Il vecchio mai stato giovane

Il vecchio mai stato giovane

C’era una volta un vecchio che non era mai stato giovane.
In tutta la sua vita, in realtà, non aveva mai imparato a vivere.
E non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.
Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere.
Tutto ciò che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva.
Passava le sue giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il cielo, l’immenso cristallo azzurro che, anche per lui, il Signore ogni giorno puliva con la soffice bambagia delle nuvole.

Qualche viandante lo interrogava.

Era così carico d’anni che la gente lo credeva molto saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza.
“Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?” chiedevano i giovani.
“La felicità è un’invenzione degli stupidi!” rispondeva il vecchio.
Passavano uomini dall’animo nobile, desiderosi di rendersi utili al prossimo.
“In che modo possiamo sacrificarci per aiutare i nostri fratelli?” chiedevano.
“Chi si sacrifica per l’umanità è un pazzo!” rispondeva il vecchio, con un ghigno sinistro.
“Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?” gli domandavano dei genitori.
“I figli sono serpenti!” rispondeva il vecchio, “Da essi ci si possono aspettare solo morsi velenosi!”
Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio che tutti credevano saggio.
“Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell’anima!” gli dicevano.

“Fareste meglio a tacere!” brontolava il vecchio.

Poco alla volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo.
Dal suo angolo squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano neanche gli uccelli, Pessimismo (perché questo era il nome del vecchio malvagio) faceva giungere un vento gelido sulla bontà, l’amore, la generosità che, investiti da quel soffio mortifero, appassivano e seccavano.
Tutto questo dispiacque molto al Signore, che decise di rimediare.
Chiamò un bambino e gli disse:
“Va’ a dare un bacio a quel povero vecchio!”
Il bambino obbedì.
Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia rugosa.

Per la prima volta il vecchio si stupì.

I suoi occhi torbidi divennero di colpo limpidi.
Perché nessuno lo aveva mai baciato.
Così aperse gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.

A volte, davvero, basta un bacio.
Un “Ti voglio bene”, anche solo sussurrato.
Un timido “Grazie.”
Un apprezzamento sincero.
È così facile far felice un altro.
Allora, perché non lo facciamo?

Brano di Bruno Ferrero

La favola del re Trentatré

La favola del re Trentatré

C’era una volta un re che si chiamava Trentatré.
Un giorno Trentatré pensò che un re deve essere giusto con tutti.
Chiamò Sberleffo, il buffone di corte:
“Io voglio essere un re giusto,” disse Trentatré al suo buffone, “così sarò diverso dagli altri e sarò un bravo re.”
“Ottima idea maestà!” rispose Sberleffo con uno sberleffo.

Contento dell’approvazione il re lo congedò.

“Nel mio regno,” pensò il re, “tutti devono essere uguali e trattati allo stesso modo.”
In quel momento Trentatré decise di cominciare a creare l’uguaglianza nel suo palazzo reale.
Prese il canarino dalla gabbia d’argento e gli diede il volo fuori dalla finestra:
il canarino ringraziò e sparì felice nel cielo.
Soddisfatto della decisione presa, Trentatré afferrò il pesce rosso nella vasca di cristallo e fece altrettanto, ma il povero pesce cadde nel vuoto e morì.

Il re si meravigliò molto e pensò:

“Peggio per lui, forse non amava la giustizia.”
Chiamò il buffone per discutere il fatto.
Sberleffo ascoltò il racconto con molto rispetto, poi gli consigliò di cambiare tattica.
Trentatré, allora, prese le trote dalla fontana del suo giardino e le gettò nel fiume:

le trote guizzarono felici.

Poi prese il merlo dalla gabbia d’oro e lo tuffò nel fiume, ma questa volta fu il merlo a rimanere stecchito.
“Stupido merlo,” pensò Trentatré, “non amava l’uguaglianza.”
E chiamò di nuovo il buffone Sberleffo per chiedergli consiglio.
“Ma insomma!” gridò stizzito il re, “Come farò a trattare tutti allo stesso modo?”
“Maestà,” disse Sberleffo, “per trattare tutti allo stesso modo bisogna, prima di tutto, riconoscere che ciascuno è diverso dagli altri.
La giustizia non è dare a tutti la stessa cosa, ma dare a ciascuno il suo!”

