La quercia e la rosa

La quercia e la rosa

In un giardino vivevano, in mezzi ad altri alberi, cespugli, fiori e profumate aiuole, una quercia ed una rosa.
La quercia era un albero maestoso e i suoi rami poderosi sembravano una corona,

che si allargava possessiva sulle umili piante del giardino.

La rosa era uno stelo con poche foglie verdi e molte acuminate spine scure.
Aveva un’aria anemica e sembrava sempre sul punto di appassire.
La quercia prosperosa si divertiva ad umiliarla:

“Sei solo un patetico ramoscello spinoso!”

Quando soffiava il vento, il grande albero aveva imparato a far vibrare le sue innumerevoli foglie per modulare suoni, sibili vagamente esotici e graziose armonie.
Tutto questo riempiva d’orgoglio la quercia.
“Io sono un’orchestra!” tuonava, “Riempio il cielo di sublimi sinfonie!
Non come questo squallido stecco che non sa far nulla!

A che serve una rosa?”

Ma quando venne maggio, la rosa fiorì.
E tutto il giardino scoppiò in un lungo, sincero e caloroso applauso.

Brano senza Autore

Il rito della prosperità (Festa di San Giorgio)

Il rito della prosperità
(Festa di San Giorgio)

Il 23 aprile è il giorno della ricorrenza (della morte) di San Giorgio, protettore di tutti i cavalieri che hanno combattuto il male, il quale, in quasi tutte le storie e nelle leggende, veniva rappresentato dal drago.
Cavaliere viene chiamato in Veneto pure un bruco, il Bombyx Mori, conosciuto come baco da seta.
Proprio in questa data, le piccolissime uova del bruco venivano messe in incubazione sotto un caldo cuscino e, addirittura, venivano nascosti in gran segreto tra i seni procaci delle donne di casa, per accelerare la schiusa delle uova.

Mai nessun cavaliere fu così coccolato e viziato, nonostante fosse, per giunta, un insetto.

I bruchi rappresentavano la fonte del primo guadagno dell’anno, atteso dalle donne, soprattutto da quelle che si dovevano sposare, le quali erano in trepidante attesa della propria dote.
Molto spesso ciò avveniva attraverso la vendita dei preziosi bozzoli di seta.
Ricordo ancora oggi quando, un giorno, da ragazzo, andai a trovare un compagno di scuola e di giochi e non trovandolo subito in casa, iniziai a girovagare per le stanze, come facevo di solito.
Giunsi in un grande locale adibito all’allevamento del baco da seta.
L’allevamento era suddiviso in graticole e, nella stessa stanza, intravidi due donne di mezza età.
Non fui notato, quindi poté assistere ad un singolare rito ancestrale, risalente, molto probabilmente, ad una epoca precristiana e riferito all’antico culto della Dea Madre.
Le donne si erano alzate vistosamente le lunghe gonne fino al ventre, mostrando le bianche nudità, con in testa una corona, realizzata con le foglie e con i rami di gelso, e così “bardate” fecero tre giri intorno alle graticole, mormorando frasi a me incomprensibili.
Non rimasi però turbato dalla singolare scena!

Anzi, rimasi divertito!

Pur non riuscendo a capire lo scopo di quello “spettacolo”, non ebbi mai il coraggio di chiedere ai miei il significato di quello che avevo visto.
Infatti, nonostante anche a casa mia si allevasse il baco da seta, non rividi più la scena vista a casa del mio amico.
Continuai a coltivare i bachi da seta con passione finché, dopo essere rimasto l’unico e l’ultimo nel mio paese, fui costretto a smettere nel 1989, a causa dell’inquinamento ambientale portato da un insetticida irrorato a sproposito nei frutteti.
Il baco da seta, essendo una sentinella ecologica, non tollerava questo insetticida.
In quegli anni, su nostro invito, il parroco veniva a benedire l’allevamento e, in quel momento, veniva esposta per la cerimonia una immagine sacra della Madonna, come auspicio devozionale per la buona riuscita dell’allevamento.

Solo in età adulta, leggendo testi di antropologia religiosa,

ricordai il rito ancestrale a cui avevo assistito, non subito da me interpretato, essendo una prerogativa segreta delle donne, sopravvissuta nei secoli.
Penso di essere stato uno degli ultimi, casuali, spettatori che lo possono ancora raccontare.
Diverse volte ripensai alla scena che vidi, vissuta nel mio tranquillo e secolare borgo di Levada, e giunsi alla conclusione che nei muri e nei sassi dell’epoca sono celati, ancora oggi, segreti che a breve andranno persi per sempre, a causa del cambiamento urbanistico e culturale che il mio borgo e la nostra nazione hanno subito negli ultimi 70 anni.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La foto, che è stata gentilmente fornita dall’autore, lo vede impegnato in una delle varie attività agricole che, ormai, svolge da anni.

