La musica più bella

La musica più bella

Qualche giorno fa, una mia cara pronipote mi ha telefonato, chiedendomi se la potessi aiutare a svolgere un compito assegnatole in DAD (Didattica A Distanza).
Il tema (del compito) era la musica in generale, con i gusti che sono cambiati con il susseguirsi delle varie epoche storiche.

Le dissi i miei, la preferenza per la musica classica, pur non essendo un esperto in materia.

Le elencai anche i bei ricordi di gioventù, legati alla musica leggera e melodica, nonostante non sia mai stato un ballerino.
Le narrai che conservo tutt’ora i dischi in vinile dell’epoca e le promisi che, qualora continui ad impegnarsi a scuola, diventeranno tutti suoi.

Le spiegai che mi fa anche piacere ascoltare le belle colone sonore dei film d’autore.

Conclusi raccontandole che, nonostante possa sembrare strano, la musica più bella che ascolto in assoluto è il russare lieve e rassicurante della zia, che dorme accanto a me.
(La zia) mi intrattiene nelle ore di insonnia, causate dall’età avanzata.
Mi ritengo unico privilegiato uditore e penso che questo rappresenti la felicità vera, sperimentata allo stato puro, e in quegli istanti mi ritorna in mente Morfeo, il mitico Dio del sonno.

Le pause e le sospensioni del suo dolce russare, mi fanno riflettere.

Questa “musica”, secondo me, ha anche un testo articolato, segreto e custodito nel suo sogno di bambina cresciutella negli anni, che anche a me viene precluso, se pur vicinissimo a lei.
L’aurora del nascente, e atteso, nuovo giorno, alla fine, fa svanire tutto con un nuovo raggio di luce.

Buon compleanno a mia moglie Gabriella.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Due racconti di Bruno Ferrero per la Festa del Papà

Due racconti di Bruno Ferrero per la Festa del Papà
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Un abbraccio per papà

L’aiuto di papà

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“Un abbraccio per papà”

Degli studenti universitari ebbero come compito per il fine settimana:
dare un lungo e caloroso abbraccio al loro papà.
“Non posso farlo,” protestò uno, “mio padre morirebbe!”

“E poi,” disse un altro, “mio padre sa che lo amo!”

“Allora è facile!” replicò il professore, “Perché non lo fai?”
Il lunedì seguente tutti parlavano, sorpresi, di come fosse stata soddisfacente l’esperienza.
“Mio padre si è messo a piangere!” diceva uno.

E un altro:

“Strano. Mio padre mi ha ringraziato!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” Edizioni ElleDiCi.
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“L’aiuto di papà”

Il padre guardava il suo bambino che cercava di spostare un vaso di fiori molto pesante.
Il piccolino si sforzava, sbuffava, brontolava, ma non riusciva a smuovere il vaso di un millimetro.

“Hai usato proprio tutte le tue forze?” gli chiese il padre.

“Sì!” rispose il bambino.
“No!” ribatté il padre, “Perché ancora non mi hai chiesto di aiutarti!”

Brano tratto dal libro “Quaranta (40) storie nel deserto.” Edizioni ElleDiCi.

Siamo tutti responsabili di un fiorellino

Siamo tutti responsabili di un fiorellino

Una tremenda siccità aveva colpito la regione.
L’erba era prima ingiallita e poi appassita.
Si erano inariditi i cespugli e gli alberi più fragili.
Neppure una goccia d’acqua pioveva dal cielo e le mattine si presentavano alla terra senza la lieve frescura della rugiada.

Migliaia di animali, piccoli e grandi, stavano morendo.

Pochissimi avevano la forza per sfuggire al deserto che ingoiava ogni cosa.
La siccità si faceva ogni giorno più dura.
Persino i forti e vecchi alberi, che affondavano le radici nella profondità della terra, persero le foglie.
Tutte le fontane e le sorgenti erano esaurite.
Ruscelli e fiumi erano inariditi.
Solo un piccolo fiore era rimasto in vita, poiché una piccolissima sorgente dava un paio di gocce d’acqua.

Ma la sorgente disperava:

“Tutto è arido e assetato e muore.
E io non posso farci nulla.
Che senso hanno le mie due gocce d’acqua?”
Lì vicino c’era un vecchio e robusto albero.

