L’uomo, i cappelli e le scimmie

L’uomo, i cappelli e le scimmie

C’era una volta, in una terra lontana della Tunisia, un uomo che faceva il venditore di cappelli nei vari mercati di tutta la sua nazione.
Quest’uomo vendeva dei cappelli a cilindro rossi.

Sembrava che tutti li amassero perché se ne vendevano molti.

Un giorno però, pur avendo girato per diversi mercati, non era riuscito a venderne neanche uno.
Allora tutto sconsolato s’incamminò verso casa con le sue valige piene di questi copricapo.
Sopraggiunse la notte e il venditore si trovò costretto a doverla trascorrere all’aperto, in un piccolo boschetto sulla riva di un fiume.
Prima di andare a dormire si mise uno dei suoi cappelli per ripararsi dalla frescura della notte.
L’uomo non sapeva che intorno a lui c’erano molte scimmie che avevano visto la scena e, normalmente, esse imitano tutto quello che vedono fare.
Allora, quando si addormentò, esse scesero dagli alberi, presero tutti i cappelli che erano nelle valige e se li misero in testa.

La mattina seguente, quando l’uomo si alzò, vide le sue valige aperte e vuote.

Pensò che fosse stata opera dei ladri, fino a quando non sentì un piccolo grido venire dagli alberi e si accorse che tutti i rami erano pieni delle scimmie che indossavano i suoi cappelli.
Allora egli cominciò a gridare e a puntare il dito verso di loro dicendo di restituirgli i cappelli, ma quelle cominciarono a copiare gli stessi movimenti dell’uomo, il quale si arrabbiava sempre di più.
Le scimmie, però, continuavano a copiare i suoi gesti e gridavano più forte.
Fino a quando egli, esasperato e furioso, prese delle pietre e cominciò a tirarle contro quelle bestiole.
Esse allora, continuando a imitarlo, presero dei limoni e li lanciarono contro di lui da tutte le direzioni.

Al massimo della sua esasperazione,

l’uomo si mise le mani in testa e, prendendo con rabbia il suo cappello, lo gettò violentemente a terra.
Come per magia, le scimmie fecero la stessa cosa e dagli alberi lanciarono a terra tutti i cappelli e all’uomo non restò che raccoglierli e rimetterli in valigia.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Caro papà, noi crediamo in te!

Caro papà, noi crediamo in te!

Quando fu assunto come redattore in una importante rivista nazionale, gli sembrò di toccare il cielo con un dito.
Telefonò a mamma, papa e naturalmente alla dolce Monica alla quale disse semplicemente:
“Ho avuto il posto!
Possiamo sposarci!”
Si sposarono e negli anni nacquero tre vispi bimbetti:

Matteo, Marta e Lorenzo.

Sei anni durò la felicità, poi la rivista fu costretta a chiudere.
Il giovane papà si impegnò a trovare un altro posto come redattore in un giornale locale.
Ma anche quel giornale durò poco.
Questa volta la ricerca fu affannosa.
Ogni sera la giovane mamma e i tre bambini guardavano il volto del papà, sempre più rabbuiato.
Una sera, durante la cena, l’uomo si sfogò amareggiato:
“È tutto inutile!

Nel mio settore non c’è più niente:

tutti riducono il personale, licenziano…”
Monica cercava di rincuorarlo, gli parlava dei suoi sogni, delle sue indubbie capacità, di speranza.
Il giorno dopo, il papa si alzò dopo che i bambini erano già usciti per la scuola.
Con un gran peso sul cuore, prese una tazza di caffè e si avvicinò alla scrivania dove di solito lavorava.
Lo sguardo gli cadde sul cestino della carta.
Alcuni grossi cocci di ceramica rosa attirarono la sua attenzione.
Si accorse che erano i pezzi dei tre porcellini rosa che i bambini usavano come salvadanaio.
E sul suo tavolo c’era una manciata di monetine, tanti centesimi e qualche euro e anche alcuni bottoni dorati.
Sotto il mucchietto di monete un foglio di carta sul quale una mano infantile aveva scritto:

“Caro papà, noi crediamo in te.