Il crocifisso con il braccio destro staccato

Il crocifisso con il braccio destro staccato

In un’antica cattedrale, appeso ad altezza vertiginosa, c’è un imponente crocifisso d’argento che ha due particolarità.
La prima è la corona di spine sul capo di Gesù:
è tutta d’oro massiccio tempestato di rubini e il suo valore è incalcolabile.

La seconda particolarità è il braccio destro di Gesù:

è staccato e proteso nel vuoto.
Una storia ne spiega il motivo.
Molti anni fa, una notte, un ladro audace e acrobatico progettò un piano perfetto per

impadronirsi della splendida corona d’oro e rubini.

Si calò da uno dei finestroni del tetto legato ad una corda e oscillando arrivò al crocifisso.
Ma la corona di spine era fissata molto solidamente e il ladro aveva solo un coltello per tentare di staccarla.
Infilò la lama del coltello sotto la corona e fece leva con tutte le sue forze.

Provò e riprovò, sudando e sbuffando.

La lama del coltello si spezzò e anche la corda, troppo sollecitata, si staccò dal finestrone.
Il ladro si sarebbe sfracellato sul pavimento, ma il braccio del crocifisso si mosse e lo afferrò al volo.
Al mattino i sacrestani lo trovarono lassù, sano e salvo, tenuto saldamente (e affettuosamente) da Gesù crocifisso.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’uomo che voleva essere accolto in paradiso

L’uomo che voleva essere accolto in paradiso

Una volta un uomo bussò alla porta del cielo e chiese di essere accolto in paradiso!
“Puoi rimanere qui solo se torni sulla terra e porti la cosa più preziosa che trovi!” gli disse gentilmente un angelo.
Molto triste, l’uomo tornò sulla terra e si diede da fare finché riuscì ad entrare in possesso dei gioielli della corona del re Ciro.
E portò i magnifici gioielli della corona alla porta del cielo…

Ma gli angeli guardiani scossero la testa:

“Questo non significa niente qui!
Le nostre strade sono lastricate di pietre preziose.
Tutti i nostri muri sono fatti d’oro!
Non hanno alcun valore.
Questi non sono altro che cose comune qui!”
L’uomo se ne tornò triste sulla terra e ricominciò a cercare!
Visitando un museo scoprì, abbandonata in un angolo, la spada di Alessandro Magno.
La portò in paradiso.

Ma gli angeli inesorabili gli dissero:

“Tutto il potere della terra qui non significa niente!
Scendi di nuovo sulla terra e portaci qualcosa di veramente prezioso!”
L’uomo tornò sulla terra.
Cercò e cercò finché, nella vecchia biblioteca di un monastero, ormai ridotto ad un rudere, trovò i “detti” inediti della “sapienza” di Salomone.
Portò il suo tesoro in cielo.
“La saggezza del mondo non ha più senso, qui!” gli spiegarono gli angeli.
Così, tristemente, tornò di nuovo sulla Terra.
Studiò e studiò: camminò e camminò.
Provò di tutto!
Un giorno si sedette stremato sulla panchina di un piccolo giardino pubblico.
Era molto stanco!

Nella buca della sabbia i bambini giocavano.

La voce di un bambino lo scosse!
Aveva le lacrime agli occhi e le mani impiastricciate di sabbia:
“Signore non riesco a fare un tunnel, mi aiuti?”
L’uomo asciugò le lacrime del bambino e si inginocchiò nella sabbia.
Scavò finché non riuscì a costruire una galleria abbastanza resistente!
Il bambino riprese a far correre le sue palline colorate.
Proprio in quel momento l’uomo fu richiamato in cielo.
Mostrò le sue mani agli angeli guardiani!
Erano vuote tranne qualche traccia delle lacrime del bambino ed alcuni granelli di sabbia…
Era rassegnato ad un nuovo rifiuto, invece gli angeli sorrisero e spalancarono la porta mentre il coro dei “beati” intonava un grande “Alleluia!” di benvenuto!

