L’industriale, il manager e l’operaio

L’industriale, il manager e l’operaio

In una piccola città c’era un industriale.
Era un uomo potente, con gli occhiali d’oro, la borsa di cuoio, la voce tonante e una grossa automobile con l’autista in divisa blu.
Quando l’industriale usciva dalla sua palazzina dirigenziale, il manager che dirigeva la sua fabbrica si toglieva il cappello, faceva un profondo inchino e porgeva deliziosi saluti anche alla signora.
Il manager aveva lo sguardo d’acciaio e modi bruschi, usava parole inglesi ed era sempre indaffarato.
Aveva, inoltre, una grossa automobile rossa e quando usciva dall’ufficio, l’operaio si toglieva il cappello, faceva un inchino e porgeva deferenti saluti.

L’operaio viaggiava su una Panda, aveva le spalle un po’ curve e il sorriso triste.

Quando usciva dalla fabbrica nessuno lo salutava.
Solo un cane giallo, con la testa ciondoloni, una sera lo seguì e da quel momento non lo lasciò più.
Quando l’industriale era di cattivo umore strapazzava il manager, lo chiamava “incapace” e “inefficiente”, scaricava sulle sue spalle tutti i guai dell’azienda e faceva svolazzare fogli di carta battendo grandi manate sulla scrivania di mogano.
Quando il manager era di cattivo umore chiamava l’operaio e gli sbraitava “pelandrone” e “scansafatiche”, lo minacciava di licenziamento, mostrandogli i pugni, e gli attribuiva tutte le colpe per le difficoltà dell’azienda.
Quando l’operaio era di cattivo umore se la prendeva con il cane e lo chiamava “bastardo”.

Il cane non se la prendeva, perché era la verità.

I figli dell’industriale frequentavano la migliore scuola privata della regione, arrivavano a scuola con il macchinone e avevano il tutor che li aiutava a studiare e a fare i compiti.
I figli del manager frequentavano una scuola del centro, arrivavano a scuola con il fuoristrada della mamma e avevano lezioni private di inglese e informatica.
I figli dell’operaio andavano a scuola in tram (quando pioveva) e facevano i compiti da soli perché la mamma aveva tanto da fare e l’operaio non sapeva le risposte.
L’industriale abitava in una grossa villa con giardino e aveva tre persone di servizio.
Il manager abitava in una graziosa villetta e aveva la colf filippina.
L’operario abitava al settimo piano di un condominio rumoroso.
Il cane si nascondeva dietro i cassonetti dell’immondizia.
L’industriale non voleva che i suoi figli giocassero con i figli del manager e dell’operaio e li mandava in un costoso centro sportivo.
Il manager non voleva che i figli giocassero con i figli dell’operaio e regalava loro sempre nuove playstation.
I figli dell’operaio giocavano con il cane.
Tutti i bambini erano infelici perché, insieme, avrebbero potuto giocare a calcio nel campo dell’oratorio.

Anche i grandi erano infelici.

L’operaio aveva paura del manager, il manager aveva paura dell’industriale, l’industriale aveva paura di morire.
Il cane aveva paura di tutti.
Poi arrivò Natale.
Nella parrocchia dell’industriale, del manager e dell’operaio si faceva ogni anno una “sacra rappresentazione” del mistero della nascita di Gesù e i personaggi erano presi tra la gente.
Essere scelto per la recita natalizia era un motivo di gran prestigio e tutti lo volevano fare.
Così i personaggi venivano tirati a sorte.
L’industriale, il manager e l’operaio furono sorteggiati per personificare i tre Re Magi.
L’industriale si fece fare un prezioso costume dal sarto, il manager noleggiò un magnifico costume da sultano e l’operaio si avvolse nel copriletto della nonna e si dipinse la faccia di nero.
Il cane fu dipinto di bianco per fare la pecorella.
Venne la sera della rappresentazione.
Tutto si svolse in modo meraviglioso.

Alla fine avanzarono solennemente i tre Magi.