Brano tratto da “Progetto Calamaio” di Claudio Imprudente

Sean e la mucca

Sean e la mucca

In un piccolo pesino dell’Irlanda vivevano una volta un figlio e una madre molto poveri.
Sean che era ancora un ragazzetto, non solo doveva lavorare tutto il giorno ma per arrotondare faceva anche delle scope che poi vendeva al mercato.
Ogni giorno portava a pascolare l’unica mucca che possedevano, e questa dava ogni giorno latte fresco.
Una bella mattina, Sean decise di raccogliere erica per intrecciare e fabbricare nuove scope, e così seguito dalla mucca si spinse oltre il bosco.
Ad un certo punto sentendosi stanco decise di riposarsi in una piccola valletta.
Si sdraiò e d’improvviso vide che tutto il prato era pieno di folletti che cantavano e che giocavano allegramente:

“Beati voi come siete contenti.

Io invece devo lavorare tutto il giorno e non ho mai tempo per giocare.”
“Vieni, vieni a giocare e ci divertiremo.” risposero i folletti.
“Oh grazie,” rispose Sean, “e a che cosa giochiamo?”
“A calcio,” rispose uno dei folletti, “tu stai in porta.”
E così cominciarono a giocare.
Tutto andò per il meglio finché arrivò una pallonata giusto in faccia al ragazzo e per cinque minuti non poté vedere niente.
Tutti gli elfi ridevano a crepapelle, e se ne andarono correndo per il prato.
Quando Sean recuperò la vista, non trovò più la sua mucca e subito pensò che si era persa nel bosco.

Tornò a casa e raccontò quanto era successo alla madre.

Il giorno dopo madre e figlio andarono subito alla ricerca della mucca e solo dopo lunghe ore di ricerca la trovarono morta in un dirupo.
La madre si disperò molto, e si sentiva perduta senza quella mucca che almeno le dava il latte.
Passò del tempo…
Una bella mattina Sean stava intrecciando dell’erica per le scope quand’ecco che scorse due elfi che pascolavano una mucca.
La guardò e la riguardò e ben presto si accorse che quella era la sua mucca.
Si avvicinò le saltò in groppa e la mucca indispettita cominciò a dimenarsi e a correre giù per il prato con i due elfi attaccati alla coda.
E la mucca correva e correva e arrivò nei pressi del lago, e sempre più vicino alla riva, e sempre più vicino all’acqua… finché non si immersero nell’acqua!
Il ragazzo stava dicendo le sue ultime preghiere quando scorse nel fondo del mare un palazzo di cristallo.
Entrarono e scorsero moltissime dame e cavalieri che erano nella sala principale.
Subito gli venne incontro il re.
“Lei si è impossessato della mia mucca!” disse il ragazzo.
“No caro ragazzo questa è la mia mucca, l’ho comprata da due elfi.” rispose il re.
Il ragazzo allora raccontò tutta la storia, ed il re che era un uomo buono propose al ragazzo un borsa piene di monete d’oro in cambio della sua mucca che faceva un ottimo latte.
“Niente affatto,” continuò il ragazzo, “io sono per le cose giuste, quindi rendetemi la mucca di mia madre e io toglierò il disturbo.”

Il re sbalordito per questo rifiuto disse:

“Come puoi rifiutare un’offerta del genere, la mucca è indispensabile qui a corte.
Con il suo latte macchiamo sempre il te delle sei.”
“E a me sicuramente servirà di più, perché noi lassù siamo molto poveri.” esclamò il ragazzo.
Il re commosso da tanta onestà gli concedette la mucca e gli regalò un sacchetto pieno di monete d’oro.
Ma il ragazzo rifiutò: “Penseranno tutti che li ho rubati.
Teneteli pure!”
“Mi sento in torto nei tue confronti ragazzo per cui ti faccio una proposta:
ogni giorno verso le cinque porterai in riva al lago un secchio pieno di latte di mucca e noi lo pagheremo per quanto per noi vale.” concluse il re.
Contento e soddisfatto Sean ritornò a casa e raccontò quello che era successo alla madre che credeva che suo figlio fosse diventato pazzo.
Così il ragazzo la dovette portare in riva al lago e quando vide due folletti uscire dal lago con due pacchettini pieni di monete d’oro restò molto meravigliata.
Così finisce questa storia, Sean si guadagnò sempre onestamente da vivere e visse ancora per molti anni con la sua mamma.