Matteo, Marta e Lorenzo.”
Gli occhi si inumidirono, i brutti pensieri si cancellarono, il coraggio si infiammò.
Il giovane papa strinse i pugni e promise:
“La vostra fede non sarà delusa!”
Oggi, sulla scrivania di uno dei più importanti editori d’Europa c’è un quadretto con la cornice d’argento.
L’editore la mostra con orgoglio dicendo:
“Questo è il segreto della mia forza!”
È solo un foglio di carta con una scritta incerta e un po’ sbiadita:
“Caro papà, noi crediamo in te!
Matteo, Marta e Lorenzo.”

Brano di Bruno Ferrero

Oscar ed il (Papà) gigante

Oscar ed il (Papà) gigante

Il primo ricordo di Oscar è la faccia del gigante.
Era un faccione smisurato e terribile, tutt’intorno ad una bocca larghissima piena di denti.
Il faccione aveva una strana espressione.
“Adesso mi mangia!” pensò Oscar e cominciò a strillare con tutta la forza delle sue minuscole ma tenacissime corde vocali.
La mamma accorse e il gigante sparì.
Stretto stretto al petto della mamma, Oscar spiegò affannato:
“Mammina, c’era un gigante poco fa sulla mia culla e mi voleva assaggiare!
Un gigantone spaventoso!
Con una grande bocca e tanti denti!”
Naturalmente quello che usciva dalla sua bocca era soltanto:
“Nghè! Nghé! Uè, uè!” ma la mamma aveva il traduttore automatico e capiva.

Il gigante rimase a gironzolare nei dintorni.

Una volta lo prese in mano.
Oscar stava tutto in una sola di quelle manone.
Si preparava a strillare, ma scoprì che la manona era calda, accogliente e il vocione del gigante, che rimbombava “Oh là, là!” non era poi così spaventoso. Anzi.
Così Oscar imparò a vivere con il gigante.
Non sapeva bene che cosa facesse.
Spariva parecchie ore al giorno, ma quando c’era, Oscar si sentiva felice, sicuro, protetto.
Avere un gigante al proprio servizio non è niente male, pensava Oscar.
Quando l’orribile cane del Signor Pacucci minacciò ringhiando i teneri polpacci di Oscar, il gigante lo polverizzò praticamente con la sola apparizione.
Il gigante sapeva fare le operazioni, scrivere le lettere dell’alfabeto e raccontare le storie delle sue terre, piene di orchi, fate, draghi e cavalieri.
Un giorno, arrivò con una biciclettina e insegnò ad Oscar ad usarla.
Gli stette dietro per giorni, al parco, tenendolo con un dito, finché Oscar non fu in grado di pedalare da solo.

“Tump, tump!” facevano i suoi piedoni.

Oscar scoprì che quando sentiva quel “Tump, tump!” tutte le paure svanivano.
Ma un giorno venne il nonno a prendere Oscar a scuola.
Così capì che qualcosa non andava, perché doveva esserci la mamma al suo posto.
Dovevano andare tutti fuori a cena, quella sera, per festeggiare il compleanno della loro amica Laura.
Quando il nonno disse che il gigante aveva avuto un attacco di cuore, Oscar pensò che stesse scherzando.
Ma quando si rese conto che diceva sul serio pensò che sarebbe morto anche lui.
Era troppo scioccato persino per piangere.
Si sentiva intorpidito e indifeso.
Rimase lì, pensando:
“Perché?
Eri così grande, forte e in salute.
Lavoravi ogni giorno all’aperto!”
Pensava che fosse l’ultima persona al mondo che potesse avere un attacco di cuore.
Andare in ospedale fu terribile.
Il gigante era in coma.
C’erano tantissimi tubi e macchine intorno a lui.
Non sembrava nemmeno lui.

Oscar tremava.

Voleva solo che il gigante si svegliasse da quell’orribile incubo e lo portasse a casa.
L’ospedale era pieno di persone.
Erano molto gentili con Oscar.
Il bambino non sapeva che il gigante avesse così tanti buoni amici.
C’era anche Laura, ma non si festeggiò il suo compleanno.
Dopo quel primo giorno ne seguirono altri due di angoscia, di veglia e di preghiere.
Non funzionò.
Il 26 di febbraio accadde la cosa più tragica di tutti i dieci anni di vita di Oscar, e forse anche di tutti gli anni che vivrà.
Il gigante morì.
Con marzo arrivò la festa del papà.
Oscar comprò un bel biglietto d’auguri e scrisse la sua lettera:

“Non so nemmeno se mi hai sentito, quando ti ho detto addio.
Non ero mai stato a un funerale, prima, ma mi sorprese vedere che erano venute più di mille persone.
C’erano tutti i familiari e gli amici, ma anche un sacco di persone che non conoscevo nemmeno.
Immaginai poi che fossero persone che avevi trattato nello stesso modo speciale in cui trattavi me.

Ecco perché tutti ti volevano bene.

Certo, ho sempre saputo che eri speciale, ma in fondo eri il mio papà.
In quel giorno scoprii che eri speciale anche per molte altre persone.
Anche se ormai è passato del tempo, ti penso sempre e mi manchi molto.
Alcune notti piango fino ad addormentarmi, ma cerco di non buttarmi troppo giù.
So che ho ancora molto di cui essere grato.
Tu mi hai dato più amore in dieci anni di quanto molti bambini ne ricevano in tutta la vita.
È vero, non puoi più giocare a palla con me nei fine settimana, né portarmi fuori a colazione, né raccontarmi le tue storielle o passarmi di nascosto qualche spicciolo.
Ma io so che sei ancora con me.

Sei nel mio cuore e nelle mie ossa.

Sento la tua voce, dentro di me, che mi aiuta e mi guida nella vita.
Quando non so che cosa fare, cerco di immaginare quello che mi consiglieresti tu.
Sei ancora qui, a darmi consiglio e ad aiutarmi a capire le cose.
So che qualunque cosa accada, ti vorrò sempre bene e ti ricorderò.
Ho sentito dire che quando qualcuno muore, Dio manda un arcobaleno a prendere la persona per portarla in paradiso.
Il giorno in cui sei morto è apparso in cielo un doppio arcobaleno.
Tu eri alto quasi due metri.
Probabilmente un solo arcobaleno non era abbastanza per portarti fino in paradiso.
Ti voglio bene papà.
Oscar.

Brano senza Autore

La leggenda del canto “Astro del Ciel” (Stille Natch)

La leggenda del canto “Astro del Ciel” (Stille Natch)

Nel piccolo paese di Obendorf, in Austria, un giovane sacerdote, padre Mohr, stava dando le ultime istruzioni ai bimbi e ai piccoli pastori per provare il canto da eseguire nella notte di Natale.
Tra le navate silenziose si spandeva l’eco di un vocio allegro e di piccole risatine:
“Buoni, silenzio!
Incominciamo!”
Ma come padre Mohr appoggiò il dito sulla tastiera dall’interno dell’organo uscì uno strano rumore, poi un altro e un altro ancora.
“Strano!” pensò il giovane prete.
Aprì la porticina dietro l’organo e dieci, venti topi schizzarono fuori inseguiti da un gatto.
Povero padre Mohr.

Si voltò a guardare il mantice:

completamente rosicchiato e fuori uso.
“Pazienza,” pensò, “faremo a meno dell’organo.”
Ma anche i piccoli cantori all’apparire dei topi e del gatto si erano scatenati in una furibonda caccia.
Ed ora non c’era più nessuno.
Con l’organo in quelle condizioni e il coro dileguato dietro ai topi, addio canto di Natale.
Fu un momento di grande sconforto per padre Mohr.
Mentre, davanti all’altare maggiore si chinava nella genuflessione gli venne in mente l’amico Franz Gruber il maestro elementare che, oltre ad essere un discreto organista, se la cava bene nel pizzicare le corde della chitarra.
Quando padre Mohr giunse a casa sua, Gruber stava correggendo i compiti degli scolari al debole chiarore di una lucerna.
“Bisogna inventare qualche cosa di nuovo per la Messa di mezzanotte, un canto semplice che accompagnerai con la chitarra.

Qui ho scritto le parole:

sta a te vestirle di musica…
Ma in fretta mi raccomando!” disse il padre.
Uscito padre Mohr, Gruber prese subito in mano la chitarra e dopo aver scorso il testo lasciatogli dal prete cominciò a cercare tra le corde le note più semplici.
Nella notte silenziosa i fiocchi di neve rimanevano sospesi ad ascoltare la dolce melodia che vagava nell’aria fredda.
A mezzanotte in punto, del 24 dicembre 1818, la chiesa parrocchiale traboccava di fedeli.
L’altare maggiore era tutto sfolgorante di lumi e di candele accese.
Padre Mohr celebrava la quinta Messa.
Dopo aver proclamato con il vangelo di Luca la nascita del Salvatore si avvicinò con il maestro Gruber al presepio e con la voce tremante intonarono:

“Astro del Ciel…”

Dalle navate si persero nel silenzio le ultime parole del canto.
Un attimo dopo l’intero villaggio le ripeteva davanti a Gesù, come la schiera degli angeli del vangelo di Luca.
E da allora non si è più smesso di cantarlo, non solo ad Obendorf ma in tutto il mondo.
È diventata una delle musiche più care del Natale.
E di padre Josef Franz Mohr e di Franz Xaver Gruber che ne è stato?
Nessuno dei due ha avuto il tempo di rendersi conto di quanto ha donato al mondo senza aver avuto in cambio nulla.

Brano senza Autore

La donna che profumava di pane

La donna che profumava di pane

In un lontano paese, una povera vedova si manteneva prestando servizio ad una ricca e misteriosa signora che viveva solitaria in una villa dall’aspetto lugubre, seminascosta nel cuore di un bosco.
La buona vedova compiva il suo lavoro con generosità e precisione, e un giorno inaspettatamente la signora le fece un regalo:

un anello straordinario.

“Ruotando due volte questo anello intorno al dito, ti potrai trasformare in tutto ciò che vorrai!” le spiegò la strana signora.
La vedova non ci fece un gran caso, ma quando una terribile carestia si abbatté sulla regione, si ricordò dell’anello.
Lo girò due volte attorno al dito e si trasformò in un magnifico falco dalle ali affilate.
Aveva deciso di volare fino a trovare una terra che potesse fornire sostentamento al figlio e ai suoi vicini.
Volò fino ad esaurire le forze, poi tornò mestamente nella sua casa.
La carestia aveva colpito tutte le terre del regno.
Non c’era scampo per nessuno.

Ma la donna non si rassegnò.

Ruotò l’anello due volte e si trasformò in un’enorme e fragrante forma di pane.
Quando suo figlio tornò a casa e vide quella enorme pagnotta, cominciò a mangiare di gusto.
Era solo pane, ma saziava in modo mirabile.
Mentre masticava con voluttà, il figlio della vedova vide passare un vicino di casa con cui aveva avuto molti dissapori e che gli ispirava una fortissima antipatia.
Era deciso ad ignorarlo, ma una scossa al cuore lo costrinse ad invitarlo a condividere quel pane miracoloso.
La voce si sparse e da tutto il villaggio la gente accorse:
grandi e piccoli, giovani e vecchi, poveri, ammalati e sani, disperati e inquieti.
Quel pane sembrava non finire mai.
Inoltre, non si limitava a togliere la fame, ma infondeva serenità e voglia di pace, senso di bontà e salute per il corpo.
Quelli che erano nemici si riconciliavano e quelli che prima si ignoravano si sorridevano cordialmente.
Ogni notte, l’ultima briciola di pane si trasformava di nuovo nella vedova generosa.
Ogni mattino, la donna ridiventava una gigantesca pagnotta profumata e deliziosa, che nutriva il corpo e lo spirito della gente del villaggio.

Così fu fino al nuovo raccolto.

Quel giorno fu organizzata una grande festa.
Naturalmente partecipò anche la vedova.
Tutti quelli che si avvicinavano a lei provavano una strana sensazione:
la donna profumava di pane appena sfornato.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Pregare è la cosa più semplice del mondo

Pregare è la cosa più semplice del mondo

Tutte le volte che mi capita di guardarmi le mani mi viene voglia di pregare.
È una cosa che ho ereditato dalla suora dell’asilo, che è pur sempre il posto dove si imparano le cose essenziali per la vita.

Suor Luigia ci diceva:

“Pregare è la cosa più semplice del mondo.
Basta guardarsi le dita della mano.
Il pollice, che è il dito più vicino, ci ricorda di pregare per le persone che ci sono più care e più vicine.

L’indice serve a mostrare.

Rappresenta tutti coloro che ci fanno da maestri e che hanno delle responsabilità nei nostri confronti.
Il medio è il più alto, perciò simboleggia le persone importanti e i leader in ogni settore della vita.
L’anulare è il più debole e rappresenta quindi i malati o coloro che si trovano in difficoltà.
Il mignolo è il più piccolo e sta per quelli che sono piccoli e poco considerati.”

Se mi vedete assorto con le mani in mano,

allora, sappiate che sto pregando.
Fa pregare il tuo corpo e il tuo corpo farà pregare.

Brano tratto dal libro “Ci sarà sempre un altro giorno. Piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il signor felicità

Il signor felicità

Won Li era un contadino cinese semplice e generoso.
Un giorno scendeva dalla montagna con un gran fascio di giunchi sulle spalle, quelli che usa la povera gente per ricoprire la propria capanna.
Stanco e sudato si fermò per riposare un po’.
Ad un tratto una bella farfalla, dalle ali ricamate, venne a posarsi sulle foglie della sua fascina.
Won Li cercò di allontanarla.
“Vai, creatura bella, goditi la libertà che Dio ti ha dato!”
Ma per quanto cercasse di allontanarla, la farfalla continuava a tornare sui giunchi del contadino.
Allora la prese delicatamente tra le dita e la legò a un filo d’erba.

“La porterò ai miei bambini!” pensava, “Ne saranno felici,”

La farfalla, che era stanca di volare, se ne stava tutta tranquilla, senza far proprio nulla per riprendere il volo.
Giunto ai piedi della montagna, Won Li incontrò una signora che teneva per mano un bambino.
“Mamma, mamma!” gridò il piccolo, “Guarda che bella farfalla!
Prendila, prendila!”
“Non vedi che quest’uomo l’ha presa per portarla ai suoi bambini?” disse la donna.
Il bambino però era del tipo capriccioso.
E quando si incaponiva a volere una cosa, non rinunciava facilmente:
“La voglio, mamma, voglio la farfalla!”
Won Li aveva il cuore buono e sorrise al bambino.
“Vieni, bambino, prendi pure la farfalla, ma non farle del male.” e gli porse il filo d’erba che teneva prigioniera la farfalla.
“Lei è veramente buono.” disse la donna.
“Mi dispiace di non avere con me il borsellino; ma almeno prenda queste tre arance che ho colte nel mio giardino, serviranno per dissetarsi!”
Erano tre arance veramente belle e succose.

Won Li se le mise in tasca:

“Le porterò ai miei bambini. Non ne hanno mai viste di così grosse!
Ma che farò di tutta questa ricchezza?”
Dopo un pezzo di strada, Won Li si imbatté in un uomo seduto sotto una pianta, con accanto un gran fagotto di pezze di seta:
“E da stamattina che cammino in queste lande deserte.
Ho una sete da morire.
Buon uomo, non avresti qualcosa per dissetarmi?”
L’uomo sotto l’albero era proprio esausto.
“Prendi queste tre arance!” disse Won Li e gliele porse, “Ti toglieranno l’arsura.”
“Grazie, buon uomo.
Ma io voglio ricambiare la tua generosità.
Prendi questo taglio di seta, potrai fare un bel vestito a tua moglie.” disse l’uomo.
Won Li, felice, riprese il cammino verso casa.
Arrivato sulla strada principale si imbatté in una portantina sostenuta da quattro uomini e seguita da sei eleganti cavalieri.

Era la principessa.

“Vieni qui!” disse la principessa appena lo vide.
Come tutte le principesse aveva la voce dolcissima, simile a tanti campanellini d’oro tintinnanti. “Fammi vedere quel pezzo di stoffa che tieni sotto il braccio!”
Won Li si accostò tremante e svolse il rotolo di seta.
Era bellissimo, disegnato a fiori e uccelli multicolori.
“Se vi piace, sarò lieto di regalarvela, gentile principessa!” mormorò Won Li.
“Sei molto buono e generoso.
Voglio anch’io farti un dono!”
E la principessa porse al contadino la sua borsetta.
Won Li corse a casa stringendo il dono della principessa.
Arrivato nella sua povera capanna chiamò la moglie e i figli e, con mani tremanti, aprì la borsetta.
Com’è facile immaginare, come tutte le borsette delle principesse era piena di monete d’oro.
“Ma che farò di tutta questa ricchezza?” si chiese un po’ smarrito Won Li.

Gli venne un’ispirazione:

“Ah, si. Cercherò di far felici i più poveri del paese!”
Comprò una vasta estensione di terra, la suddivise in tanti appezzamenti e la donò ai poveri che non possedevano nulla.
Così tutto il villaggio diventò più ricco e tutti vissero contenti e felici.
Ma il più felice di tutti era Won Li che tutti ormai chiamavano:
“Il signor Felicità!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’esempio (Padre e figlio)

L’esempio (Padre e figlio)

“Quand’ero adolescente,” raccontava un uomo ad un amico, “mio padre mi mise in guardia da certi posti in città.”
Mi disse:
“Non andare mai in una discoteca, figlio mio.”

“Perché no, papà?” domandai.

“Perché vedresti cose che non dovresti vedere!” rispose lui.
Questo, ovviamente, suscitò la mia curiosità.
Ed alla prima occasione andai in una discoteca.

“E hai visto qualcosa che non dovevi vedere?”

domandò l’amico.
“Certo!” rispose l’uomo, “Ho visto mio padre.”

Un bambino in piedi sul letto nel suo pigiamino rosso punta il dito contro la mamma e fieramente dichiara:
“Io non voglio essere intelligente.
Io non voglio essere beneducato.

Io voglio essere come papà!”

L’esempio non è uno dei tanti metodi per educare.
È l’unico.

Brano tratto dal libro “Le storie del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Due sassolini azzurri

Due sassolini azzurri

Due sassolini, grossi sì e no come una castagna, giacevano sul greto di un torrente.
Stavano in mezzo a migliaia di altri sassi, grossi e piccoli, eppure si distinguevano da tutti gli altri.
Perché erano di un intenso colore azzurro.
Loro due sapevano benissimo di essere i più bei sassi del torrente e se ne vantavano dal mattino alla sera.
“Noi siamo i figli del cielo!” strillavano, quando qualche sasso plebeo si avvicinava troppo.
“State a debita distanza!
Noi abbiamo il sangue blu.
Non abbiamo niente a che fare con voi!”
Erano insomma due sassi boriosi e insopportabili.
Passavano le giornate a pensare che cosa sarebbero diventati, non appena qualcuno li avesse scoperti:
“Finiremo certamente incastonati in qualche collana insieme ad altre pietre preziose come noi!”

“Sul dito bianco e sottile di qualche gran dama!”

“Sulla corona della regina d’Olanda!”
Un bel mattino, mentre i raggi del sole giocavano con le trine di spuma dei sassi più grandi, una mano d’uomo entrò nell’acqua e raccolse i due sassolini azzurri.
“Evviva!” gridarono i due all’unisono, “Si parte!”
Finirono in una scatola di cartone insieme ad altri sassi colorati.
“Ci rimarremo ben poco!” dissero, sicuri della loro indiscussa bellezza.
Poi una mano li prese e li schiacciò di malagrazia contro il muro in mezzo ad altri sassolini, in un letto di cemento tremendamente appiccicoso.
Piansero, supplicarono, minacciarono.
Non ci fu niente da fare.
I due sassolini azzurri si ritrovarono inchiodati al muro.
Il tempo ricominciò a scorrere, lentamente.
I due sassolini azzurri erano sempre più arrabbiati e non pensavano che ad una cosa: fuggire.
Ma non era facile eludere la morsa del cemento, che era inflessibile e incorruttibile.

I due sassolini non si persero di coraggio.

Fecero amicizia con un filo d’acqua, che scorreva ogni tanto su di loro.
Quando furono sicuri della lealtà dell’acqua, le chiesero il favore che stava loro tanto a cuore. “Infiltrati sotto di noi, per piacere.
E staccaci da questo maledetto muro!”
Fece del suo meglio e dopo qualche mese i sassolini già ballavano un po’ nella loro nicchia di cemento.
Finalmente, una notte umida e fredda, Tac! Tac!:
i due sassolini caddero per terra.
“Siamo liberi!” esclamarono.
E mentre erano sul pavimento, lanciarono un’occhiata verso quella che era stata la loro prigione:
“Ooooh!”
La luce della luna che entrava da una grande finestra illuminava uno splendido mosaico.
Migliaia di sassolini colorati e dorati formavano la figura di Nostro Signore.
Era il più bel Gesù che i due sassolini avessero mai visto.
Ma il volto… il dolce volto del Signore, in effetti, aveva qualcosa di strano.

Sembrava quello di un cieco.