Dovevano posare i doni sulla culla del bambino e andarsene.
Si avvicinarono e tesero contemporaneamente le mani verso il bambino, che secondo il copione avrebbe dovuto dormire.
Ma il cane-pecorella abbaiò e il bambino si svegliò.
Gorgogliando felice, spalancò gli occhioni e afferrò con le braccine paffute le sei mani protese verso di lui.
I tre Magi, imbarazzati, tentarono di liberare le mani, ma il bambino scoppiò a piangere e furono costretti a prendere in braccio il bambino tutti e tre insieme, finché non arrivò la mamma del piccolo con il biberon.
I tre Magi scesero dal palco turbati.
Avevano tutti e tre dentro un pensiero del tipo:
“Il bambino è venuto dal cielo per tutti.
Per l’industriale, per il manager e per l’operaio.
E per tutti morirà sulla croce…”
Così, nelle vacanze di Natale, tutti videro i figli dell’industriale, del manager e dell’operaio giocare felici ed insieme sul prato dell’oratorio.
Il cane giocava in porta.

Brano tratto dal libro “Storie di Natale, d’Avvento e d’Epifania.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il filo d’oro

Il filo d’oro

Massimo era un ragazzino davvero strano:
gli piaceva tantissimo sognare ad occhi aperti.
Soprattutto a scuola, quando la lezione non gli interessava molto.
Il maestro, che lo considerava intelligente ma svogliato, gli chiese un giorno, un po’ seccato:
“A cosa stai pensando, Massimo?
Perché non stai attento?”
“Sto cercando di immaginare cosa farò da grande!” rispose il ragazzino.
“Oh, non è una bella cosa!” replicò il maestro, “Cerca di godere quest’età meravigliosa e spensierata e spera che gli anni della giovinezza scorrano lentamente!”
Massimo non riusciva a capire le parole del maestro.

A lui non piaceva aspettare.

Infatti, quando era inverno e pattinava sul ghiaccio, non vedeva l’ora che arrivasse l’estate per poter nuotare; quando poi arrivava la tanto sospirata estate, desiderava l’autunno per poter giocare con il suo aquilone sul grande prato dei giardini pubblici.
Insomma, se qualcuno chiedeva a Massimo quale fosse la cosa che più desiderasse al mondo, riceveva una risposta ben precisa:
“Io vorrei che il tempo passasse in fretta…”
Un giorno d’estate, Massimo si fermò a riposare dopo una corsa sulla panchina del parco.
All’improvviso si sentì chiamare:
si voltò di scatto e vide una vecchietta che lo osservava con dolcezza.
La vecchietta mostrò al ragazzo una scatoletta d’argento con un forellino da cui usciva un filo d’oro e gli disse:
“Guarda, Massimo.
Questo filo sottile è il filo della tua vita.
Se proprio desideri che il tempo per te trascorra velocemente, non devi far altro che tirare un po’ il filo.
Un piccolissimo pezzo di filo corrisponde ad un’ora di vita.
Soltanto, ricordati di non dire a nessuno che possiedi questa scatoletta, altrimenti morirai il giorno stesso!

Tienila, e buona fortuna!”

La vecchietta consegnò al ragazzo la scatoletta e scomparve.
Massimo, tornò a casa, saltellando, con la scatoletta in tasca.
Il giorno dopo, a scuola, il maestro si accorse che Massimo era più distratto del solito e gli fece una bella lavata di capo:
“Ecco!
Sei sempre con la testa fra le nuvole!
Finirai bocciato, te lo posso garantire, se continui così…”
Massimo era veramente stanco di sentir predicozzi e pensò di usare il filo per accorciare le giornate di scuola.
In pratica quasi ogni mattina, tirava un pezzettino di filo e così, appena entrato in classe, sentiva la voce del maestro che diceva:
“Le lezioni sono finite.
Potete andare a casa!”
Il ragazzo era felicissimo:
la vita era un susseguirsi di giornate di vacanza e di giochi all’aria aperta.
Trascorsi un po’ di giorni, però, Massimo cominciò ad annoiarsi e pensò:

“Oh, come sarebbe bello aver già finito la scuola e poter lavorare!”