Brano senza Autore

Il passero ed il girasole

Il passero ed il girasole

In una discarica abusiva, in un angolo abbandonato di una zona industriale di una città, era nato un girasole, che aveva fatto amicizia con un passero!
Il fiore era triste:
sognava un prato verde e farfalle svolazzanti.
“A che servo io qui?” si chiedeva.
Ma l’uccellino guardava il girasole, raggiante, a becco aperto:
“Come sei bello!
Sei meraviglioso!” trillava.
“Ci sono molte cose più belle!” rispondeva il saggio girasole, “Guardati intorno!”
Il buon passero si guardava diligentemente intorno, ma finiva sempre per voltarsi verso il girasole e pigolare con aria ammirata:

“Il più bello di tutti sei tu!”

Così, ogni giorno, il girasole prendeva coraggio e cresceva, tanto da troneggiare, ormai, sul mucchio di rifiuti.
La sua corona d’oro splendeva sempre di più!
Ma un giorno, al sorgere del sole, il fiore attese invano il suo piccolo amico.
Solo nel tardo pomeriggio sentì un pietoso pigolio ai suoi piedi!
Si piegò e vide il passero che si trascinava con un’ala ferita.
“Piccolo amico mio, che cosa ti è successo?” gli chiese.
“Un gabbiano mi ha colpito e da alcuni giorni non riesco a trovare niente da mangiare.
È la fine per me!” bisbigliò l’uccellino.
“No no!” urlò il girasole, “Aspetta un attimo!”
Il bel fiore scosse con vigore la sua grande corolla e una pioggia di semi scese sul passero.

“Mangiali, amico mio!

Ti daranno nuova forza!” disse il girasole.
Giorni dopo, il passero aveva ripreso vigore e, riconoscente, si voltò a guardare il girasole.
Ma fu ferito da una dolorosa sorpresa:
lo splendido fiore aveva perso i colori, le foglie penzolavano grigiastre e i petali erano terrei!
“Che cosa ti è successo bellissimo fiore?” pigolò.
“Il mio tempo è finito!” rispose il girasole.
“Ma me ne vado felice!
Per tanto tempo mi son chiesto quale crudele destino mi avesse fatto nascere in una discarica.

Ora ho capito:

sono stato un dono per te e ti ho ridato la vita!
Come tu sei stato un dono per me perché mi hai sempre incoraggiato.
Mangia tutti i semi che vuoi ma lasciane qualcuno!
Un giorno germoglieranno e, chissà, forse qui sorgerà una splendida aiuola!”

Brano senza Autore

Due sassolini azzurri

Due sassolini azzurri

Due sassolini, grossi sì e no come una castagna, giacevano sul greto di un torrente.
Stavano in mezzo a migliaia di altri sassi, grossi e piccoli, eppure si distinguevano da tutti gli altri.
Perché erano di un intenso colore azzurro.
Loro due sapevano benissimo di essere i più bei sassi del torrente e se ne vantavano dal mattino alla sera.
“Noi siamo i figli del cielo!” strillavano, quando qualche sasso plebeo si avvicinava troppo.
“State a debita distanza!
Noi abbiamo il sangue blu.
Non abbiamo niente a che fare con voi!”
Erano insomma due sassi boriosi e insopportabili.
Passavano le giornate a pensare che cosa sarebbero diventati, non appena qualcuno li avesse scoperti:
“Finiremo certamente incastonati in qualche collana insieme ad altre pietre preziose come noi!”

“Sul dito bianco e sottile di qualche gran dama!”

“Sulla corona della regina d’Olanda!”
Un bel mattino, mentre i raggi del sole giocavano con le trine di spuma dei sassi più grandi, una mano d’uomo entrò nell’acqua e raccolse i due sassolini azzurri.
“Evviva!” gridarono i due all’unisono, “Si parte!”
Finirono in una scatola di cartone insieme ad altri sassi colorati.
“Ci rimarremo ben poco!” dissero, sicuri della loro indiscussa bellezza.
Poi una mano li prese e li schiacciò di malagrazia contro il muro in mezzo ad altri sassolini, in un letto di cemento tremendamente appiccicoso.
Piansero, supplicarono, minacciarono.
Non ci fu niente da fare.
I due sassolini azzurri si ritrovarono inchiodati al muro.
Il tempo ricominciò a scorrere, lentamente.
I due sassolini azzurri erano sempre più arrabbiati e non pensavano che ad una cosa: fuggire.
Ma non era facile eludere la morsa del cemento, che era inflessibile e incorruttibile.