Favola Irlandese.
Brano senza Autore, tratto dal Web

Michele di Cristallo. Il bambino trasparente.

Michele di Cristallo.
Il bambino trasparente.

Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente.
Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l’aria e l’acqua.
Era di carne ed ossa e pareva di vetro.
Se cadeva non andava a pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente.
Si poteva vedere il suo cuore battere.
Soprattutto si vedevano i suoi pensieri.
Una volta, per sbaglio, il bambino disse una bugia, e subito la gente poté vedere quella che sembrava essere una palla di fuoco dietro la sua fronte.

Disse poi la verità e la palla di fuoco si dissolse.

Per tutto il resto della sua vita il bambino trasparente non disse più bugie.
Crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo.
Ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e, prima che aprisse bocca, si potevano indovinare le sue risposte, quando gli si rivolgeva una domanda.
Egli si chiamava Michele, ma la gente lo chiamava Michele di cristallo.
Tutti gli volevano bene per la sua lealtà e per la sua onestà.
Vicino a lui tutti diventavano gentili.
Purtroppo, in quel paese, salì al governo un feroce dittatore.
Cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo.

Chi osava protestare spariva senza lasciare traccia.

Chi si ribellava veniva fucilato.
I poveri erano perseguitati, umiliati e offesi in cento modi.
La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze.
Ma Michele non poteva tacere.
Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui.
Dietro la fronte di quello che una volta era il bambino trasparente, tutti leggevano pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno.
Di nascosto poi, la gente ripeteva i pensieri di Michele come modo per avere speranza nel futuro.

Il tiranno fece arrestare Michele di cristallo.

Poi ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
Allora successe una cosa straordinaria.
I muri della cella in cui Michele fu rinchiuso, diventarono trasparenti!
Dopo di essi anche i muri dell’intero edificio, e infine anche le mura esterne.
La gente che passava vicino alla prigione poteva vedere Michele seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo.
Tutti continuavano a leggere i suoi pensieri.
Di notte la prigione emanava una grande luce.
Il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire.
Michele di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Le due sorgenti (Dare)

Le due sorgenti (Dare)

La montagna si eleva verso il sole.
Ma la montagna pesa, è fatta di sassi.
In qualche recesso delle sue viscere nacquero un giorno due piccole sorgenti d’acqua limpida che cercavano di uscire all’aperto.
Ma la montagna non cedeva.
Le opprimeva, le soffocava.
Durò un bel pò di tempo, finché, facendosi largo a poco a poco, le sorgenti riuscirono a venire alla luce ai piedi della montagna.
Com’erano stanche!
Ma non c’era tempo per riposarsi.
Appena erano scaturite dalla terra sentirono delle grida provenire dal muschio, dall’erba, dai fiorellini, dalle rose alpine:

“Dateci da bere! Dateci da bere!”

“Fossi matta!” disse la prima sorgente “Ho faticato senza sosta laggiù sottoterra, mentre voi, pigri, ve ne stavate al sole.
Non vi darò proprio niente!”
“Non ci darai niente?” disse il muschio piccato “E allora noi non ti lasceremo passare!”
“Ti sbarreremo la strada con le nostre numerose radici!” dichiarò l’erba.
“Ti copriremo, così nessuno ti troverà!” minacciarono i cespugli di rose alpine e di rovo.
La seconda sorgente fu più condiscendente.
“Bevi, sorella erba, però fatti da parte perchè io possa proseguire il mio cammino!”
Bevvero un poco anche i cespugli ma si tennero fuori dalla corrente.
Il muschio succhiò l’acqua soltanto da una parte.
“A me basta solo inumidire la radice.” disse la rosa alpina.

