L’Immacolata Concezione ed il figlio

L’Immacolata Concezione ed il figlio

Un uomo, pur essendo credente, era però scettico sull’Immacolata Concezione di Maria.
Una notte fece un sogno.
Gli apparve un angelo che lo portò in un viaggio pieno di case e gli disse:
“Voglio che tu scelga una casa per il tuo unico e amato figlio.”
L’uomo e l’angelo attraversarono in lungo e in largo il villaggio, esaminando attentamente ogni casa.

L’uomo amava tanto suo figlio che voleva il meglio per lui.

Ma con suo disappunto si accorse che tutte le case avevano qualche difetto:
una senza tetto, l’altra sporca, l’altra con i vetri rotti, l’altra con i muri tutti scrostati…
“Non vedo una casa che possa andare bene per mio figlio!” disse l’uomo all’angelo, “È possibile invece costruire su misura la casa che ho in mente per lui?”
“Dimmi che casa hai in mente,” rispose l’angelo “e sarà fatta in un istante!”
L’uomo descrisse la casa ideale per suo figlio:
doveva essere pulita, bella, solida…perfetta!
Appena ebbe finito di parlare la casa comparve davanti ai suoi occhi.

L’angelo gli chiese:

“Perché hai scelto una casa fatta così per tuo figlio?”
L’uomo replicò:
“Come posso permettere che mio figlio viva nelle case che abbiamo visto?
Erano sporche, o malridotte, o fatiscenti.
Per mio figlio voglio il meglio!”
L’angelo rispose:
“Tu hai detto bene…Vedi, quando Dio stava cercando una donna che diventasse la Madre del suo Figlio, del suo unico e amato Figlio, cercava il meglio per lui.
Cercava una donna perfetta, dal cuore buono, incapace di fare il male e di disobbedirgli.
Voleva una madre degna per suo Figlio.”

L’angelo continuò:

“Se tu vuoi il meglio per tuo figlio, pensi che Dio avrebbe voluto qualcosa di meno per il Suo?
Per questo Maria è stata concepita senza peccato:
la dimora di Cristo, Maria, doveva essere perfetta per accogliere Colui che è perfetto!”

Brano senza Autore

Giulia e l’uva

Giulia e l’uva

Una giovane ragazza, di nome Giulia, nel pieno della gioventù, faceva la domestica tuttofare in una dimora di ricchi proprietari terrieri.
Vigeva in quel tempo l’istituto della mezzadria ed i contadini portavano ai padroni i frutti più belli:

le cosiddette regalie.

Nella stanza dove dormiva Giulia avevano, perfino, appeso alle travi del soffitto i più bei grappoli d’uva, delle varietà migliori, per conservarli, dono dei contadini contraenti.
I suoi padroni le avevano raccomandato, pena il licenziamento, di non mangiare per nessun motivo nemmeno un chicco d’uva.
Vuoi per la fame, vuoi per l’essere golosa, Giulia qualche chicco d’uva qua e là lo aveva mangiato, e si augurava che i proprietari non notassero questi piccoli furti.
Ma non fu così, ed i padroni, noti per essere taccagni e avari, la sgridarono pesantemente.

Giulia si difese dicendo:

“Sono stati i topi!
E voi mi fate addirittura dormire con loro!”
I padroni schifati risposero:
“Se è davvero così, puoi mangiarti tutta l’uva che vuoi perché a noi non interessa più!”

Giulia era mia nonna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La vera ricchezza (Sapersi accontentare)

La vera ricchezza
(Sapersi accontentare)

In un piccolo villaggio, un contadino accumulò tanta ricchezza da potersi dire il più ricco d’ogni altro.
Ma, potendo disporre di denaro ed essendosi comperato un mulo, ebbe l’idea di viaggiare.
Arrivò in un paese molto più grande del suo e vide una casa molto più bella della sua.
“Di chi è questa casa?” chiese il contadino, “Di qualche Dio?”

“È dell’uomo più ricco del paese!” fu la risposta.

Il contadino tornò al suo villaggio e tanto lavorò, s’affaticò e s’arrabattò che, alla fine, poté costruire una dimora come quella che aveva ammirato.
Questa volta acquistò cavallo e carrozza e andò in una città.
Là, di case come la sua ce n’erano a centinaia.
E a decine ve n’erano d’incomparabilmente più belle.
Che dire poi del palazzo del re?
Neanche lavorando tutta la vita notte e giorno avrebbe potuto competere con tanta ricchezza.
Mentre se ne tornava a casa triste e depresso, al carro si ruppe una ruota, il cavallo morì di stanchezza e al contadino non restò che tornare a casa a piedi.

Fattasi notte, vide un lume lontano:

era la casa di un santo eremita.
Entrato, il contadino notò la grande povertà che vi regnava:
“Come fai,” chiese all’eremita il contadino, “a vivere in una casa tanto miserabile?”
“Mi accontento!” rispose l’eremita, “Tu piuttosto, perché non sei felice?”
“Perché, si vede?” domandò il contadino.
“Si vede dai tuoi occhi.
Cercano qualcosa che non c’è:
la ricchezza.” esclamò l’eremita.
“Eppure la ricchezza io l’ho vista!” spiegò il contadino.

“Hai notato al crepuscolo,” disse l’eremita, “le lucciole nei prati?

S’illudono d’illuminare l’universo, ma la loro vanità scompare quando le stelle sorgono in cielo.
Anche le stelle credono d’illuminare il cielo, ma non appena sale la luna scompaiono lentamente e tristemente.
La luna s’illude anch’essa di inondare la terra con la sua luce, ma quando arriva il sole, a stento la si vede nel cielo.
Se quelli che si vantano delle loro ricchezze meditassero su queste semplici cose, ritroverebbero il sorriso perduto.”
Il contadino sorrise, ma sul suo volto c’era ancora un po’ di tristezza.
Allora l’eremita gli disse:
“Lo sai che rispetto a me tu sei re?”
“Be’, non esageriamo.
Ho certo una casa più bella della tua, qualche soldo da parte e…” continuò il contadino.
“Non è di questo che parlo!” disse l’eremita e, avvicinando il lume al proprio povero corpo, glielo mostrò: non aveva le gambe.
Allora il contadino, che doveva sorridere, pianse.

Brano tratto dal libro “Il libro degli esempi: Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Gribaudi Editore.