Le cose che ho imparato nella vita

Le cose che ho imparato nella vita

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

  • Non importa quanto buona sia una persona, ogni tanto ti ferirà.
    E per questo bisognerà che tu la perdoni.
  • Ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
  • Non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
  • Le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
  • Dovrai essere tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
  • Gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
  • La pazienza richiede molta pratica.
  • Ci sono persone che ci amano profondamente, ma semplicemente non sanno come dimostrarlo.
  • A volte la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
  • Solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
  • Non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
  • Non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno.
    Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
  • Non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma aspettando che tu lo ripari.
  • Forse Dio vuole che incontriamo un po’ di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così, quando finalmente la incontreremo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
  • Quando la porta della felicità si chiude, un’altra si apre,

    ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

  • La miglior specie d’amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se sia stata la miglior conversazione mai avuta.
  • È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
  • Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un’ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
  • Non cercare le apparenze: possono ingannare.
    Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
  • Cerca qualcuno che ti faccia sorridere, perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante una giornataccia.
  • Trova la persona che faccia sorridere il tuo cuore.
  • Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
  • Sogna ciò che ti va, vai dove vuoi, sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
  • Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
  • Mettiti sempre nei panni degli altri.
    Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
  • Le più felici delle persone non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
  • L’amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un the.
  • Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
  • Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano.
    Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange.
Brano di Paulo Coelho

Il professore e le domande su Dio

Il professore e le domande su Dio

Germania, primi anni del XX secolo.
Durante una conferenza tenuta per gli studenti universitari, un professore ateo dell’Università di Berlino lanciò una sfida ai suoi alunni con la seguente domanda:
“Dio ha creato tutto quello che esiste?”
Uno studente diligentemente rispose:
“Sì! Certo!”
“Allora Dio ha creato proprio tutto?” replicò il professore
“Certo!” affermò lo studente

Il professore rispose:

“Se Dio ha creato tutto, allora Dio ha creato il male, poiché il male esiste e, secondo il principio che afferma che noi siamo ciò che produciamo, allora Dio è il Male!”
Gli studenti ammutolirono a questa asserzione.
Il professore, piuttosto compiaciuto con se stesso, si vantò con gli studenti che aveva provato per l’ennesima volta che la fede religiosa era un mito.
Un altro studente alzò la sua mano e disse:
“Posso farle una domanda, professore?”
“Naturalmente!” replicò il professore.
Lo studente si alzò e disse:
“Professore, il freddo esiste?”
“Che razza di domanda è questa?
Naturalmente, esiste!
Hai mai avuto freddo?”
Gli studenti sghignazzarono alla domanda dello studente.

Il giovane replicò:

“Infatti signore, il freddo non esiste.
Secondo le leggi della fisica, ciò che noi consideriamo freddo è in realtà assenza di calore.
Ogni corpo od oggetto può essere studiato solo quando possiede o trasmette energia ed il calore è proprio la manifestazione di un corpo quando ha o trasmette energia.
Lo zero assoluto (-273 °C) è la totale assenza di calore; tutta la materia diventa inerte ed incapace di qualunque reazione a quella temperatura.
Il freddo, quindi, non esiste.
Noi abbiamo creato questa parola per descrivere come ci sentiamo… se non abbiamo calore!”
Lo studente continuò:
“Professore, l’oscurità esiste?”
Il professore rispose:
“Naturalmente!”

Lo studente replicò:

“Ancora una volta signore, è in errore, anche l’oscurità non esiste.
L’oscurità è in realtà assenza di luce.
Noi possiamo studiare la luce, ma non l’oscurità.
Infatti possiamo usare il prisma di Newton per scomporre la luce bianca in tanti colori e studiare le varie lunghezze d’onda di ciascun colore.
Ma non possiamo misurare l’oscurità.
Un semplice raggio di luce può entrare in una stanza buia ed illuminarla.
Ma come possiamo sapere quanto buia è quella stanza?
Noi misuriamo la quantità di luce presente.
Giusto?
L’oscurità è un termine usato dall’uomo per descrivere ciò che accade quando la luce non è presente!”
Finalmente il giovane chiese al professore:
“Signore, il male esiste?”

A questo punto, titubante, il professore rispose:

“Naturalmente, come ti ho già spiegato.
Noi lo vediamo ogni giorno.
È nella crudeltà che ogni giorno si manifesta tra gli uomini.
Risiede nella moltitudine di crimini e di atti violenti che avvengono ovunque nel mondo.
Queste manifestazioni non sono altro che male!”
A questo punto lo studente replicò:
“Il male non esiste, signore, o almeno non esiste in quanto tale.
Il male è semplicemente l’assenza di Dio.
È proprio come l’oscurità o il freddo, è una parola che l’uomo ha creato per descrivere l’assenza di Dio.
Dio non ha creato il male.
Il male è il risultato di ciò che succede quando l’uomo non ha l’amore di Dio presente nel proprio cuore.
È come il freddo che si manifesta quando non c’è calore o l’oscurità che arriva quando non c’è luce!”
Il giovane fu applaudito da tutti in piedi e il professore, scuotendo la testa, rimase in silenzio.
Il rettore dell’Università si diresse verso il giovane studente e gli domandò:
“Qual è il tuo nome?”
“Mi chiamo Albert Einstein, signore!” rispose il ragazzo.