I due sassolini non si persero di coraggio.

Fecero amicizia con un filo d’acqua, che scorreva ogni tanto su di loro.
Quando furono sicuri della lealtà dell’acqua, le chiesero il favore che stava loro tanto a cuore. “Infiltrati sotto di noi, per piacere.
E staccaci da questo maledetto muro!”
Fece del suo meglio e dopo qualche mese i sassolini già ballavano un po’ nella loro nicchia di cemento.
Finalmente, una notte umida e fredda, Tac! Tac!:
i due sassolini caddero per terra.
“Siamo liberi!” esclamarono.
E mentre erano sul pavimento, lanciarono un’occhiata verso quella che era stata la loro prigione:
“Ooooh!”
La luce della luna che entrava da una grande finestra illuminava uno splendido mosaico.
Migliaia di sassolini colorati e dorati formavano la figura di Nostro Signore.
Era il più bel Gesù che i due sassolini avessero mai visto.
Ma il volto… il dolce volto del Signore, in effetti, aveva qualcosa di strano.

Sembrava quello di un cieco.

Ai suoi occhi mancavano le pupille!
“Oh, no!” I due sassolini azzurri compresero.
Loro erano le pupille di Gesù.
Chissà come stavano bene, come brillavano, come erano ammirati, lassù.
Rimpiansero amaramente la loro decisione.
Quanto erano stati insensati!
Al mattino, un sacrestano distratto inciampò nei due sassolini e, poiché nell’ombra e nella polvere tutti i sassi sono uguali, li raccolse e, brontolando, li buttò nel bidone della spazzatura.

Brano di Bruno Ferrero

Il regno dei fagioli

Il regno dei fagioli

Un re di un potente e prospero regno doveva la sua fortuna alla corona che portava in testa.
La indossava esclusivamente nelle cerimonie ufficiali.
I sudditi non avevano mai saputo da dove provenisse la corona e, per questa ragione, fantasticavano sulle origini della stessa.
La leggenda maggiormente tramandata era riferita ad un ordine cavalleresco, il quale aveva forgiato la corona con tutti i metalli della terra, provenienti dai quattro poli e, per questo, carica di magnetismo.

Questa leggenda era, inoltre,

alimentata da due differenti tabù, quello di non essere mai stata toccata dalle mani del volgo e quello di essere sempre tenuta ben dritta in capo dal regnante, pena la decadenza dei suoi effetti taumaturgici.
Avvenne che le cose del regno non andassero bene, con guerra e carestia all’orizzonte.
I dignitari di corte intuirono che era colpa del re che, ormai vecchio, non portava la corona in modo coretto; o troppo a destra o a sinistra del capo.
Per via degli atavici tabù e della superstizione, il re non tollerava alcuna illazione verbale su di essa, né che la corona venisse toccata da altre mani diverse dalle sue, essendone morbosamente legato.
Per questa ragione nessuno aveva il coraggio di segnalare e correggere l’anomalia di come venisse portata.

Neppure il giullare di corte osava tanto,

nonostante scherzasse pubblicamente sull’obesità del re.
I dignitari allarmati fecero un consiglio segreto per trovare una soluzione, ma non ne vennero a capo.
Decisero, quindi, di consultare l’ortolano di corte, nonché speziale, considerato uomo saggio e avveduto, chiedendogli se avesse qualche rimedio.
Questi propose, come unico espediente capace di raddrizzare la postura del re, di fargli mangiare in abbondanza fagioli alla vigilia delle cerimonie.
Una difficoltà era rappresentata dal fatto che i legumi non fossero previsti nella cucina reale, siccome da poco presenti nelle coltivazioni di quel regno.
Nonostante ciò, al re piacquero tantissimo i nuovi piatti a base di fagioli.
Non intuì mai che la flatulenza che sopraggiungeva in seguito ai pasti consumati era causata dagli zuccheri nobili contenuti in essi, noti per provocare fastidiosi gas intestinali con l’imbarazzante effetto collaterale del soffio dei peti.

