Il genero usurpatore

Il genero usurpatore

Un caratteristico paesello, posto sulla riva destra del fiume Piave ed a ridosso delle colline dell’Asolano, durante la prima guerra mondiale, fu teatro e baluardo del fronte difensivo italiano durante la rovinosa ritirata di Caporetto, venne pesantemente colpito dalle artiglierie Astro-Ungariche.

Difficile e lunga fu la ricostruzione.

Ci fu bisogno dell’intervento dello Stato che assegnò, a delle cooperative venute da fuori, la riparazione dei muri e dei tetti ridotti in macerie.
Tra le laboriose ed esperte maestranze edili, c’erano anche dei baldi giovani e, uno di questi si innamorò, fin da quando la vide, di una ragazza del paese.
Dopo un breve fidanzamento, seguì un matrimonio riparatore, ed il giovane si accasò presso l’abitazione dei suoceri.
Il nuovo arrivato, fin da subito, non rispettò le gerarchie e le tradizioni consolidate e, pensando di essere lui il padrone di casa e dei campi, iniziò a vantarsi senza pudore.
Il suocero, dopo ripetute lamentele ed innumerevoli richiami, gli disse:
“Ragazzo mio, vola basso, sei solo un fortunato ospite!”

Il genero lo prese alla lettera.

Si tagliò con le forbici le ali del cappello e, come segno di sfida, si aggirava in questo modo per il paese, noncurante di poter diventare una macchietta.
Non soddisfatto, una sera, nel tradizionale filò in stalla, davanti agli stupefatti partecipanti sopraggiunti, continuò a vantarsi di essere lui il nuovo padrone, esclamando:
“Ho pure le mucche che ben vedete e le venderemo solo quando lo dirò io!”

Il suocero, stizzito da tali assurde affermazioni, perse le staffe e replicò:

“Se tutto quel che era mio, ora asserisci che sia tuo, prendi anche questo che non può essere disgiunto!”
Terminata la frase, prese una grande manata di sterco fresco di mucca e glielo tirò in piena faccia.
I partecipanti applaudirono alla spettacolare sortita del suocero, nei confronti dello spudorato e ingrato genero che, da quel momento, fu costretto, così malamente conciato, ad abbassare la cresta.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il monaco ed il topolino

Il monaco ed il topolino

Tanti anni fa, in una piccola città scoppiò una grave carestia.
Non si trovava più cibo da nessuna parte.
Tutti gli abitanti, da i ricchi signori ai poveri contadini, erano stremati, deboli ed affamati.
Un giorno, un monaco di nome Cadog arrivò a visitare la città.
Cadog era buono, gentile e cordiale.
Amava sinceramente Dio e tutte le sue creature.
Gli piaceva molto leggere, studiare, scrivere e imparare.
E ogni giorno aveva un visitatore, un minuscolo visitatore, con dei magnifici baffi grigi, il naso a punta e una lunga coda rosa.
Saliva sul tavolo di Cadog, scorrazzava in mezzo ai suoi libri, si infilava tra le penne d’oca che gli servivano per scrivere.

Ma Cadog non se ne preoccupava.

Neanche un pò.
Gli piaceva il topolino e non lo cacciava via come facevano tutti gli altri in città, che davano la caccia ai topi e li uccidevano ritenendoli la causa della carestia.
E forse fu per questo che, un giorno, il topolino arrivò con un regalo.
Sette chicchi dorati
Si arrampicò sul tavolo di Cadog, si infilò tra le sue penne d’oca e, nel bel mezzo dei libri del monaco, lasciò cadere un chicco di grano!
“Grazie, amico mio.” disse Cadog al topolino.
Il topo si sedette, fece un grazioso inchino e squittì, come per dire:
“Non si va mai da un amico a mani vuote.”
Mezz’ora dopo, il topolino ritornò con un altro chicco di grano e di nuovo gentilmente Cadog lo ringraziò.

Il topolino ritornò una terza volta.

Poi una quarta.
E una quinta.
E una sesta volta.
Quando alla fine ci furono sette chicchi di grano sul suo libro, Cadog ebbe un’idea.
Prese un filo di seta rossa e con molta attenzione ne legò l’estremità a una zampa del topolino.
“Non ti disturberà più di tanto,” promise il buon monaco, “e potrà fare un mondo di bene.”
Lasciò andare il topolino, guardando bene da che parte andava.
Il topolino correva molto più velocemente di Cadog, ma il monaco poteva seguire il filo di seta che si srotolava attraverso muri, giardini, boschi, fino a un imponente ammasso di terra.
Il topolino si infilò in una stretta apertura.
Un’enorme quantità di grano.
Cadog corse a chiamare il suo maestro e insieme cominciarono a scavare.
Sepolte sotto la terra e detriti c’erano le rovine di un antico palazzo.
E sepolto nei capaci magazzini del palazzo c’era un’enorme quantità di grano!