Aneddoto attribuito ad Albert Einstein

Dov’è finita la stella cometa?

Dov’è finita la stella cometa?

Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all’asino.
Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.
“La nostra missione è compiuta!” disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. “Torniamo a casa!” esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco, “Guardate!
La stella continua a guidarci.” annunciò Baldassarre.
La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente.
La corte dei Magi si avviò serpeggiando attraverso il deserto di Giudea.
La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri.
Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile.
Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.
Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo.

Era scomparsa.

“La nostra stella non c’è più!” si lamentò Melchiorre, “Non l’abbiamo nemmeno salutata.”
C’era una sfumatura di pianto nella sua voce.
“Pazienza!” ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico, “Adesso possiamo cavarcela da soli.
Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio!”
Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella.
Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c’era proprio più.
“Dove sarà andata?” domandò, deluso.

Nessuno rispose.

In silenzio, ripresero al marcia verso Oriente.
La silenziosa carovana si trovò presto ad un incrocio di piste.
Qual era quella giusta?
Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore.
Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera.
Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire, poi con semplicità offrì a tutti latte e formaggio.
In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.
I Magi ripartirono pensierosi.
Dopo un po’, incontrarono un villaggio.
Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino.
Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise.

Cominciava a capire.

Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno ad uno dei suoi dromedari che era caduto e aveva disperso il carico all’intorno.
Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia.
Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.
“Adesso so dov’è finita la nostra stella!” esclamò Baldassarre in tono acceso, “È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c’è un cuore buono e generoso!”
Melchiorre approvò:
“La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino:
ciò che conta è l’amore.”
“I gesti concreti dell’amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa.” concluse Gaspare.
E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d’avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.
Ci sono uomini e donne che conservano in sé un frammento di stella cometa.
Si chiamano cristiani.

Brano tratto dal libro “L’iceberg e la duna.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Sorridi…

Sorridi…

… al sole che illumina la terra e fa germogliare la vita.
… al passero che si posa sul tuo davanzale in cerca di poche briciole.
… al vecchio che ti regala i suoi saggi consigli e aiuta la sua mano tremante, ti benedirà.

Sorridi…

… all’amico quando cerca il tuo sguardo, ti chiede aiuto e sicurezza.
… all’ammalato senza speranza, il tuo sorriso sarà per lui la medicina più preziosa.
… al sorgere di ogni nuovo giorno perché è un dono di Dio.

Sorridi…

… al timido bocciolo di un fiore, anch’esso ti annuncia il miracolo della vita.
… al frastuono dei bimbi, essi sono la speranza di un mondo migliore.
… all’amore in qualunque forma si manifesti, esso vince il tempo e lo spazio.

Sorridi…

… davanti alle meschinità della gente senz’anima, il tuo sorriso forse le farà ricredere.
… quando ascolti note armoniose, la musica è linguaggio universale.
… al tuo fratello dalla pelle più colorata, è in tutto simile a te.
… e troverai la pace nel tuo cuore e in quello degli altri.

Brano di Ishak Alioui

I Re Magi dimenticati

I Re Magi dimenticati

I ragazzi dell’oratorio di Santa Maria avevano preparato una recita sul mistero del Natale.
Avevano scritto le battute degli angeli, dei pastori, di Maria e di Giuseppe.
C’era una particina perfino per il bue e l’asino.
Avevano distribuito le parti.
Tutti volevano fare Giuseppe e Maria.
Nessuno voleva fare la parte dell’asino.
Avevano così deciso di travestire da asino il cane di Lucia.

Era abbastanza grosso e pacifico:

con le orecchie posticce faceva un asinello passabile.
Purché non sì fosse messo ad abbaiare in piena scena…
Ma quando suor Renata vide le prove dello spettacolo sbottò:
“Avete dimenticato i Re Magi!”
Enzo, il regista, si mise le mani nei capelli.
Mancava solo un giorno alla rappresentazione.
Dove trovare tre Re Magi così su due piedi?
Fu don Pasquale, il vice parroco, a trovare una soluzione.
“Cerchiamo tre persone della parrocchia.” disse, “Spieghiamo loro che devono fare i Re Magi moderni, vengano con i loro abiti di tutti i giorni e portino un dono a Gesù Bambino.
Un dono a loro scelta.
Tutto quello che devono fare è spiegare con franchezza il motivo che li ha spinti a scegliere proprio quel particolare dono.”