Ai suoi occhi mancavano le pupille!
“Oh, no!” I due sassolini azzurri compresero.
Loro erano le pupille di Gesù.
Chissà come stavano bene, come brillavano, come erano ammirati, lassù.
Rimpiansero amaramente la loro decisione.
Quanto erano stati insensati!
Al mattino, un sacrestano distratto inciampò nei due sassolini e, poiché nell’ombra e nella polvere tutti i sassi sono uguali, li raccolse e, brontolando, li buttò nel bidone della spazzatura.

Brano di Bruno Ferrero

Amiche del cuore

Amiche del cuore

“Per piacere, resta!” imploravo.
Ann era la mia migliore amica, l’unica ragazzina del vicinato, e non volevo che andasse via.
Stava seduta sul mio letto, con gli occhi blu privi di espressione.
“Mi annoio!” disse arrotolandosi gli spessi riccioli rossi intorno a un dito.
Era venuta a giocare solo mezz’ ora prima.
“Per piacere, non andare!” chiesi supplichevole, “Tua mamma ha detto che potevi restare per un’ ora!”
Ann fece per alzarsi, poi vide un paio di mocassini indiani in miniatura sul mio comodino.
Con le loro perline dai colori vivaci sulla morbida pelle, quei mocassini erano la cosa che mi era più preziosa.
“Rimarrò se me li dai!” disse Ann.

Aggrottai le sopracciglia.

Non potevo immaginare di separarmi da quei mocassini.
“Ma me li ha dati la zia Reba!” protestai.
Mia zia era stata una donna bella e gentile, e io l’adoravo.
Non era mai troppo occupata per dedicarmi un po’ di tempo.
Ci inventavamo storie buffe e ridevamo tanto.
Il giorno in cui era morta, avevo pianto per ore sotto una coperta, incapace di credere che non l’avrei più rivista.
In quel momento, mentre tenevo con cura i mocassini nella mano, ero invasa dal dolce ricordo di zia Reba.
“Andiamo.” incitava Ann, “Sono la tua migliore amica!”
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo!
Non so che cosa mi prese, ma desideravo più di ogni altra cosa avere qualcuno che giocasse con me.
Lo volevo così tanto che porsi i mocassini ad Ann!
Dopo che li ebbe riposti in tasca, andammo in bicicletta sul vialetto per diverse volte e presto fu tempo per lei di tornare a casa.
Sconvolta per quello che avevo fatto, non avevo comunque voglia di giocare.

Quella sera sostenni di non avere fame e andai a letto senza cena.

Una volta nella mia stanza, iniziai davvero a sentire la mancanza dei mocassini!
Dopo che la mamma mi ebbe rimboccato le coperte e spento la luce, mi chiese cosa ci fosse che non andasse.
Le raccontai tra le lacrime di come avessi tradito la memoria di zia Reba e di quanto mi sentissi in colpa.
La mamma mi abbracciò con calore, ma tutto quello che mi disse fu:
“Bene, immagino che dovrai decidere cosa fare.”
Le sue parole non mi furono d’aiuto.
Sola nel buio, cercai di chiarirmi le idee.
“La legge dei bambini dice che non devi dare una cosa e poi riprendertela.” mi dicevo, “Ma è stato un affare conveniente?
Perché ho permesso ad Ann di giocare con i miei sentimenti?
Ma soprattutto, Ann è davvero la mia migliore amica?”
Decisi che cosa avrei fatto.
Mi agitai e mi rivoltai per tutta la notte, non vedendo l’ora che si facesse giorno.
A scuola, il giorno seguente, affrontai Ann.
Trassi un profondo respiro e le chiesi di rendermi i mocassini.

Sbarrò gli occhi e mi guardò a lungo.

“Per piacere!” pensavo, “Per piacere!”
“Okay.” disse infine, tirando fuori dalla tasca i mocassini, “Tanto non mi piacevano.”
Fui sopraffatta da una sensazione di sollievo.
Dopo qualche tempo io e Ann smettemmo di giocare insieme.
Scoprii nei dintorni dei bambini che non erano niente male, e spesso mi invitavano a giocare a softball.
Mi feci anche nuove amiche in altri quartieri.
Nel corso degli anni, ho avuto altre amiche del cuore.
Ma non ho più supplicato per la loro compagnia.
Sono arrivata a capire che gli amici sono persone che vogliono trascorrere il tempo con te, senza chiedere niente in cambio.

Brano di Mary Beth Olson