Cadog e il maestro corsero ad annunciare la notizia ai loro amici.

E ben presto per tutta la città si sparse il fragrante profumo del pane appena sfornato.
Ora c’era nuovamente cibo per tutti, in attesa della nuova stagione!
Il giorno dopo, il topolino venne a trovare il suo amico, come sempre.
Si arrampicò sul tavolo di Cadog e si infilò tra le sue penne d’oca.
Appena si sedette nel bel mezzo del libro di Cadog, con garbo il monaco gli slegò il filo di seta dalla zampa.
“Grazie, amico mio!” disse, “Dio ti ha mandato da me per un motivo, che solo adesso capisco.
Il tuo acuto naso e le tue zampette hanno salvato l’intera città.”
Poi prese una pagnotta di pane fresco e croccante e lo mise davanti alla piccola creatura.
E il topolino e il monaco condivisero il cibo.
Mangiare insieme è un gesto di riconciliazione

Brano tratto dal libro “L’Eucaristia raccontata ai bambini.” di Bruno Ferrero e Anna Peiretti. Edizione ElleDiCi.

Il sogno ed il tesoro

Il sogno ed il tesoro

Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, Rabbi Bunam raccontava la storia di Rabbi Ezechia, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia.
Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale.
Quando il sogno si ripeté per la terza volta, Ezechia si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga.
Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato.

Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera.

Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno.
Ezechia gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese.
Il capitano scoppiò a ridere:
“E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi?
Ah, ah, ah!
Stai fresco a fidarti dei sogni!
Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Ezechia, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa!
Ezechia, figlio di Jekel, ma scherzi?
Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Ezechia e l’altra metà Jekel!”

E rise nuovamente.

Ezechia lo salutò, tornò a casa sua e cercò sotto la stufa.
Trovò il tesoro e lo dissotterrò e con esso costruì la sinagoga del suo villaggio.
Il maestro divenne famoso mentre era ancora in vita.
Raccontavano che Dio stesso una volta avesse cercato il suo consiglio:
“Voglio giocare a nascondino con l’umanità.
Ho chiesto ai miei angeli quale sia il posto migliore per nascondersi.
Alcuni dicono le profondità dell’oceano.
Altri la vetta della montagna più alta.
Altri ancora la faccia nascosta della luna o una stella lontana.
Tu cosa mi consigli?”

Rispose il maestro:

“Nasconditi nel cuore umano.
È l’ultimo posto a cui penseranno!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il pane buono (La ragazza rom)

Il pane buono
(La ragazza rom)

Tempo fa, sul cader della sera di un sabato qualunque, in una bella e profumata giornata primaverile, stavo innaffiando l’erba ed i fiori del piccolo giardino che adorna la nostra casa, assorto nei lieti pensieri del dolce far niente.
Davanti al cancello, all’improvviso, apparve la figura di una ragazzina.

Chiaramente una Rom, una zingara:

il suo volto ed il suo cencioso abbigliamento non lasciavano certo spazio a dubbi in tal senso.
Con un italiano piuttosto stentato mi chiamò e mi disse:
“Dio ti benedica te e tua famiglia, mi dai pane vecchio per mangiare?”

Le risposi:

“Dove abiti?” (curioso, vero? Quando Dio ci parla, capita spesso che di primo acchito cambiamo discorso)
“Là, vicino fiume Mella!” replicò.
“E di cosa vivi?” le domandai.
“Di quello che mi danno!” esclamò.
“Non vai a scuola?” proseguì.
“No, mai andata!” mi rispose.

“E i tuoi genitori cosa dicono?” chiesi ancora.

“Padre non so, non vedo da tanto, lui carcere; madre dice:
andare prendere qualcosa da mangiare.
Mi dai pane vecchio?” mi chiese nuovamente.
“Sì, certo, scusa, volevi del pane vecchio.
Ho quello fresco, buono, di oggi, vado dentro a prenderti quello!” le dissi mentre mi stavo girando per entrare in casa.
“Buono, hai già dato!” rispose.

Brano senza Autore.

Giosuè e la luce dalla finestra

Giosuè e la luce dalla finestra

Una strana epidemia si abbatté sulla città all’improvviso.
Iniziava come un raffreddore:
i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri.
Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
“Ciò che conta sono i soldi.
Con i soldi si fa tutto.” sostenevano.
Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini.
In certi alloggi la porta d’ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka.
Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini.

I bambini chiedevano:

“Quanto mi date per sparecchiare?”
Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile.
Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio.
L’eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: “Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio.
È dovuta ad un virus che si chiama “sgrinfiacchiappa” ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra.
Si può sfuggire al contagio per un po’ di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c’è un solo rimedio: l’acqua della “Montagna che canta.”
Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato.
Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente.
Perché l’acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.

Logico, no?

Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell’impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla!”
“Noi aspetteremo. Tutti!” giurarono il sindaco e i consiglieri, “Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città!”
“…e vuota le casse comunali!” aggiunse l’assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus “sgrinfiacchiappa.”
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando:
“Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica!”
Si presentarono in duemila.
Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano.
Tutti, meno uno.
Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone.
Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la “Montagna che canta.”
“La cercherò.” disse tranquillamente Giosuè.

“Noi ti aspetteremo.” promise la gente.

“Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo!”
Giosuè mise un po’ di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma ed il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò:
“Anch’io ti aspetterò!”
Salutò tutti e partì.
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell’orizzonte.
“Una volta là, mi basterà cercare la “Montagna che canta.”
Non deve essere difficile.” pensava.
Ma si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all’orizzonte.
Ma Giosuè non si fermava.
Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.

Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo.
Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce.
Era il segno della speranza:
aspettavano l’acqua della generosità portata da Giosuè.
Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo:
“Non ce la ha fatta.
Non tornerà più!”
Ogni notte, c’era qualche luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili.

Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli.

Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la “Montagna che canta.”
Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava.
Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione.
Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse:
“La “Montagna che canta.”?
Certo che so dov’è.
Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti.
Ma è un accidenti di montagna!
Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione!”

“Chi è?” domandò Giosuè.

“Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna!”
“Pazienza, ma io devo salire lassù!” disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
“Buona fortuna!”
La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po’ stonato.
Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia.
Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri.
Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato.

Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò.

Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire.
Pesante com’era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare.
Dopo un po’ il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare.
Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell’acqua della generosità.
Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto:
la gente della città sarebbe tornata felice come prima.
Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua.
Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città.
Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri.
Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza.

La città era completamente avvolta dal buio.

Non c’erano luci sui davanzali delle finestre.
Nessuno lo aveva aspettato.
“È stato tutto inutile…
Se nessuno mi ha aspettato, l’acqua non farà effetto…
Tutta la mia fatica è stata inutile!”
Si avviò mestamente.
Aveva voglia di buttar via l’acqua che gli era costata tanto.
Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò.
C’era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.
“Qualcuno mi ha aspettato!” disse.
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa.
Riconobbe la finestra e la casa.
In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato.
Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Gli abeti

Gli abeti

Una pigna gonfia e matura si staccò da un ramo di abete e rotolò giù per il costone della montagna, rimbalzò su una roccia sporgente e finì con un tonfo in un avvallamento umido e ben esposto.
Una manciata di semi venne sbalzata fuori dal suo comodo alloggio e si sparse sul terreno.
“Urrà!” gridarono i semi all’unisono, “È arrivato il nostro momento!”
Cominciarono con entusiasmo ad annidarsi nel terreno, ma scoprirono ben presto che l’essere in tanti provocava qualche difficoltà, ed esclamavano:
“Fatti un po’ più in là, per favore!”
“Attento!
Mi hai messo il germoglio in un occhio!”

E così via.

Comunque, urtandosi e sgomitando, tutti i semi si trovarono un posticino per germogliare.
Tutti meno uno.
Un seme bello e robusto dichiarò chiaramente le sue intenzioni:
“Mi sembrate un branco di inetti!
Pigiati come siete, vi rubate il terreno l’un con l’altro e crescerete rachitici e stentati.
Non voglio avere niente a che fare con voi.
Da solo potrò diventare un albero grande, nobile e imponente.

Da solo!”

Con l’aiuto della pioggia e del vento, il seme riuscì ad allontanarsi dai suoi fratelli e piantò le radici, solitario, sul crinale della montagna.
Dopo qualche stagione, grazie alla neve, alla pioggia e al sole divenne un magnifico giovane abete che dominava la valletta in cui i suoi fratelli erano invece diventati un bel bosco che offriva ombra e fresco riposo ai viandanti e agli animali della montagna.
Anche se i problemi non mancavano:
“Stai fermo con quei rami!
Mi fai cadere gli aghi!”

“Mi rubi il sole!