“Corri pure avanti!”

La sorgente correva…
Dava da bere a tutte le piante e tutte le cedevano il passo.
E siccome correva molto rapidamente, la gola della montagna dalla quale usciva si puliva e si allargava sempre più.
La sua acqua era fresca e limpida come cristallo.
Rotolava giù dalla montagna nella valle, saltando sopra i sassi, bagnando i prati, lambendo le radici dei salici e più si dava a tutti e più diventava forte e impetuosa.
Lei stessa non sapeva come.
Le piante l’amavano e lasciavano che altre sorgenti s’unissero a lei.
Così essa divenne un grande fiume nel quale vivevano numerosissimi pesci e navigavano tanti battelli.
Alla fine arrivò al mare.
Quando giunse alla foce, l’azzurro padre Oceano la prese fra le sue braccia e la baciò sulla fronte.

“E tua sorella?

Dov’è tua sorella sorgente?” chiese.
“Ah, padre!
Purtroppo è diventata paludosa, marcia e puzzolente!” rispose la sorgente.
“Così è la vita, figliola mia!” disse il padre Oceano.
“Tua sorella non voleva dare agli altri ciò che aveva ricevuto.
Vedi?
Anch’io oggi ti ricevo in restituzione del vapore che da me è salito verso la montagna.
La vita è dare.
Tenere per se è la morte!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La favola del fiocco di neve

La favola del fiocco di neve

In un tempo lontano, nel posto più freddo mai esistito, vivevano tre giovani fate, tanto belle quanto il sole.
Candida, Bianca e Cristallo non potevano uscire dal Palazzo di Ghiaccio dove la madre apprensiva, la Regina del Freddo, le aveva relegate per proteggerle dal mondo esterno, ai suoi occhi troppo triste, pieno di preoccupazioni e sofferenza.

Si deve sapere che la regina, nel passato aveva,

già vissuto nel mondo reale, e proprio lì aveva conosciuto l’uomo che le avrebbe fatto scoprire prima l’amore, regalandole la gioia di diventare madre, poi il dolore e la tristezza di essere abbandonata.
Per nascondere il mondo esterno alle figlie, fece costruire un palazzo sulla cima di una montagna irraggiungibile dove non batteva mai il sole, circondandolo da una fitta coltre di nebbia, vietando loro qualsiasi contatto con l’ambiente reale.
Le tre sorelle non avevano mai avuto la possibilità di vedere posti nuovi e conoscere altre persone.

Non avevano amici con cui passare il tempo e divertirsi.

Eppure tante volte avevano sperato che succedesse qualcosa di diverso, avevano sognato di essere libere.
Una notte, mentre la madre dormiva, le tre sorelle decisero di scappare e andare in esplorazione del mondo a loro sconosciuto.
Arrivarono a valle, in un paesino di pochi abitanti che le accolsero con grande entusiasmo.
Candida, Bianca e Cristallo si sentirono finalmente libere, finalmente vive.
S’integrarono ben presto nella comunità, incontrarono l’affetto e l’amore di tante care persone, scoprirono che il mondo reale non era così triste e malvagio.
Anche se sentivano la mancanza della madre, non vollero più tornare nel Palazzo di Ghiaccio.

La regina non rivide più le sue figlie.

Pianse lacrime e lacrime, ma si rese conto che per la prima volta le figlie erano felici.
Decise quindi di non provare a farle tornare da lei, ma di proteggerle dall’alto della cima della montagna.
Rassegnata e triste, ma ancora con tanto amore per le figlie, fece un grande sospiro su una lacrima. Questa diventò candida, bianca e a forma di cristallo.
Chiamò quella lacrima fiocco di neve e lo regalò al mondo reale come simbolo di pace interiore e serenità.
Da allora d’inverno cade la neve.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto… è speciale.


Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto… è speciale.