I fagioli venivano fatti consumare al grasso re prima delle cerimonie ufficiali che,

trovandosi puntualmente in imbarazzo durante le stesse, era costretto ad assumere una posizione confacente al suo ruolo sul trono, raddrizzando la postura del corpo ed evitando così la caduta della corona, sistemata tempestivamente da lui stesso.
Fortuna e prosperità tornarono in quel regno, nel quale i fagioli divennero pietanza ufficiale apprezzata a corte e dai sudditi, tanto da chiamarsi in seguito “Fagiolandia”.
Il fastidioso disturbo dei legumi fu chiamato per scaramanzia “aria di festa”, dato che, in quel momento di difficoltà, i fagioli salvarono il regno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I fagioli corona

I fagioli corona

Nei primi anni del 1900, un levadese andò a Venezia con tre precisi scopi:
vedere per la prima volta il mare, visitare la basilica di San Marco e mangiare ed essere servito finalmente da gran signore, non badando a spese.
Giunta l’ora del pranzo, chiese informazioni e gli venne consigliato il ristorante migliore nonché il più costoso.
Quando il cameriere andò per la comanda, il levadese, in livrea, esclamò:

“Portatemi il piatto della casa!”

“Le porterò senza dubbio i corona che vanno a ruba!” rispose il cameriere facendo un inchino.
Si immaginò una portata degna di un re per aver evocato il nome “corona” ma grande fu la delusione quando gli furono serviti dei grossi fagioli bianchi lessi con una salsa verde al prezzemolo.
Li mangiò, con grande delusione e per fame, trovandoli meno pregiati dei suoi quotidiani borlotti di Levada.
Grande fu l’invidia per un vicino di tavola che stavo gustando una grande bistecca mostrando segni evidenti di soddisfazione.

Questi rivolgendosi al cameriere disse “bis”,

e poco dopo gli venne servita un’altra bistecca.
Vedendo questa scena, il buon paesano disse anche lui la magica parola “bis” per avere la agognata bistecca ma gli furono riportati gli odiati fagioli.
La parte che meno gradiva del piatto che gli avevano appena servito era la salsa al prezzemolo, siccome questa salsa gli faceva tornare in mente quando lui stesso dava abbondante prezzemolo ai suoi conigli, soprattutto quando questi erano ammalati.

Iniziò a porsi alcune domande:

“Che sembrasse anche lui ammalato?
Cosa non andava in lui?
Cosa racconterò al mio ritorno?”
Ma il povero contadino non riuscì a rispondere a nessuna delle tre.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’abbraccio del Signore

L’abbraccio del Signore

Nella bella cattedrale di Wùrzburg, in Germania, si trova una veneranda Croce del XIV secolo.
Il Signore ha le mani staccate dalla traversa e le tiene incrociate una sull’altra sul petto, avendo i chiodi ancora tra le dita.

Una leggenda racconta che un ladro incredulo,

vista la corona d’oro sulla testa del Re crocifisso, stese la mano per prenderla.
In quel preciso istante il Signore staccò le mani e i chiodi dalla croce, s’inchinò in avanti, abbracciò il ladro e lo accostò al suo cuore.
“Quali furono i pensieri che attraversarono la mente di quell’uomo?
Vergogna… pentimento… riconoscenza… desiderio di non staccarsi più da quell’abbraccio?”

Lo trovarono svenuto.

Da quel tempo Cristo non ha mai più riallargato le sue braccia, ma ha continuato a tenerle cosi, come sono ora, come se volesse sempre stringere al cuore l’uomo peccatore, guardandolo profondamente negli occhi, per donargli occhi capaci di vedere la sua gloria e il suo grande amore.

Brano tratto dal libro “Gesù insegnò in parabole 2° – Omelie per fanciulli ciclo C.” Editrice Domenicana Italiana.

Amare Dio ed amare gli altri

Amare Dio ed amare gli altri
(Una leggenda irlandese)

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi.
Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affiggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono.
Le caratteristiche richieste erano le seguenti:

“Amare Dio ed amare gli altri esseri umani.”

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani.
Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello.
Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente poté mettersi in viaggio alla volta del castello.
Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano:

“Ho fame e ho freddo.
Mi aiuti?”

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante.
Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste.
Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno.
All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente poté accedere nella sala del trono.
Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore:
“Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada!”
“Sì!” rispose il re, “Quel mendicante ero proprio io.”
“Ma non siete un vero mendicante.
Siete il re.” esclamò il giovane.

“Sì, sono il re!” spiegò.

“Perché avete fatto questo?” chiese, allora, il giovane.
“Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani.
Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.
Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore.
Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.
Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani.
Tu sarai il mio successore.
Tu avrai il mio regno!”

Brano tratto dal libro “Perché ho paura di essere pienamente me stesso. Alla scoperta della propria autoaffermazione.” di John Powell