Fatti più in là!”
“La smetti di scompigliarmi la chioma?”
L’abete solitario li guardava ironico e superbo.
Lui aveva tutto il sole e lo spazio che desiderava.
Ma una notte di fine agosto, le stelle e la luna sparirono sotto una cavalcata di nuvoloni minacciosi.
Sibilando e turbinando il vento scaricò una serie di raffiche sempre più violente, finché devastante sulla montagna si abbatté la bufera.
Gli abeti nel bosco si strinsero l’un l’altro, tremando, ma proteggendosi e sostenendosi a vicenda.
Quando la tempesta si placò, gli abeti erano estenuati per la lunga lotta, ma erano salvi.
Del superbo abete solitario non restava che un mozzicone scheggiato e malinconico sul crinale della montagna.

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

A volte dimentichiamo…

A volte dimentichiamo…

A volte dimentichiamo la nostra importanza.
A volte dimentichiamo che se siamo qui, su questa terra, c’è una ragione, perché tutto ha motivo di essere; dalla forma di vita più piccola ed immobile a quella più maestosa e preponderante.
A volte dimentichiamo che la nostra vita è fatta per entrare in contatto con quella degli altri e che, attraverso gli altri, essa si evolve, cambia, si “aggiusta” per il futuro.
Quando ci sentiamo vuoti, insensati e senza speranza pensiamo a quanto la nostra vita potrebbe essere diversa se, invece di chiuderci come gabbie intorno alla nostra anima, la lasciassimo libera di portare felicità a chi incontra.
Quello che dimentichiamo più spesso è che abbiamo il diritto di essere felici ma anche il dovere di portare felicità al mondo.

Guardati intorno:

non vedi quanto bisogno c’è di portare felicità?
Tutti sono chiusi nel loro pessimismo, nei loro problemi e sono tristi, chiedendosi che senso ha la vita.
Ma tu, tu puoi dare un senso supremo alla vita, puoi scegliere di portare felicità.
Un sorriso, un gesto gentile, l’allegria e la positività di un pensiero fresco e travolgente.
Cosa ci guadagna il mondo ad esser pieno di gente che tristemente pensa solo a se stessa, ai propri problemi e vede tutto negativo?

Cosa ci guadagni tu?

Non si fa altro che generare brutti pensieri, che generano brutte azioni, che generano rassegnazione ed immobilismo.
Portare felicità al mondo, portare felicità agli altri esseri viventi, non fa altro che portare felicità anche a te stesso.
Portare felicità, con piccoli gesti, pensieri o parole positive che danno speranza, crea energia nuova e buona per il futuro.
Perché se tutti ci ricordassimo di portare felicità e positività in ogni nostro giorno, il mondo sarebbe ben diverso da come è adesso, molte persone sarebbero diverse…

sarebbero felici!

Fai dunque in modo di portare felicità; dissemina nel mondo e nel cuore della gente la “follia” dell’allegria e della positività!
“Non c’è un dovere che sottovalutiamo più del dovere di essere felici.
Quando siamo felici, seminiamo anonimi benefici sul mondo, che restano sconosciuti anche a noi stessi o, se rivelati, sorprendono più di tutti il loro benefattore.”

Brano di Robert Louis Stevenson

Sean e la mucca

Sean e la mucca

In un piccolo pesino dell’Irlanda vivevano una volta un figlio e una madre molto poveri.
Sean che era ancora un ragazzetto, non solo doveva lavorare tutto il giorno ma per arrotondare faceva anche delle scope che poi vendeva al mercato.
Ogni giorno portava a pascolare l’unica mucca che possedevano, e questa dava ogni giorno latte fresco.
Una bella mattina, Sean decise di raccogliere erica per intrecciare e fabbricare nuove scope, e così seguito dalla mucca si spinse oltre il bosco.
Ad un certo punto sentendosi stanco decise di riposarsi in una piccola valletta.
Si sdraiò e d’improvviso vide che tutto il prato era pieno di folletti che cantavano e che giocavano allegramente:

“Beati voi come siete contenti.

Io invece devo lavorare tutto il giorno e non ho mai tempo per giocare.”
“Vieni, vieni a giocare e ci divertiremo.” risposero i folletti.
“Oh grazie,” rispose Sean, “e a che cosa giochiamo?”
“A calcio,” rispose uno dei folletti, “tu stai in porta.”
E così cominciarono a giocare.
Tutto andò per il meglio finché arrivò una pallonata giusto in faccia al ragazzo e per cinque minuti non poté vedere niente.
Tutti gli elfi ridevano a crepapelle, e se ne andarono correndo per il prato.
Quando Sean recuperò la vista, non trovò più la sua mucca e subito pensò che si era persa nel bosco.