Una notte in cui non riusciva ad addormentarsi, Massimo decise di dare una bella tiratina al filo e così, la mattina seguente, si svegliò che aveva i baffi, faceva l’ingegnere e aveva messo su una bella fabbrica.
Era molto felice del suo mestiere e per un po’ tirò il filo con moderazione, giusto solo per far arrivare in fretta i soldi a fine mese.
Un giorno, però, un particolare turbò Massimo per un momento:
la sua mamma era invecchiata, aveva già molti capelli grigi.
Si pentì di aver tirato così spesso il filo magico e promise a se stesso che, ora che era grande, non l’avrebbe fatto più.
“Sembra anche a te che tutto sia passato in un soffio?” gli chiedeva la mamma.
Massimo non poteva rispondere e si sentiva molto triste.
Un giorno che sonnecchiava nel parco, sulla solita panchina, il vecchio Massimo si sentì chiamare.
Aprì gli occhi e vide la vecchina che, tanti e tanti anni prima, gli aveva regalato la scatoletta con il filo magico.

“Allora Massimo, com’è andata?

Il filo magico ti ha procurato una vita felice, secondo i tuoi desideri?” gli chiese.
“Non saprei…
Grazie a quel filo non ho mai dovuto attendere o soffrire troppo nella mia vita, ma ora mi accorgo che è passato tutto così in fretta ed eccomi qui, vecchio e debole…” spiegò lui.
“Ah, sì?” disse la vecchina, “E che cosa vorresti, allora?”
“Vorrei tornare ragazzino!” esclamò disse Massimo con un po’ di vergogna, “E poter rivivere la mia vita senza il filo magico.
Vivere come tutte le altre persone e accettare tutto quello che la vita mi riserva, senza più essere impaziente!”
“Lo desideri davvero?” domandò allora l’anziana signora.
“Sì!” disse Massimo senza esitare un attimo, “Quello che ho passato in questi anni mi è servito di lezione e sono sicuro che non ricadrei più negli stessi errori!”
“Se è così, sono davvero felice.
Vedrai che ora gusterai di più la vita e sarai in grado di apprezzarne anche i momenti di fatica e di sconforto che senz’altro incontrerai nel tuo cammino.
Ora non ti resta che restituirmi la scatoletta e…

Buona fortuna, Massimo!”

Appena Massimo pose nella mano della vecchina la scatoletta, cadde in un sonno profondo.
“Ehi, dormiglione!
Sveglia!”
Massimo aprì gli occhi e si trovò nel suo letto, con la mamma (giovane e bella) che lo guardava dolcemente.
Corse allo specchio e vide il suo solito volto paffuto da ragazzino.
Baciò e abbracciò la mamma come fossero cent’anni che non la vedeva più.
Si lavò e si vestì in un baleno, mangiò la colazione come un fulmine e partì per la scuola.
Per la strada incontrò Marta, che era anche lei la solita bambina bionda.
La prese per mano e mentre correvano sul marciapiede le disse:
“Ho un sacco di cose da raccontarti…
Ma tu lo sapevi che la nostra età è la più bella?”

Brano senza Autore

L’uomo, i cappelli e le scimmie

L’uomo, i cappelli e le scimmie

C’era una volta, in una terra lontana della Tunisia, un uomo che faceva il venditore di cappelli nei vari mercati di tutta la sua nazione.
Quest’uomo vendeva dei cappelli a cilindro rossi.

Sembrava che tutti li amassero perché se ne vendevano molti.

Un giorno però, pur avendo girato per diversi mercati, non era riuscito a venderne neanche uno.
Allora tutto sconsolato s’incamminò verso casa con le sue valige piene di questi copricapo.
Sopraggiunse la notte e il venditore si trovò costretto a doverla trascorrere all’aperto, in un piccolo boschetto sulla riva di un fiume.
Prima di andare a dormire si mise uno dei suoi cappelli per ripararsi dalla frescura della notte.
L’uomo non sapeva che intorno a lui c’erano molte scimmie che avevano visto la scena e, normalmente, esse imitano tutto quello che vedono fare.
Allora, quando si addormentò, esse scesero dagli alberi, presero tutti i cappelli che erano nelle valige e se li misero in testa.