Il mio amico aprì il cassetto del comodino di sua moglie e ne estrasse un pacchetto, avvolto in carta di riso:
“Questo,” disse, “non è un semplice pacchetto, è biancheria intima!”
Gettò la carta che lo avvolgeva e osservò la seta squisita ed il merletto.
“Lo comprò la prima volta che andammo a New York, 8 o 9 anni fa.
Non lo usò mai.
Lo conservava per un’occasione speciale.
Bene, credo che questa sia l’occasione giusta.”
Si avvicinò al letto e collocò il capo vicino alle altre cose che avrebbe portato alle pompe funebri.
Sua moglie era appena morta.

Girandosi verso di me disse:

“Non conservare niente per un’occasione speciale, ogni giorno che vivi è un’occasione speciale!”
Sto ancora pensando a queste parole che hanno cambiato la mia vita.
Adesso leggo di più e pulisco di meno.
Mi siedo in terrazzo e ammiro il paesaggio senza fare caso alle erbacce del giardino.
Passo più tempo con la mia famiglia e con gli amici e meno tempo lavorando.
Ho capito che la vita deve essere un insieme di esperienze godere, non per sopravvivere.
Ormai non conservo più nulla, uso i miei bicchieri di cristallo tutti i giorni.

Metto la giacca nuova per andare al supermercato, se decido così e ne ho voglia.

Ormai non conservo il mio miglior profumo per le feste speciali, lo uso ogni volta che voglio farlo.
Le frasi “un giorno…” e “uno di questi giorni…” stanno scomparendo dal mio vocabolario.
Se vale la pena vederlo, ascoltarlo o farlo adesso.
Non sono sicuro di cosa avrebbe fatto la moglie del mio amico, se avesse saputo che non sarebbe stata qui per il domani che tutti prendiamo tanto alla leggera.
Credo che avrebbe chiamato i suoi familiari e i suoi amici intimi.
Magari avrebbe chiamato alcuni vecchi amici per scusarsi e fare la pace per una possibile lite passata.

Mi piace pensare che sarebbe andata a mangiare cibo cinese, il suo preferito.

Sono queste piccole cose non fatte che mi infastidirebbero, se sapessi che le mie ore sono contate.
Infastidito perché smisi di vedere buoni amici con i quali mi sarei messo in contatto “un giorno!”
Infastidito perché non scrissi certe lettere che avevo intenzione di scrivere “uno di questi giorni…”
Triste ed infastidito perché non dissi ai miei fratelli e ai miei figli, con sufficiente frequenza, quanto li amo.
Adesso cerco di non ritardare, trattenere o conservare niente che aggiungerebbe risate e allegria alle nostre vite.
E ogni giorno dico a me stesso che questo è un giorno speciale.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto… è SPECIALE.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’Usignolo e la Rosa. (L’Usignolo e l’Amore)


L’Usignolo e la Rosa.
(L’Usignolo e l’Amore)

Un giovane studente si lamentava poiché nel proprio giardino non c’era una sola rosa rossa.
Ah, da quali sciocchezze dipende la felicità!
Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ma nonostante ciò la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita!
“La donna che amo ha detto che ballerà con me solo se le porterò delle rose rosse, ma in tutto il giardino non c’è una sola rosa rossa!”
Anche l’usignolo lo ascoltava commosso.
“Il principe dà un ballo domani sera!” singhiozzava ad alta voce l’uomo “Io e lei siamo stati invitati.
Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba.
Ma non v’è rosa rossa nel mio giardino, e così me ne starò tutto solo e lei mi passerà davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Non si curerà di me e il mio cuore si spezzerà.”
“Ecco uno che sa veramente amare!” disse l’usignolo “Quello che io canto, egli lo soffre:
quello che per me è gioia, per lui è dolore.