La squadra dei ragazzi si mise in moto.

Nel giro di due ore, erano stati trovati i tre Re Magi.
La sera di Natale, il teatrino parrocchiale era affollato.
I ragazzi ce la misero tutta e lo spettacolo filò via liscio e applaudito.
Il cane-asino si addormentò e la barba di san Giuseppe non si staccò.
Senza che nessuno lo potesse prevedere, però, l’entrata in scena dei tre Re Magi divenne il momento più commovente della serata.
Il primo Re era un uomo di cinquant’anni, padre di cinque figli, impiegato del municipio.
Portava in mano una stampella.
La posò accanto alla culla del Bambino Gesù e disse:
“Tre anni fa ho avuto un brutto incidente d’auto.
Uno scontro frontale.
Fui ricoverato all’ospedale con parecchie fratture.

I medici erano pessimisti sul mio recupero.

Nessuno azzardava un pronostico.
Da quel momento incominciai ad essere felice e riconoscente per ogni più piccolo progresso:
poter muovere la testa o un dito, alzarmi seduto da solo e così via.
Quei mesi in ospedale mi cambiarono.
Sono diventato un umile scopritore di quanto sia bello ciò che possiedo.
Sono riconoscente e felice per le cose piccole e quotidiane di cui prima non mi accorgevo.
Porto questa stampella a Gesù Bambino in segno di riconoscenza.”
Il secondo Re era una “Regina,” madre di due figli.
Portava un catechismo.
Lo posò accanto alla culla del Bambino e disse:
“Finché i miei bambini erano piccoli e avevano bisogno di me, mi sentivo realizzata.
Poi i ragazzi sono cresciuti e ho incominciato a sentirmi inutile.
Ma ho capito che era inutile commiserarmi.
Chiesi al parroco di fare catechismo ai bambini.
Così ridiedi un senso a tutta la mia vita.

Mi sento come un apostolo, un profeta:

aprire ai nostri bambini le frontiere dello spirito è un’attività che mi appassiona.
Sento di nuovo di essere importante.”
Il terzo Re era un giovane.
Portava un foglio bianco.
Lo pose accanto alla culla del Bambino e disse:
“Mi chiedevo se fosse il caso di accettare questa parte.
Non sapevo proprio che cosa dire, né che cosa portare.
Le mie mani sono vuote.
Il mio cuore è colmo di desideri, di felicità e di significato per la mia vita.
Dentro di me si ammucchiano inquietudini, domande, attese, errori, dubbi.
Non ho niente da presentare.
Il mio futuro mi sembra così vago.
Ti offro questo foglio bianco, Bambino Gesù.
Io so che sei venuto per portarci speranze nuove.
Vedi, io sono interiormente vuoto, ma il mio cuore è aperto e pronto ad accogliere le parole che vuoi scrivere sul foglio bianco della mia vita.
Ora che ci sei tu, tutto cambierà!”

Brano tratto dal libro “Storie di Natale, d’Avvento e d’Epifania.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La pace verrà… se…

La pace verrà… se…
La pace verrà… se…

… tu credi che un sorriso è più forte di un’arma.
… tu credi alla forza di una mano tesa.
… tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide.
… tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo.
… tu sai scegliere tra la speranza o il timore.
… tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l’altro, allora …

La pace verrà… se…

… lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore.
… tu sai gioire della gioia del tuo vicino.
… l’ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu.
… per te lo straniero che incontri è un fratello.
… tu sai donare gratuitamente un po’ del tuo tempo per amore.
… tu sai accettare che un altro ti renda un servizio.
… tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora …

La pace verrà… se…

… tu credi che il perdono ha più valore della vendetta.
… tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria.
… tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza.
… tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo.
… tu credi che la pace è possibile, allora …

La pace verrà!

Poesia di Charles de Foucauld

L’albero e la natura

L’albero e la natura

C’era una volta un albero che viveva solitario in un piccolo frammento di terra in mezzo ad uno specchio d’acqua.
Era bellissimo, ma su quel pezzettino di terra c’era spazio solamente per lui e lui, per sopravvivere, doveva spingere le sue radici sempre più giù, fin quasi al cuore della Madre Terra.
Gli altri alberi un po’ ne ammiravano ed invidiavano la bellezza, ma soprattutto lo compativano, e nella compassione c’era quasi un piccolissimo, impalpabile velo di disprezzo.
“Guarda quel poveraccio,” dicevano continuamente, “sempre solo, vive, invecchia e muore senza nessuno accanto, senza nessuno da amare e che lo ami.
A che gli serve tanto spreco di bellezza?

A che gli serve vivere così?

Che se ne fa di un cuore se non ha un altro albero per cui battere?
Sarà un cuore indurito e atrofizzato!”
L’albero sentiva giorno dopo giorno queste parole portate dal vento e un po’ lo rattristavano.
I suoi rami non avevano accanto altri rami da carezzare e stringere, ed il destino che lo aveva fatto nascere su un coriandolo di terra, lo aveva condannato ad una vita solitaria.
Lacrime di resina e linfa sgorgavano copiose dal suo cuore.
Madre Terra udì il vibrare del pianto dell’albero, scuoterne le radici e, con voce dolcissima, parlò direttamente al cuore di quella rigogliosa pianta:

“Tu non sei solo!

Ed il tuo cuore non è arido e solitario.
Io lo sento pulsare e battere più forte per ogni nido che i tuoi amici uccellini costruiscono fra i tuoi rami e vedo, alla schiusa delle uova, i tuoi rami amorevolmente e premurosamente protendersi a cullare e proteggere i piccoli appena nati.
Vedo con quanto amore offri i tuoi rami fronzuti agli scoiattoli ed agli altri animaletti che vivono con te.
Tu li ami tutti e da tutti sei amato.
Vedi, albero mio, non esiste soltanto un tipo di amore!
Amore è affetto, c’è tanto amore nell’amicizia e nella solidarietà che dà senza mai chiedere, amore è dare e darsi, e tu ti dai con generosità a tutti quelli che ti sono accanto.
Il tuo cuore è vivo e grande e tu non sei solo e mai tu lo sarai.”
Non soltanto l’albero udì la voce della Madre Terra.

La sentì l’acqua che aggiunse:

“Ti ho visto nascere e crescere e diventare così bello e grande, abbraccio la tua immagine in ogni istante e tu, con la tua ombra, consenti nella calura a tutte le creature che in me vivono di trovar refrigerio.
E tu, lo vedo e sento, tendi con dolcezza i tuoi bei rami a carezzarmi.
Non te l’ho detto mai quanto ti voglio bene?”
A quelle parole si levò un canto.
Tutti gli uccellini intonarono la più dolce canzone d’amore che mai avevano cantato.
Lacrime di felicità carezzarono il cuore di quell’albero, che si unì al loro canto con voce di foglie arpeggiate dalle dita gentili di una brezza amica.

Brano senza Autore.

La candela che non voleva bruciare

La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto:
una candela che rifiuta di accendersi.
Tutte le candele dell’armadio inorridirono.
Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita!
Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all’idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti.
Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente:

“No e poi no!

Io non voglio bruciare.
Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo.
Io voglio rimanere così come sono:
elegante, bella e soprattutto intera!”
“Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta!” replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali, “Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente.
Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice.”

“No, grazie tante,”

rispose la candela rossa, “ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia.”
“La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro,” continuò il cero, “solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso.
Se lasci che la solitudine, il buio e il freddo avanzino, avvolgeranno il mondo!”
“Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?” chiese la candela.
“Certo,” ribadì il cero, “ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati.
Siamo i cavalieri della luce.”
“Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore?”

domandò ancora la candela.

“Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo!” concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere.
Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo.
La cera e lo stoppino si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

Brano di Bruno Ferrero

Due cuori in un armadio

Due cuori in un armadio

Mi racconto.
Correva l’anno 1966 e, poco più che quattordicenne, a causa degli insuccessi scolastici, andai a fare l’apprendista in un laboratorio calzaturiero, con l’intento di imparare il mestiere, così come si usava in quel periodo.
Per i primi due mesi, quelli di rodaggio per intenderci,

i proprietari non mi misero in regola e lavorai in nero.

Però anche in quel periodo i locali subivano delle ispezioni per i continui infortuni e per l’evasione fiscale.
Fuori regola eravamo io ed una coetanea, una bella e vispa ragazzina di cui mi innamorai, platonicamente, subito.
I proprietari avevano istallato un campanello d’allarme e in caso di ispezione,

noi due dovevamo nasconderci dentro un armadio non molto grande.

Un giorno suonò l’allarme e ci precipitammo dentro questo armadio.
Fu una emozione forte, io sentivo il suo respiro ed il suo profumo.
Mi trovai per la prima volta a contatto ravvicinato con l’altro sesso ed il mio cuore cominciò a battere all’impazzata,

così tanto che credetti di svenire.

Nell’oscurità totale e in quel silenzio inquietante, lei prese la mia mano e se la portò al cuore sfiorandomi con un bacio.
Nessuna parola potrà mai descrivere l’emozione di due cuori quattordicenni in un armadio.
Capì solo più tardi di essere stato, rispetto a lei, un imbranato apprendista.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il gelso, il bruco e la farfalla

Il gelso, il bruco e la farfalla

C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.

Per noi la vita è così breve.

Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.

Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.

“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.

È la fine.

Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”

“Ciao Giovanni!

Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”

Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!

Brano di Bruno Ferrero