Udì il lamento e, prima di morire, disse alla sorgente:

“Nessuno si aspetta da te che tu faccia rinverdire tutto il deserto.
Il tuo compito è tenere in vita quel fiorellino.
Niente più!”
Siamo tutti responsabili di un fiorellino.
Ma ce ne dimentichiamo spesso per lamentarci di tutto quello che non riusciamo a fare.

Brano senza Autore

Il problema dell’orologio

Il problema dell’orologio

C’era una volta un orologio di bell’aspetto che troneggiava su un elegante comò e faceva con entusiasmo il suo lavoro.
Come ogni buon orologio aveva un cuore che ticchettava due battiti al secondo:

“Tic-tac, tic-tac, tic-tac, …”

Così fin dal giorno in cui era uscito dal laboratorio di uno dei migliori orologiai della città.
La sua vita scorreva tranquilla finché nel suo cervello di luccicanti ingranaggi, quasi fosse un granellino di micidiale polvere, si insinuò un dubbio:
“Due battiti al secondo significano centoventi ticchettii al minuto, settemila e duecento battiti all’ora, centosettantaduemilaottocento al giorno, un milione duecentonovemila e seicento alla settimana, sessantaduemilioni ottocentonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno, …”
I delicati ingranaggi dell’orologio emisero un cigolio lamentoso.
“Sessantaduemilioni ottocentonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno!
È impossibile.
Non ce la farò mai!”
In breve, il dubbio si trasformò in panico e poi in profonda depressione.
Così, un giorno, l’orologio prese appuntamento dal miglior psico-orologiaio della città.

“Qual è il suo problema?” chiese gentilmente il dottore.

“Oh, dottore,” si lamentò, “mi è stato affidato un compito immane, nettamente al di sopra delle mie forze.
Devo emettere due battiti al secondo, cioè cento e venti ticchettii al minuto, settemila e duecento battiti all’ora, centosettantaduemilaottocento al giorno, un milione duecentonovemila e seicento alla settimana, sessantaduemilioni ottocentonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno!
E per molti anni!
Non posso farcela!”
“Un momento!” interloquì lo psichiatra, “Quanti ticchettii devi fare alla volta?”
“Un tic alla volta, poi un tac, poi un altro tic e così via!” rispose l’orologio.
“Questa è la cura che ti consiglio:
vai a casa, mettiti tranquillo e pensa ad un tic alla volta, concentrati su ogni tic e goditelo.
Uno alla volta:
non ti preoccupare del successivo!

Pensi di riuscirci?” domandò lo psichiatra.

“Un tic e un tac alla volta!
Ma certo!” rispose l’orologio.
Tornò a casa e non si preoccupò più.

Brano senza Autore

La cocorita Francesca

La cocorita Francesca

In una giungla piena di suoni e di colori, viveva una cocorita che aveva il carattere festoso e vivace come le sue piume azzurre, verdi, oro e arancione.
Si divertiva a svolazzare nell’intrico dei rami, giocava a nascondino con altri pappagallini colorati e con i bengalini candidi.
Si chiamava Francesca e ovunque arrivava riusciva a comunicare la sua intensa gioia di vivere.
Perfino le scimmie, che non sopportavano cocorite e pappagallini, facevano eccezione per la cocorita Francesca.
Era un uccellino felice, grato di essere vivo e di avere avuto in dono un paio di ali per volare e un bellissimo vestito di piume morbido e screziato.
Ogni mattina, appena il sole irrompeva attraverso lo spesso fogliame, si levava il suo grido:

“È una bellissima giornata!

Forza fratelli, non fate i pigroni, spalancate le ali: il cielo è tutto nostro!”
E incominciava a tracciare arabeschi nell’aria, come un fiore multicolore portato dal vento.
Ma, un brutto giorno, il cielo sulla foresta si fece improvvisamente nero e minaccioso come una palude senza sole.
Un silenzio pesante, pieno di paura, attanagliò le creature della giungla.
Le cocorite si strinsero tremanti le une alle altre, a formare una nube tremante.
Un vento violento afferrò le chiome degli alberi più alti e cominciò a scuoterli come se volesse sradicarli, rovesciando nidi e piccoli pappagallini che non sapevano ancora volare.
Poi cominciò la sarabanda dei tuoni e dei fulmini.
Staffilate di fuoco sibilavano dal cielo e colpivano senza pietà i vecchi tronchi, finché improvvisa si levò una fiamma e un albero centenario prese fuoco, urlando il suo dolore, con i rami nodosi levati verso il cielo come un’ultima disperata invocazione di aiuto.
“Il fuoco!
Si salvi chi può!” tutte le lingue animali della foresta gridarono all’unisono il loro terrore.
Migliaia di animaletti cominciarono a fuggire, ma il fumo acre e impenetrabile toglieva loro il respiro, faceva bruciare gli occhi e impediva crudelmente di vedere le vie di scampo.
La cocorita Francesca volava affannata, cercando di guidare i più piccoli e i più spaventati:
“Di qua!
Correte di qua!

Il fiume è da questa parte!”

Molti animali, sentendo il suo grido, si affrettarono a fuggire verso il corso d’acqua, altri invece finivano intrappolati dal fuoco e dal fumo.
Francesca, invece di mettersi in salvo, come tutti gli uccelli, continuava a sorvolare i più sfortunati, cecando un modo per aiutarli.
La disperazione le suggerì un’idea.
Volò sino al fiume che scorreva ai margini della foresta e lì si immerse nelle acque scure.
Poi riemerse con il corpicino intriso d’acqua e volò sull’inferno di fiamme, scrollando e scuotendo le piume per liberare le gocce d’acqua e farle piovere sulle fiamme.
Incurante del pericolo, sfiorando coraggiosamente le fiamme, tornò indietro e si immerse di nuovo nel fiume.
Poi, via!
“A scagliare il suo carico prezioso sul fuoco che continuava a ruggire.
Piccole gemme piovevano sul rogo.
Una cosa insignificante, ma la cocorita coraggiosa e testarda ripeté più e più volte il suo viaggio tra il fiume e le fiamme.
Le sue belle piume erano tutte bruciacchiate e il suo colore era quello della cenere, non riusciva più a tenere aperti gli occhi, ma non le importava.
“Che altro posso fare!” si ripeteva, “Solo volare, ed io volerò fino allo stremo delle forze pur di salvare una sola vita!”
Due occhi acuti, ma vagamente annoiati osservavano tutto dall’alto.
Un gigantesco avvoltoio veleggiava, godendosi lo spettacolo della giungla in fiamme.
Scorse la cocorita impegnata nella sua lotta contro il fuoco e sghignazzò:

“Che stupida bestia.

Come può pensare di domare il fuoco con quattro gocce d’acqua?
Chi ha mai visto una cosa del genere?”
Il coraggio dell’uccellino però lo aveva commosso un po’ e scese in picchiata verso la foresta in fiamme.
La cocorita stava ancora sfidando il fuoco quando vide apparire al suo fianco l’enorme avvoltoio dagli occhi gialli.
“Vattene, uccellino, il tuo compito è senza speranza!” gracchiò imperioso l’avvoltoio, “Cosa possono fare poche gocce d’acqua contro questo inferno?
Vola lontano prima che sia troppo tardi!”
“Non posso.
Devo fare qualcosa, devo tentare!” rispose la cocorita.
“Guarda in che stato sei!” continuò l’avvoltoio, “Fra un po’ finirai in una fiammata, mi sembri un tizzone affumicato!”
“Riesco ancora a volare…
Qualcosa farò!” replicò la cocorita.
“Ma che ti importa di loro?
Non hanno mai fatto niente per te.” esclamò l’avvoltoio.

“Sono miei amici:

li voglio salvare.” spiegò la cocorita.
La cocorita, stremata e ferita non ascoltava più.
Ostinata, continuava a fare la spola tra l’acqua e il fuoco.
L’avvoltoio, prima di sparire oltre le colonne di fumo, gridò:
“Basta!
Fermati stupida piccola cocorita!
Salva te stessa!”
Francesca era irremovibile.
“Ci mancava anche l’avvoltoio con i suoi consigli!” brontolava, “Consigli!
Anche la nonna e tutti i miei parenti mi direbbero le stesse cose.
Non ho bisogno di consigli, ma di qualcuno che mi aiuti!”
Proprio in quel momento, un gran frullare di ali riempì il cielo.
Una nube colorata, gialla, verde, blu, rossa e bianca si affiancò alla piccola cocorita.
Migliaia e migliaia di cocorite, pappagallini, bengalini, tucani, uccelli piccoli e grandi, si immergevano nell’acqua e andavano a scrollare le piume sul fuoco.
Le fiamme erano violente, ma gli uccelli erano milioni e arrivavano a ondate successive, senza smettere mai.

Come stupito, il fuoco si arrestò.

E cominciò lentamente a sfrigolare e illanguidire.
La cocorita Francesca, insieme alle poche gocce d’acqua che aveva raccolto, scagliò sulle fiamme anche le sue lacrime.
Ma erano lacrime di gioia.
“Grazie.” mormorò e cadde a terra, senza più un filo di forza.
Quando si risvegliò il temporale era scoppiato e l’acqua del cielo stava completando l’opera iniziata dalla coraggiosa cocorita.
“Urrà per Francesca!” gridarono gli abitanti della foresta, che le stavano tutti intorno.
La piccola cocorita aprì gli occhi e disse:
“È una bellissima giornata!”

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Avere gli occhi scuri

Avere gli occhi scuri

Emy era una bella bimba di tre anni…
Viveva in una cittadina americana sulla costa atlantica!
Amava la sua famiglia e ammirava gli occhi azzurri di suo padre, di sua madre e dei suoi fratelli.
Tutti in casa di Emy avevano occhi azzurri!
Tutti tranne Emy!
Il sogno di Emy era avere occhi azzurri come il mare, e li desiderava più di ogni altra cosa…
Un giorno udì la maestra dire:
“Dio risponde a tutte le preghiere!”
Emy trascorse tutto il giorno a pensarci…

A sera, andando a letto, s’inginocchiò e pregò:

“Papà del Cielo, grazie per aver creato il mare, che è bellissimo!
Grazie per la mia famiglia…
Grazie per la mia vita!
Mi piacciono moltissimo tutte le cose che hai fatto e quelle che stai facendo ma, vorrei chiederti, per favore, quando domattina mi sveglierò, potrei avere degli occhi azzurri come quelli di mamma?
Nel nome di Gesù, Amen!”
Appena sveglia, il giorno dopo, corse allo specchio!
Guardò…
Ma, i suoi occhi erano castano scuro, come sempre!

Perché Dio non l’aveva ascoltata?

Forse per rendere più forte la sua fede?
Quel giorno Emy si rese conto che anche un “No” era una risposta!
Nonostante tutto, la bambina conservò intatta la sua fiducia in Dio…
Diversi anni dopo, Emy partì come missionaria volontaria in India!
Il suo compito era “riscattare” i bambini che le famiglie più povere vendevano ai mercanti come “pezzi di ricambio” per i trapianti…
Però, per entrare nei “giri” del traffico senza essere riconosciuta come straniera, doveva travestirsi da indiana!
Passava polvere di caffè sulla pelle, tingeva i capelli, si vestiva con il “sari”, ed entrava, liberamente, nei luoghi di vendita dei bambini…
Poteva camminare, tranquilla, per tutto il “mercato infantile”, poiché sembrava, in tutto e per tutto, un’indiana!

Un giorno, una sua amica missionaria la guardò travestita e le disse:

“Oh, Emy!
Hai mai pensato a come avresti fatto a travestirti se avessi avuto gli occhi chiari come tutti quelli della tua famiglia?
Siamo proprio al servizio di un Dio intelligente!
Ti ha dato occhi molto scuri perché sapeva che sarebbero stati essenziali per la missione che ti avrebbe affidato nella vita!”

Brano senza Autore

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

Tanti, tanti anni fa, in un piccolo villaggio, vivevano un uomo e una donna.
Prima essi avevano abitato in una città, in un palazzo bello e ricco.
Ora invece vivevano poveramente in una misera capanna.
In tanta sfortuna, la loro unica consolazione era la figlia che avevano.
Sebbene ancor molto giovane, tutti l’ammiravano già per la sua straordinaria bellezza.
Ma, ahimé, prima che la ragazza fosse cresciuta, il padre morì e dopo pochi mesi anche la madre cadde gravemente malata.
“Che sarà di mia figlia, quando anch’io sarò morta?” ripeteva piangendo la donna, “È povera, e la sua bellezza sarà per lei soltanto un castigo.”
Quando la poverina sentì d’esser prossima a morire, chiamò a sé la ragazza, le raccomandò di essere buona e coraggiosa, e le disse di portarle il mastelletto di legno che stava dietro la porta.
La ragazza ubbidì e si inginocchiò accanto al letto della madre morente.
La donna alzò il mastelletto e lo mise in testa alla figlia in modo da nasconderle quasi completamente la faccia.
“Ora, figlia mia,” disse la donna, “promettimi di non toglierti mai di testa questo mastelletto.
Altrimenti, sarai molto infelice.”

La ragazza promise.

Morta che fu la madre, la ragazza campò come meglio poteva.
Lavorava sodo aiutando i contadini nei campi, e mai nessuno udì da lei una parola di lamento per quel che doveva fare.
La gente che la vedeva sempre col mastelletto in testa cominciò a chiamarla Mastellina.
A poco a poco tutti dimenticarono che sotto quella strana maschera si nascondeva il più bel volto del paese.
Un ricco possidente nei cui campi la ragazza lavorava, finì per accorgersi di lei, ammirato dalla sua modestia e diligenza.
Un giorno la chiamò, e le offrì di andare a servizio nella sua casa a curare la moglie ch’era molto malata.
La ragazza accettò l’incarico e svolse così bene il suo compito da meritarsi la fiducia di tutti.
Un giorno, il maggiore dei figli del padrone tornò a casa dalla città dove studiava.
Conobbe Mastellina, prese ad ammirare il suo carattere tranquillo e la sua indole buona, e andava chiedendo alla gente del villaggio notizie su di lei.
Seppe così che era un povera orfanella, da tutti chiamata Mastellina a causa appunto del mastelletto che portava in testa per nascondere, si diceva, i brutti lineamenti del suo viso.
Ma una sera, il giovanotto si avvicinò a Mastellina che portava un pesante secchio pieno d’acqua e vide il volto della ragazza riflesso nell’acqua del secchio.

Era di una bellezza eccezionale.

Egli decise subito di sposare la giovane serva.
I suoi genitori non approvarono la sua scelta, ma il giovane fu irremovibile e tanto disse e tanto fece che riuscì a fissare la data delle nozze.
Mastellina rimase molto male quando seppe che i suoi padroni non l’accettavano volentieri come nuora in casa loro.
Essa piangeva giorno e notte, e pregò il suo fidanzato di sposare una donna che potesse portargli una ricca dote.
Ma una notte essa vide in sogno sua madre, la quale le disse:
“Non temere, figlia mia.
Sposa pure il figlio del tuo padrone.”
La ragazza ne fu felice, si alzò tutta allegra e cominciò a prepararsi per le nozze.
Prima della cerimonia nuziale, tutti volevano togliere dal capo della sposa quello strano casco, ma nessuno ci riuscì.

Lo sposo però disse:

“Io le voglio tanto bene, e la sposerò così com’è!”
Le nozze furono celebrate.
Dopo la cerimonia ci fu uno splendido banchetto:
tutti erano intorno alla sposa a brindare alla sua salute, quando, all’improvviso, il mastelletto si spaccò in due cadendo per terra a pezzi con gran fracasso.
Oh meraviglia!
I pezzi erano tutti d’oro, d’argento e di pietre preziose.
Così la povera ragazza poté vantare una dote più bella e più ricca di quella di una principessa.
Ma quel che più stupì gli invitati fu la straordinaria bellezza della sposa.
I brindisi in onore della coppia felice non si contarono più; grida, canti e risate andarono avanti fino al mattino.

Brano di Bruno Ferrero

L’importanza della lettura

L’importanza della lettura

“Ho letto moltissimi libri, ma ho dimenticato la maggior parte di essi.
Ma allora qual è lo scopo della lettura?”
Fu questa la domanda che un allievo una volta fece al suo Maestro.

Il Maestro in quel momento non rispose.

Dopo qualche giorno, però, mentre lui e il giovane allievo se ne stavano seduti vicino ad un fiume, egli disse di avere sete e chiese al ragazzo di prendergli dell’acqua usando un vecchio setaccio tutto sporco che era lì in terra.
L’allievo trasalì, poiché sapeva che era una richiesta senza alcuna logica.
Tuttavia, non poteva contraddire il proprio Maestro e, preso il setaccio, iniziò a compiere questo assurdo compito.
Ogni volta che immergeva il setaccio nel fiume per tirarne su dell’acqua da portare al suo Maestro, non riusciva a fare nemmeno un passo verso di lui che già nel setaccio non ne rimaneva neanche una goccia.

Provò e riprovò decine di volte ma,

per quanto cercasse di correre più veloce dalla riva fino al proprio Maestro, l’acqua continuava a passare in mezzo a tutti i fori del setaccio e si perdeva lungo il tragitto.
Stremato, si sedette accanto al Maestro e disse:
“Non riesco a prendere l’acqua con quel setaccio.
Perdonatemi Maestro, è impossibile e io ho fallito nel mio compito.”

“No,” rispose il vecchio sorridendo, “tu non hai fallito.

Guarda il setaccio, adesso è come nuovo.
L’acqua, filtrando dai suoi buchi lo ha ripulito!”
“Quando leggi dei libri,” continuò il vecchio Maestro, “tu sei come il setaccio ed essi sono come l’acqua del fiume!”
“Non importa se non riesci a trattenere nella tua memoria tutta l’acqua che essi fanno scorrere in te, poiché i libri comunque, con le loro idee, le emozioni, i sentimenti, la conoscenza, la verità che vi troverai tra le pagine, puliranno la tua mente ed il tuo spirito, e ti renderanno una persona migliore e rinnovata.
Questo è lo scopo della lettura.”

Brano senza Autore.

I furti in fabbrica

I furti in fabbrica

Una fabbrica aveva un problema di furti.
Ogni giorno veniva rubata della merce.
I dirigenti affidarono quindi ad una società specializzata il compito di perquisire ogni dipendente che usciva alla fine del lavoro.
La maggior parte degli operai apriva spontaneamente la borsa e faceva esaminare i contenitori della colazione.

I detective erano molto diligenti e controllavano tutti i dipendenti, fino all’ultimo:

un omino che tutti i giorni chiudeva la fila degli operai con un carrello pieno di rifiuti.
Una guardia doveva passare una buona mezz’ora, quando ormai tutti gli altri se ne stavano tornando a casa, a rovistare tra gli involucri di alimenti, mozziconi di sigarette e bicchieri di plastica per controllare se veniva portato fuori qualcosa di valore.

Non trovava mai niente.

Una sera, il guardiano, esasperato, disse all’uomo:
“Senti, lo so che stai combinando qualcosa, ogni giorno controllo ogni tuo piccolo pezzetto di rifiuto nel carrello e non trovo mai niente che valga la pena di essere rubato.
Sto diventando matto.
Dimmi quello che stai facendo e ti prometto che non farò nessun rapporto.”

L’uomo alzò le spalle e disse:

“È semplice, rubo carrelli!”

Brano di Bruno Ferrero

Padre e figlio al ristorante

Padre e figlio al ristorante

Un figlio portò il padre a cena in un ristorante.
Il padre era anziano e quindi debole e non completamente autosufficiente.
Mentre mangiava, un po’ di cibo gli cadeva sulla camicia e sui pantaloni.

Gli altri clienti osservavano il vecchio con stupore,

ma suo figlio rimase tranquillo continuando la cena ed una volta che entrambi finirono di mangiare, il figlio, senza mostrare nessun imbarazzo e con assoluta tranquillità prese il padre e lo portò in bagno per pulirgli il viso cercando anche di togliere le macchie di cibo dai suoi vestiti; amorevolmente gli pettinò i capelli grigi e, infine, gli rimise gli occhiali.
All’uscita del bagno, un profondo silenzio regnava nel ristorante.
Il figlio si avvicinò alla cassa per pagare il conto ma prima di uscire, un uomo anziano, si alzò dal tavolo e chiese al figlio:
“Non ti sembra che hai lasciato qualcosa qui?”

Il giovane rispose:

“No, non ho lasciato nulla!”
Allora l’anziano disse:
“Sì hai lasciato qualcosa!
Hai lasciato qui una lezione per ogni figlio, e una speranza per ogni genitore!”
L’intero ristorante era così silenzioso, che si poteva ascoltare cadere uno spillo.

Degli studenti universitari ebbero come compito per il fine settimana un lungo e caloroso abbraccio al loro papà.
“Non posso farlo,” protestò uno, “mio padre morirebbe!”
“E poi,” disse un altro, “mio padre sa che lo amo!”
“Allora è facile!” replicò il professore, “Perché non lo fai?”

Il lunedì seguente tutti parlavano, sorpresi,

di come fosse stata soddisfacente l’esperienza.
“Mio padre si è messo a piangere!” diceva uno.
E un altro:
“Strano.
Mio padre mi ha ringraziato!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.