L’amore è una cosa meravigliosa:

è più prezioso di smeraldi e diamanti.
Non si può comprare con perle e pietre preziose.
Non è venduto al mercato; non ci sono mercanti o bilance per l’amore.”
“Ballerà con tutti, ma non con me.
Perché non ho da offrire una rosa rossa!” si disperò l’uomo buttandosi nell’erba e coprendo il proprio viso con le mani.
“Perché piange?” chiese una lucertolina marrone, passandogli accanto di corsa, con la coda in aria.
“Già, perché piange?” chiese una farfalla che svolazzava dietro a un raggio di sole.
“Sì, perché?” sussurrò una primula alla sua vicina con una voce dolce, sommessa.
“Piange per una rosa rossa!” rispose l’usignolo.
“Per una rosa rossa?” esclamarono “Che cosa ridicola!”
La lucertolina, che era un po’ cinica, sghignazzò senza ritegno.
Ma l’usignolo capiva il segreto del dolore dell’uomo e se ne stette silenzioso, sulla quercia, a riflettere sul mistero del dolore.

D’un tratto spalancò le ali brune e si librò in aria.

Attraversò il boschetto come un’ombra, e come un’ombra veleggiò attraverso il giardino.
Al centro del prato c’era un bel rosaio, e quando lo vide l’usignolo si posò su uno dei suoi rami.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono bianche!” rispose “Bianche come la spuma del mare, e più bianche della neve sui monti.
Ma va’ da mio fratello, che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò fino al rosaio che cresceva intorno alla vecchia meridiana.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Ma il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono gialle!” rispose “Gialle come l’asfodelo che fiorisce nei campi, gialle come grano.
Ma va’ da mio fratello che fiorisce sotto la finestra dell’uomo, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò al rosaio che cresceva sotto la finestra dell’uomo.
“Dammi una rosa rossa,” esclamò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni.”

Ma il rosaio scosse i rami.

“Le mie rose sono rosse,” rispose “più rosse del corallo.
Ma l’inverno mi ha gelato le vene, la neve mi ha distrutto i germogli e la tempesta mi ha spezzato i rami: non avrò nemmeno una rosa”.
“Una rosa rossa è tutto quello che voglio!” gridò l’usignolo “Solo una rosa rossa!
Non esiste un modo per procurarmela?”
“Una maniera c’è,” rispose il rosaio “ma è così terribile che non ho il coraggio di dirtela!”
“Dimmela,” disse l’usignolo “io non ho paura”.
“Se vuoi una rosa rossa,” disse il rosaio “devi tingerla con il tuo sangue.
Devi cantare per me col petto contro una delle mie spine.
Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggerti il cuore,
e il tuo sangue deve scorrere nelle mie vene e diventare mio.”
“La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa!” disse l’usignolo “La vita è bella e cara tutti.
Eppure l’amore è più grande della vita.
E che cos’è mai il cuore di un uccello in confronto al cuore di un uomo?”
Si librò in volo e ritornò dall’uomo, che continuava a disperarsi.
“Sii felice!” gli gridò l’usignolo “Sii felice!

Avrai la tua rosa rossa.

La tingerò io con il sangue del mio cuore.
In cambio ti chiedo solo di essere sincero nel tuo amore.”
L’uomo alzò il capo, ma naturalmente non capiva nulla di quello che l’usignolo diceva.
Ma la quercia capì e si rattristò, perché amava molto l’usignolo che aveva costruito il proprio nido in mezzo ai suoi rami.
“Cantami un’ultima canzone,” sussurrò “sarò tanto sola quando tu non ci sarai più!”
L’usignolo cantò per la quercia e la sua voce sembrava acqua zampillante da una fonte d’argento.
L’uomo se ne andò, sbuffando:
“L’usignolo ha una bella voce, ma certamente nessun sentimento.
Pensa solo al canto, alle belle note.
Non gliene importa niente degli altri.

Sono tutti così gli artisti!”

Andò nella sua stanza, si distese sul letto e, pensando alla sua amata, si addormentò.
Quando in cielo si accese la luna, l’usignolo volò al roseto e mise il petto contro una spina.
Tutta la notte cantò, col petto contro la spina.
Anche la fredda luna di cristallo si chinò e ascoltò.
Tutta la notte cantò, e la spina gli penetrò sempre più profondamente nel petto, mentre il sangue della vita scorreva via.
Sbocciò una rosa meravigliosa, rossa come il sole d’oriente, rossa più di un rubino.
Ma la voce dell’usignolo si affievolì.
Le sue piccole ali cominciarono a tremare e un velo di dolore gli annebbiò gli occhi.
La sua voce meravigliosa si spense in un’ultima esplosione di trilli, mentre la rosa meravigliosa spalancava i petali alla fredda aria del mattino.
“Guarda, guarda!” gridò il rosaio.
“La rosa è finita ora!”
Ma l’usignolo non rispose, perché giaceva morto nell’erba alta.
A mezzogiorno, l’uomo aprì la finestra e guardò fuori.
“Ehi, ma che fortuna incredibile!” esclamò.
“Qui c’è una rosa rossa!
Non ho mai visto una rosa così in tutta la vita.
Così bella che di sicuro deve avere un lungo nome latino!”

Si spenzolò dalla finestra e la colse.

Poi corse alla casa della donna dei suoi sogni con la rosa in mano.
“Hai detto che avresti ballato con me se ti avessi portato una rosa rossa!” esclamò l’uomo.
“Ecco la rosa più rossa del mondo.
La porterai stasera sul cuore, e quando balleremo insieme ti dirò quanto ti voglio bene!”
Ma la donna si accigliò.
“Non mi serve più.
Non si intona con il mio vestito.
E poi il nipote del banchiere mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto più dei fiori!”
“Sei solo un’ingrata!” disse rabbioso l’uomo.
E gettò la rosa nella strada.
La rosa rossa finì in una pozzanghera e la ruota di un carro la schiacciò.
“L’amore non esiste!” concluse l’uomo.
E tornò a casa.
Si chiuse dentro la sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.

Brano tratto dal libro “Il principe felice e altri racconti.” di Oscar Wilde

Non sono il principe azzurro, ma…



Non sono il principe azzurro, ma…

Non sono il principe azzurro, ma azzurro è il colore della vita che vorrei vivere e far vivere a te.
Non sono nemmeno un principe, ma vorrei che tu fossi la mia principessa.
Non arrivo su un cavallo bianco, ma a cavallo della realtà.
Non sono nemmeno capace di andare a cavallo, ma vorrei galoppare insieme a te, tra le bellezze della vita.

Non ho una reggia, ma mi piacerebbe farti vivere da regina.

Non so nemmeno come sia fatta una reggia, ma ci sto lavorando.
Non sono un rospo, ma se mi baci potrebbe piacerti e, anzi, ti garantisco che dopo non mi trasformerò.
Non ho una scarpetta da farti provare, ma il mio carattere non spigoloso potrebbe calzarti a pennello.
Non ti troverai a mezzanotte con una zucca vuota, ma avrai sempre, vicino a te, una testa pensante.

Non ti offro una mela avvelenata, ma momenti felici da assaporare insieme.

Non sto nemmeno a chiederti di dare un morso alla mela verde, di verdi ci sono solo i miei occhi.
Non ti terrei sotto una teca di cristallo a dormire, ma sarei fiero di averti vicina a me, sveglia.
Non ti cerco la più bella del reame, mi basta crederlo.
Non ti chiedo di guardarti nello specchio come la regina cattiva, ma di guardare insieme a me, nella stessa direzione.

Non mi interessa se hai delle sorellastre perfide, un giorno ti invidieranno.

Non mi interessa nemmeno della tua matrigna cattiva, mi basta sapere che non hai preso da lei.
Non sono nemmeno geloso dei sette nani, il più è che non ti fai influenzare da Brontolo.
Non ho i poteri magici della vecchia strega, ma potrai sempre chiedermi di sparire, se non sono come ti ho detto.
Io non so se cerco una bella addormentata nel bosco o una cenerentola, ma la vita è una fiaba che può essere bella o brutta.
Può dipendere dai brutti incontri che si fanno nel bosco, dalle mele avvelenate che a volte tocca mangiare o proprio da chi ha scritto la fiaba e io vorrei viverla insieme a te, possibilmente felici e contenti.

Brano di Enrico Sunda