La mattina seguente, quando l’uomo si alzò, vide le sue valige aperte e vuote.

Pensò che fosse stata opera dei ladri, fino a quando non sentì un piccolo grido venire dagli alberi e si accorse che tutti i rami erano pieni delle scimmie che indossavano i suoi cappelli.
Allora egli cominciò a gridare e a puntare il dito verso di loro dicendo di restituirgli i cappelli, ma quelle cominciarono a copiare gli stessi movimenti dell’uomo, il quale si arrabbiava sempre di più.
Le scimmie, però, continuavano a copiare i suoi gesti e gridavano più forte.
Fino a quando egli, esasperato e furioso, prese delle pietre e cominciò a tirarle contro quelle bestiole.
Esse allora, continuando a imitarlo, presero dei limoni e li lanciarono contro di lui da tutte le direzioni.

Al massimo della sua esasperazione,

l’uomo si mise le mani in testa e, prendendo con rabbia il suo cappello, lo gettò violentemente a terra.
Come per magia, le scimmie fecero la stessa cosa e dagli alberi lanciarono a terra tutti i cappelli e all’uomo non restò che raccoglierli e rimetterli in valigia.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Per una goccia di miele

Per una goccia di miele

Tanti anni fa, in un villaggio, un uomo aveva appena aperto una bottega di alimentari.
Non faceva grandi guadagni, ma non poteva lamentarsi.
A quel tempo non occorreva molto per vivere dignitosamente ed essere felici.
Un bel mattino, la porta della drogheria si aprì davanti al primo cliente della giornata.
Era il pastore del villaggio vicino, con il suo nodoso bastone in mano e un grosso splendido cane accanto.
“Buongiorno, amico mio!” disse il pastore gentilmente, “Avrei bisogno di un po’ di miele.”
Il droghiere si avvicinò premuroso al banco:
“Buongiorno, signor pastore!
Siate il benvenuto!
Che bel cagnone, il vostro!
Miele avete detto?
Ne ho, certo, e della migliore qualità!
Avete portato un vasetto?
Perfetto!

Quanto ne volete?”

“Una libbra, grazie.
È davvero bello il mio cane, non è vero?” continuò il pastore.
“È l’essere che amo di più al mondo.
È il mio fedele compagno ed è anche molto intelligente.
Dovreste vederlo in azione quando è con me al pascolo…”
Il droghiere annuiva con grandi cenni del capo.
Mentre affondava il mestolo nel barilotto del miele e lo versava nel vasetto del pastore, una goccia di miele cadde a terra.
In quell’istante una mosca, venuta da chissà dove, si lanciò in picchiata sulla goccia.
Il gatto del droghiere, che fingeva di dormire raggomitolato in un angolo, seguì la manovra della mosca con un occhio solo.
Poi scattò come una molla e appiattì la mosca con un solo colpo di zampa.
Fino a quel momento il cane del pastore aveva finto di ignorare la presenza del gatto.
Irritato dal movimento improvviso del gatto, suo nemico atavico, ringhiò e si gettò sulla povera bestiola.

Un parapiglia spaventoso:

latrati, miagolii, zanne e unghie.
Prima che gli uomini potessero fare un solo gesto, il gatto giaceva stecchito ai piedi del padrone.
“Oh, maledetta bestia!
Il mio povero micino…” gridò il bottegaio.
Accecato dalla collera impugnò il primo oggetto pesante che gli capitò tra le mani e colpì ripetutamente il cane:
“Tieni! Così impari!”
Colpito alla testa il povero cane piombò morto al suolo, vicino al gatto.
Il pastore si disperò:
“Selvaggio!
Assassino!
Hai massacrato il mio cane!
Il mio unico amico!
Il mio compagno di lavoro!
Che farò io adesso?
Guarda come finiscono i disgraziati come te!”
Il gigantesco pastore brandì il suo bastone e, folle di rabbia, colpì a morte il droghiere.
“Aiuto!
Correte!
Addosso all’assassino!”
Da una strada all’altra, la notizia della morte del droghiere si diffuse in tutto il villaggio come una folata di polvere sollevata dal vento.
Lugubri rintocchi di campana si mescolarono a grida di collera e di vendetta, insieme a pianti e lamenti.
Uomini, donne, bambini accorrevano da tutte le parti.
Si impadronirono del pastore e lo massacrarono.
Il corpo del pastore fu steso accanto a quello del droghiere, del cane, del gatto e della mosca…
Lassù, nel villaggio vicino, quello del pastore, fu dato l’allarme:

“Aiuto!

Hanno ucciso il nostro pastore…
Andiamo a vendicarlo!”
Gli abitanti del villaggio, armati di pietre, zappe, forconi, cioè di tutto quello che trovarono a portata di mano, alcuni a piedi, altri a cavallo, attaccarono il villaggio nemico.
La loro rappresaglia fu terribile.
Colpirono, uccisero, saccheggiarono, incendiarono…
Gli altri risposero con altrettanta violenza.
Ben presto non rimasero nei due villaggi che cenere, cadaveri e desolazione.
Per combinazione, quei due villaggi così vicini erano sulla linea di due stati diversi.
Il re del primo, messo al corrente della distruzione del suo villaggio di frontiera, s’infiammò di collera, riunì il suo stato maggiore e fece redigere una dichiarazione di guerra che venne affissa in tutti gli angoli del regno.
Il re dell’altro paese non tardò a reagire rendendo pubblico il suo proclama:
“Davanti a Dio e agli uomini, io protesto contro l’arroganza dei nostri vicini.
Il loro re ha calpestato tutti i trattati e le leggi esistenti.
Sono obbligato a rispondere con la forza, in nome dell’Onore e della Giustizia, in nome della Gloria eterna del nostro popolo!”

E scoppiò la guerra.

Una guerra terribile e letale.
I due paesi furono messi a ferro e fuoco.
Durante l’inverno, la primavera, l’estate, per anni e anni.
I campi di grano si trasformarono in campi di battaglia; le fattorie furono devastate, il bestiame massacrato…
La guerra infuriava ancora, quando sopravvenne la carestia, poi le epidemie, i morti senza numero e… il freddo di un inverno che non si era visto a memoria d’uomo.
Sui campi e sui cimiteri coperti di neve dal campanile di un paese lontano giunse l’eco del suono delle campane che si perdeva nel vento gelido.
Era il primo gennaio.
Quei pochi che sopravvissero per miracolo si domandavano e si domandano ancora come e perché tutto questo era potuto cominciare e come sarebbe potuto essere evitato.

Brano tratto dal libro “Parabole e storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Due racconti brevi sull’indifferenza

Due racconti brevi sull’indifferenza
—————————–

La favola e la bambina

La malattia più grave: l’indifferenza

 

—————————–
“La favola e la bambina”

La mia bambina più piccola pretendeva che le leggessi una favola ogni sera prima di andare a dormire.
Un giorno mi venne l’idea di acquistare una serie di audio­cassette con delle fiabe già registrate.
La bimbetta imparò a far funzionare il registratore e tutto andò bene per qualche giorno,

finché una sera non mi cacciò in mano un libro di fiabe.

“Ma cara,” dissi, “lo sai come si accende il registratore!”
“Sì, ma non posso sedermici in braccio!” rispose la bambina.

Brano senza Autore.
—————————–
“La malattia più grave: l’indifferenza”

Un giorno, ad un luminare della medicina venne chiesto quale fosse la più grave malattia del secolo.
I presenti si aspettavano che dicesse il cancro o l’infarto.
Grande fu lo stupore generale quando lo scienziato rispose:

“L’indifferenza!”

Tutti allora si guardarono negli occhi e ognuno si accorse di essere gravemente ammalato.
Infine gli domandarono quale ne fosse la cura.
E lo scienziato disse:
“Accorgersene!”