Tornò a casa e raccontò quanto era successo alla madre.

Il giorno dopo madre e figlio andarono subito alla ricerca della mucca e solo dopo lunghe ore di ricerca la trovarono morta in un dirupo.
La madre si disperò molto, e si sentiva perduta senza quella mucca che almeno le dava il latte.
Passò del tempo…
Una bella mattina Sean stava intrecciando dell’erica per le scope quand’ecco che scorse due elfi che pascolavano una mucca.
La guardò e la riguardò e ben presto si accorse che quella era la sua mucca.
Si avvicinò le saltò in groppa e la mucca indispettita cominciò a dimenarsi e a correre giù per il prato con i due elfi attaccati alla coda.
E la mucca correva e correva e arrivò nei pressi del lago, e sempre più vicino alla riva, e sempre più vicino all’acqua… finché non si immersero nell’acqua!
Il ragazzo stava dicendo le sue ultime preghiere quando scorse nel fondo del mare un palazzo di cristallo.
Entrarono e scorsero moltissime dame e cavalieri che erano nella sala principale.
Subito gli venne incontro il re.
“Lei si è impossessato della mia mucca!” disse il ragazzo.
“No caro ragazzo questa è la mia mucca, l’ho comprata da due elfi.” rispose il re.
Il ragazzo allora raccontò tutta la storia, ed il re che era un uomo buono propose al ragazzo un borsa piene di monete d’oro in cambio della sua mucca che faceva un ottimo latte.
“Niente affatto,” continuò il ragazzo, “io sono per le cose giuste, quindi rendetemi la mucca di mia madre e io toglierò il disturbo.”

Il re sbalordito per questo rifiuto disse:

“Come puoi rifiutare un’offerta del genere, la mucca è indispensabile qui a corte.
Con il suo latte macchiamo sempre il te delle sei.”
“E a me sicuramente servirà di più, perché noi lassù siamo molto poveri.” esclamò il ragazzo.
Il re commosso da tanta onestà gli concedette la mucca e gli regalò un sacchetto pieno di monete d’oro.
Ma il ragazzo rifiutò: “Penseranno tutti che li ho rubati.
Teneteli pure!”
“Mi sento in torto nei tue confronti ragazzo per cui ti faccio una proposta:
ogni giorno verso le cinque porterai in riva al lago un secchio pieno di latte di mucca e noi lo pagheremo per quanto per noi vale.” concluse il re.
Contento e soddisfatto Sean ritornò a casa e raccontò quello che era successo alla madre che credeva che suo figlio fosse diventato pazzo.
Così il ragazzo la dovette portare in riva al lago e quando vide due folletti uscire dal lago con due pacchettini pieni di monete d’oro restò molto meravigliata.
Così finisce questa storia, Sean si guadagnò sempre onestamente da vivere e visse ancora per molti anni con la sua mamma.

Favola Irlandese.
Brano senza Autore, tratto dal Web

I due passerotti


I due passerotti

Due passerotti se ne stavano beatamente a prendere il fresco sulla stessa pianta, che era un salice.
Uno si era appollaiato sulla cima del salice, l’altro in basso su una biforcazione dei rami.
Dopo un po’, il passerotto che stava in alto, tanto per rompere il ghiaccio, dopo la siesta disse:
“Oh, come sono belle queste foglie verdi!”
Il passerotto che stava in basso la prese come una provocazione.

Gli rispose in modo seccato:

“Ma sei cieco? Non vedi che sono bianche!”
E quello di sopra, indispettito:
“Tu sei cieco! Sono verdi!”
E l’altro dal basso con il becco in su:
“Ci scommetto le piume della coda che sono bianche.

Tu non capisci nulla! Sei matto!”

Il passerotto della cima si sentì bollire il sangue e senza pensarci due volte si precipitò sul suo avversario per dargli una lezione.
L’altro non si mosse.
Quando furono vicini, uno di fronte all’altro, con le piume del collo arruffate per l’ira, prima di cominciare il duello ebbero la lealtà di guardare nella stessa direzione, verso l’alto.
Il passerotto che veniva dall’alto emise un “oh” di meraviglia:
“Guarda un po’ che sono bianche!”

Disse però al suo amico:

“Prova un po’ a venire lassù dove stavo prima!”
Volarono sul più alto ramo del salice e questa volta dissero in coro:
“Guarda un po’… sono verdi.”

Non giudicare nessuno se prima non hai camminato un’ora nelle sue scarpe.

Brano tratto da “Quaranta storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Casa Editrice Elledici.