a noi decidere cosa fare di essa.

Leggenda Popolare.
Brano senza Autore.

Un uomo, il suo cavallo ed il suo cane

Un uomo, il suo cavallo ed il suo cane

Un uomo, il suo cavallo e il suo cane camminavano lungo una strada.
Mentre passavano accanto a un albero gigantesco, si abbatté un fulmine e morirono tutti fulminati.
Ma l’uomo non si accorse di avere ormai lasciato questo mondo e continuò a camminare con i suoi due animali.
A volte occorre del tempo perché i morti si rendano conto della loro nuova condizione.
Era una camminata molto lunga, su per la collina, il sole era forte e loro erano tutti sudati e assetati.
Avevano disperatamente bisogno di acqua.
A una curva della strada, avvistarono un magnifico portone, tutto di marmo, che conduceva a una piazza pavimentata con blocchi d’oro, al centro della quale c’era una fontana da cui sprizzava dell’acqua cristallina.

Il viandante si rivolse all’uomo che sorvegliava l’entrata:

“Buongiorno!”
“Buongiorno!” rispose l’uomo.
“Che posto è mai questo, così meraviglioso?” chiese il viandante.
“Questo è il Cielo.” disse l’uomo.
“Che bello essere arrivati nel cielo, abbiamo molta sete.” esclamò il viandante.
“Lei può entrare e bere a volontà.” disse il guardiano indicando la fontana.
“Anche il mio cavallo e il mio cane hanno sete.” fece notate il viandante.
“Mi spiace molto, ma qui non è permessa l’entrata di animali.” replicò l’uomo.
L’uomo ne rimase assai deluso, perché aveva molta sete, ma non avrebbe mai bevuto da solo.

Ringraziò e proseguì.

Dopo aver camminato a lungo, ormai esausti, arrivarono in un luogo la cui entrata era segnata da una vecchia porta, che si apriva su di un sentiero sterrato, fiancheggiato da alberi.
All’ombra di uno degli alberi, c’era un uomo sdraiato, con il capo coperto da un cappello, che probabilmente stava dormendo.
“Buongiorno!” salutò il viandante.
L’uomo fece un cenno con il capo.
“Abbiamo molta sete, il mio cavallo, il mio cane e io.” continuò il viandante.
“C’è una fonte tra quelle pietre.” disse l’uomo indicando un posto, “Potete bere a volontà.
L’uomo, il cavallo e il cane si avvicinarono alla fonte e bevvero a volontà.
Poi, l’uomo tornò indietro per ringraziare, e chiese:

“Come si chiama questo posto?”

“Cielo.” rispose l’uomo.
“Cielo?
Ma il guardiano del portone di marmo ha detto che il cielo era là!” esclamò il viandante.
“Quello non è il cielo, quello è l’inferno.” replicò l’uomo.
Il viandante rimase perplesso e disse:
“Voi dovreste evitarlo!
Una tale informazione falsa causerà grandi confusioni!”
L’uomo sorrise e disse:
“Assolutamente no.
In realtà, ci fanno un grande favore.
Perché laggiù rimangono tutti quelli che sono capaci di abbandonare i loro migliori amici.”

Brano di Paulo Coelho