Brano senza Autore.

La preghiera dell’alfabeto

La preghiera dell’alfabeto

Un povero contadino si recò al mercato col carro.
Purtroppo durante il viaggio si staccò una ruota del carro, ed il tempo perso per ripararla gli impedì di tornare a casa per la notte.
Quando si preparò per andare a dormire si accorse che aveva dimenticato di portare con sé il libro delle preghiere.

Allora pregò in questo modo:

“Ho commesso una grave sciocchezza Signore:
sono partito da casa senza il mio libro di preghiere, e ho così poca memoria che senza di esso non riesco a dire neanche un’orazione.

Ma ecco cosa farò:

reciterò molto lentamente tutto l’alfabeto e Tu, che conosci ogni preghiera, potrai mettere insieme le lettere in modo da formare le preghiere che non riesco a ricordare.”
Disse allora il Signore ai suoi angeli:
“Di tutte le preghiere che oggi ho sentito, questa è la più bella perché è nata da un cuore semplice e sincero!”

Racconto ebraico
Brano senza Autore.

Domenica a Messa senza scuse

Domenica a Messa senza scuse

Una domenica, alla porta della chiesa, fu appeso questo cartello:

“Per consentire a tutti di venire in chiesa domenica prossima, abbiamo organizzato una speciale domenica “senza scuse!”

Saranno sistemati dei letti in sacrestia per tutti quelli che dicono:

“La domenica è l’unico giorno della settimana in cui posso dormire!”

Sarà allestita una speciale sezione di morbide poltrone per coloro che trovano troppo scomodi i banchi.

Un collirio sarà offerto a quelli che hanno gli occhi troppo affaticati dalla nottata alla tv.

Un elmetto d’acciaio temprato sarà regalato a tutti coloro che dicono:

“Se vado in chiesa potrebbe cadermi il tetto in testa!”

Morbide coperte saranno fornite a quelli che dicono che la chiesa è troppo fredda e ventilatori a quelli che dicono che è troppo calda.

Saranno disponibili cartelle segnapunti per coloro che vogliono fare la classifica delle persone “che vanno sempre in chiesa ma sono peggio degli altri.”

Parenti e amici saranno chiamati in soccorso delle signore che non possono, contemporaneamente, andare in chiesa e preparare il pranzo.

Verranno distribuiti dei distintivi con la scritta:

“Ho già dato!” a tutti coloro che sono preoccupati per la questua.

In una navata saranno piantati alberi e fiori per quelli che cercano Dio solo nella natura.

Dottori e infermieri si dedicheranno alle persone che si ammalano sempre e solo di domenica.

Forniremo apparecchi acustici a quelli che non riescono a sentire la predica e tappi per le orecchie per quelli che ci riescono.

La chiesa sarà addobbata contemporaneamente con le stelle di Natale e i gigli di Pasqua per quelli che l’hanno sempre e solo vista così.”

Sarà bellissimo la domenica, vivere la Messa tutti insieme, vi aspettiamo!

Brano senza Autore

Babbo Natale anche a Pasqua

Babbo Natale anche a Pasqua

Ero un bambino di 4 o 5 anni, quando, una sera di dicembre di diversi anni fa, mia madre invito me ed i miei fratelli a recitare una preghiera speciale, prima di andare a dormire, affinché nevicasse.
In quegli anni mio padre si adattava a qualsiasi lavoretto per non farci mancare il necessario, siccome i pochi campi di cui eravamo proprietari non bastavano a sostenere la nostra famiglia.

Qualora avesse nevicato,

per un paio di giorni avrebbe avuto il lavoro assicurato.
Era chiamato a spalare la neve nella vicina stazione ferroviaria, dove veniva retribuito molto bene.
Il ricavato veniva riservato da nostra madre per trascorrere in modo speciale l’imminente Natale, periodo che coincideva anche con il compleanno di nostro padre.
Pregammo con molta devozione, con la fede pura dei bambini e, come per incanto, caddero subito i primi fiocchi di neve.
Ci addormentammo felici dato che il nostro desiderio era stato esaudito e, nei nostri sogni, il manto cresceva a dismisura.

Al mattino, invece,

restammo molto delusi, visto che non vedemmo la neve per strada.
Una abbondante pioggia durante la notte la fece sparire.
Il Natale che seguì fu comunque bello ed indimenticabile poiché il capostazione assegnò lo stesso due giornate di lavoro a mio padre, in cambio della pulitura della strada e di alcuni piccoli lavoretti all’interno della stazione.
Da quel momento in poi associai sempre la figura del nostro capostazione di allora al ruolo di Babbo Natale.
Nella mia immaginazione di bambino, il capostazione in questione, gli assomigliava anche un po’.

Infatti aveva una folta barba bianca,

possedeva pure lui un berretto, anche se di colore e forma diversi, ed il rosso lo si poteva trovare nella sua paletta.
Pensai fosse Babbo Natale anche nel periodo di Pasqua, perché, casualmente, chiamò mio padre perfino qualche giorno prima di questa festività, per fare manutenzione al piccolo giardino ed ai grandi vasi di fiori della stazione.
Il ricavato si tramutò per noi bambini nell’ennesimo inaspettato regalo; ricevemmo infatti quaderni e colori.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa

Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa

Una volta, in una piccola città, uguale a tante altre, cominciarono a succedere dei fatti strani.
I bambini dimenticavano di fare i compiti, i grandi si dimenticavano di togliersi le scarpe prima di andare a dormire, nessuno si salutava più.
Le porte della chiesa rimanevano chiuse.
Le campane non suonavano più.
Nessuno sapeva più le preghiere.

Un lunedì mattina, però, un maestro domandò ai suoi alunni:

“Perché ieri non siete venuti a scuola?”
“Ma ieri era domenica!” risposero gli scolari, “La domenica non c’è scuola!”
“Perché?” chiese il maestro.
Gli alunni non seppero che cosa rispondere.
Si avvicinava il Natale.
“Perché suonano questa musica dolce?”
“Perché sull’albero ci sono le candele?”
Nessuno lo sapeva.

Due amici avevano litigato:

si erano insultati fino a diventare rauchi.
“Ora non ho più nessun amico.” pensava tristemente uno di loro il giorno dopo.
E non sapeva che cosa fare.
La piccola città si faceva sempre più grigia e triste.
La gente diventava ogni giorno più egoista e litigiosa.
“Ho l’impressione di aver dimenticato qualcosa!” ripetevano tutti.
Un giorno soffiava un forte vento tra i tetti, così forte da smuovere le campane della chiesa.

La campana più piccola suonò.

Improvvisamente la gente si fermò e guardò in alto.
E un uomo per tutti esclamò:
“Ecco che cosa abbiamo dimenticato: Dio!”

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Giulia e l’uva

Giulia e l’uva

Una giovane ragazza, di nome Giulia, nel pieno della gioventù, faceva la domestica tuttofare in una dimora di ricchi proprietari terrieri.
Vigeva in quel tempo l’istituto della mezzadria ed i contadini portavano ai padroni i frutti più belli:

le cosiddette regalie.

Nella stanza dove dormiva Giulia avevano, perfino, appeso alle travi del soffitto i più bei grappoli d’uva, delle varietà migliori, per conservarli, dono dei contadini contraenti.
I suoi padroni le avevano raccomandato, pena il licenziamento, di non mangiare per nessun motivo nemmeno un chicco d’uva.
Vuoi per la fame, vuoi per l’essere golosa, Giulia qualche chicco d’uva qua e là lo aveva mangiato, e si augurava che i proprietari non notassero questi piccoli furti.
Ma non fu così, ed i padroni, noti per essere taccagni e avari, la sgridarono pesantemente.

Giulia si difese dicendo:

“Sono stati i topi!
E voi mi fate addirittura dormire con loro!”
I padroni schifati risposero:
“Se è davvero così, puoi mangiarti tutta l’uva che vuoi perché a noi non interessa più!”

Giulia era mia nonna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno