L’arancia di Natale (L’amicizia)

L’arancia di Natale (L’amicizia)

Un anziano e ricco signore inglese racconta:
“Avevo perso i miei genitori da ragazzo e all’età di nove anni ero stato mandato in un orfanotrofio vicino a Londra.
Sembrava una prigione.
Dovevamo lavorare 14 ore al giorno, in giardino, in cucina, nelle stalle, nei campi.
Così tutti i giorni.
C’era un solo giorno di festa:
il giorno di Natale.
L’unico giorno in cui ogni ragazzo riceveva un regalo:

un’arancia.

Niente dolci.
Niente giocattoli.
Per di più l’arancia veniva data solo a chi non aveva fatto nulla di male durante l’anno ed era sempre stato obbediente.
Questa arancia a Natale rappresentava il desiderio dell’anno intero.
Ricordo il mio primo Natale all’orfanotrofio.
Ero tristissimo.
Mentre gli altri ragazzi passavano accanto al direttore dell’orfanotrofio e tutti ricevevano la loro arancia, io dovevo stare in un angolo del dormitorio.
Questa era la mia punizione per aver voluto scappare dall’orfanotrofio, un giorno d’estate.
Finita la distribuzione dei regali, gli altri ragazzi andarono a giocare in cortile.

Io dovevo stare in dormitorio tutto il giorno.

Piangevo e mi vergognavo.
Mi ero messo una coperta fin sulla testa e stavo rannicchiato là sotto.
Dopo un po’ sentii dei passi nella stanza.
Una mano tirò via la coperta.
Guardai.
Un ragazzino di nome William stava in piedi davanti al mio letto, aveva un’arancia nella mano destra e me la tendeva sorridendo.
Non capivo.
Le arance erano contate, da dove poteva essere arrivata un’arancia in più?
Guardai William e il frutto e improvvisamente mi resi conto che l’arancia era già stata sbucciata e, guardando più da vicino, tutto mi divenne chiaro.
Sapevo che dovevo stringere bene quell’arancia perché non si aprisse.

Che cosa era successo?

Dieci ragazzi si erano riuniti in cortile e avevano deciso che anch’io dovevo avere la mia arancia per Natale.
Ognuno di essi aveva tolto uno spicchio dalla sua arancia e i dieci spicchi erano stati accuratamente messi insieme per creare una nuova, rotonda e delicata arancia.
Quell’arancia è stato il più bel regalo di Natale della mia vita.
Mi ha insegnato quanto può essere confortante la vera amicizia.

Brano senza Autore

Amore, Felicità, Tempo, Amicizia e Saggezza

Amore, Felicità, Tempo, Amicizia e Saggezza

Ciao, il mio nome è Felicità.
Faccio parte della vita, di quelli che credono nella forza dell’amore, che credono che ad una bella storia non possa esserci mai fine.
Sono sposata, lo sapevi?
Sono sposata con il Tempo.
Lui è il responsabile della risoluzione di tutti i problemi.
Lui costruisce cuori, lui medica quelli feriti, lui vince la tristezza…

Io e il Tempo, assieme, abbiamo avuto tre figli:

Amicizia, Saggezza e Amore.
Amicizia è la figlia più grande, una ragazza bellissima, sincera e allegra.
Lei unisce le persone, non ha l’intento di ferire, ma di consolare.
Poi c’è Saggezza, colta, con principi morali.
Lei è quella più attaccata a suo padre, Tempo.
È come se Saggezza e Tempo camminassero insieme!

Il più piccolo è Amore!

Ah, quanto mi fa lavorare lui!
È ostinato, a volte vuole abitare solo in un certo posto…
E a volte dice che è stato concepito per abitare in due cuori e non in uno soltanto.
Eh si, mio figlio Amore è molto complesso.
Quando comincia a far danni, devo chiamare subito suo padre, Tempo, affinché chiuda le ferite procurate dal figlio!

Una persona un giorno mi ha detto:

“Alla fine tutto si sistema sempre… in un modo o nell’altro… se le cose ancora non si sono sistemate è perché non siamo ancora giunti alla fine!”
Per questo ti dico di avere fiducia nella mia famiglia.
Credi in mio marito Tempo, nei miei figli Amicizia, Saggezza e soprattutto credi in mio figlio Amore.
Se avrai fiducia in loro, stai certo che allora io, Felicità, un giorno busserò alla tua porta!
E non dimenticare mai di sorridere …

Brano senza Autore

Il filo d’oro

Il filo d’oro

Massimo era un ragazzino davvero strano:
gli piaceva tantissimo sognare ad occhi aperti.
Soprattutto a scuola, quando la lezione non gli interessava molto.
Il maestro, che lo considerava intelligente ma svogliato, gli chiese un giorno, un po’ seccato:
“A cosa stai pensando, Massimo?
Perché non stai attento?”
“Sto cercando di immaginare cosa farò da grande!” rispose il ragazzino.
“Oh, non è una bella cosa!” replicò il maestro, “Cerca di godere quest’età meravigliosa e spensierata e spera che gli anni della giovinezza scorrano lentamente!”
Massimo non riusciva a capire le parole del maestro.

A lui non piaceva aspettare.

Infatti, quando era inverno e pattinava sul ghiaccio, non vedeva l’ora che arrivasse l’estate per poter nuotare; quando poi arrivava la tanto sospirata estate, desiderava l’autunno per poter giocare con il suo aquilone sul grande prato dei giardini pubblici.
Insomma, se qualcuno chiedeva a Massimo quale fosse la cosa che più desiderasse al mondo, riceveva una risposta ben precisa:
“Io vorrei che il tempo passasse in fretta…”
Un giorno d’estate, Massimo si fermò a riposare dopo una corsa sulla panchina del parco.
All’improvviso si sentì chiamare:
si voltò di scatto e vide una vecchietta che lo osservava con dolcezza.
La vecchietta mostrò al ragazzo una scatoletta d’argento con un forellino da cui usciva un filo d’oro e gli disse:
“Guarda, Massimo.
Questo filo sottile è il filo della tua vita.
Se proprio desideri che il tempo per te trascorra velocemente, non devi far altro che tirare un po’ il filo.
Un piccolissimo pezzo di filo corrisponde ad un’ora di vita.
Soltanto, ricordati di non dire a nessuno che possiedi questa scatoletta, altrimenti morirai il giorno stesso!

Tienila, e buona fortuna!”

La vecchietta consegnò al ragazzo la scatoletta e scomparve.
Massimo, tornò a casa, saltellando, con la scatoletta in tasca.
Il giorno dopo, a scuola, il maestro si accorse che Massimo era più distratto del solito e gli fece una bella lavata di capo:
“Ecco!
Sei sempre con la testa fra le nuvole!
Finirai bocciato, te lo posso garantire, se continui così…”
Massimo era veramente stanco di sentir predicozzi e pensò di usare il filo per accorciare le giornate di scuola.
In pratica quasi ogni mattina, tirava un pezzettino di filo e così, appena entrato in classe, sentiva la voce del maestro che diceva:
“Le lezioni sono finite.
Potete andare a casa!”
Il ragazzo era felicissimo:
la vita era un susseguirsi di giornate di vacanza e di giochi all’aria aperta.
Trascorsi un po’ di giorni, però, Massimo cominciò ad annoiarsi e pensò:

“Oh, come sarebbe bello aver già finito la scuola e poter lavorare!”

Una notte in cui non riusciva ad addormentarsi, Massimo decise di dare una bella tiratina al filo e così, la mattina seguente, si svegliò che aveva i baffi, faceva l’ingegnere e aveva messo su una bella fabbrica.
Era molto felice del suo mestiere e per un po’ tirò il filo con moderazione, giusto solo per far arrivare in fretta i soldi a fine mese.
Un giorno, però, un particolare turbò Massimo per un momento:
la sua mamma era invecchiata, aveva già molti capelli grigi.
Si pentì di aver tirato così spesso il filo magico e promise a se stesso che, ora che era grande, non l’avrebbe fatto più.
“Sembra anche a te che tutto sia passato in un soffio?” gli chiedeva la mamma.
Massimo non poteva rispondere e si sentiva molto triste.
Un giorno che sonnecchiava nel parco, sulla solita panchina, il vecchio Massimo si sentì chiamare.
Aprì gli occhi e vide la vecchina che, tanti e tanti anni prima, gli aveva regalato la scatoletta con il filo magico.

“Allora Massimo, com’è andata?

Il filo magico ti ha procurato una vita felice, secondo i tuoi desideri?” gli chiese.
“Non saprei…
Grazie a quel filo non ho mai dovuto attendere o soffrire troppo nella mia vita, ma ora mi accorgo che è passato tutto così in fretta ed eccomi qui, vecchio e debole…” spiegò lui.
“Ah, sì?” disse la vecchina, “E che cosa vorresti, allora?”
“Vorrei tornare ragazzino!” esclamò disse Massimo con un po’ di vergogna, “E poter rivivere la mia vita senza il filo magico.
Vivere come tutte le altre persone e accettare tutto quello che la vita mi riserva, senza più essere impaziente!”
“Lo desideri davvero?” domandò allora l’anziana signora.
“Sì!” disse Massimo senza esitare un attimo, “Quello che ho passato in questi anni mi è servito di lezione e sono sicuro che non ricadrei più negli stessi errori!”
“Se è così, sono davvero felice.
Vedrai che ora gusterai di più la vita e sarai in grado di apprezzarne anche i momenti di fatica e di sconforto che senz’altro incontrerai nel tuo cammino.
Ora non ti resta che restituirmi la scatoletta e…

Buona fortuna, Massimo!”

Appena Massimo pose nella mano della vecchina la scatoletta, cadde in un sonno profondo.
“Ehi, dormiglione!
Sveglia!”
Massimo aprì gli occhi e si trovò nel suo letto, con la mamma (giovane e bella) che lo guardava dolcemente.
Corse allo specchio e vide il suo solito volto paffuto da ragazzino.
Baciò e abbracciò la mamma come fossero cent’anni che non la vedeva più.
Si lavò e si vestì in un baleno, mangiò la colazione come un fulmine e partì per la scuola.
Per la strada incontrò Marta, che era anche lei la solita bambina bionda.
La prese per mano e mentre correvano sul marciapiede le disse:
“Ho un sacco di cose da raccontarti…
Ma tu lo sapevi che la nostra età è la più bella?”

Brano senza Autore

Tonto Zuccone, le domande e gli scherzi

Tonto Zuccone, le domande e gli scherzi
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Il braccio più corto

Le mani

Le balbuzie

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“Il braccio più corto”

 

L’assistente sociale che seguiva Tonto Zuccone sbrigò le pratiche burocratiche affinché potesse avere la pensione di invalidità, poiché ne aveva alquanto bisogno.
La commissione medica gli pose tante domande.
Tonto riuscì a suscitare tanta ilarità per il modo in cui rispondeva.
Il presidente gli disse alla fine:
“Puoi andare, ti assegniamo un piccolo vitalizio per le tue difficoltà!”

Tonto, allora, chiese:

“Me lo date perché, come mi dicono in tanti, mi manca un venerdì?”
Il presidente rispose:
“Anche per quello, ma soprattutto per una cosa che puoi verificare anche tu; prova a stendere la mano ed il braccio sinistro e porta poi la mano destra all’altezza del gomito!”
Tonto fece la prova ed esclamò:
“Adesso capisco perché ho un braccio uno più lungo e uno più corto!
Non me ne ero mai accorto prima ed è per questo che non ho l’olio di gomito per poter lavorare!”

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“Le mani”

 

Tonto Zuccone si trovava sulla strada di fronte al bar, che di solito frequentava, ad osservare, ad una distanza ravvicinata, degli operai che stavano lavorando vicini ad un tombino, per un guasto alle tubature dell’acqua.
Era fermo con le mani dietro la schiena, divertito a sentire le loro imprecazioni.
Fu richiamato dal capo cantiere che, stizzito, gli intimò:

“Non ti vergogni?

Tu stai con le mani dietro la schiena, mentre noi lavoriamo e sudiamo sette camicie!”
Tonto si portò istintivamente le mani davanti al petto e fu di nuovo aggredito verbalmente dal capo cantiere:
“Con questa postura vuoi farci capire, forse, che ci stai prendendo per i fondelli?”
Tonto imbarazzato rispose:
“Ma le mani dove le posso mettere?”
La risposta non si fece attendere:
“Prima nel portafoglio e poi vai al bar a prenderci da bere!”

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“Le balbuzie”

 

Tonto Zuccone fu inviato dai suoi famigliari a fare esperienza come apprendista, non retribuito, in una falegnameria artigianale.
In questa falegnameria si creava un po’ di tutto, dagli arredi agli infissi e, in caso di necessità, anche casse da morto.
Tonto nella prima giornata di lavoro fu posto a levigare e verniciare proprio una di queste.
Durante un momento di assenza del titolare fu invitato, con insistenza da altri apprendisti, a stendersi dentro la barra, con la motivazione di verificare se fossero presenti fessure.
Una volta disteso, i suoi colleghi di lavoro chiusero di botto la cassa, sedendosi sopra il coperchio e impedendogli di uscire, iniziando a recitare a voce alta le preghiere dei defunti.

Tonto, spaventato a morte e angosciato dal buio, cercò con tutte le sue forze di sollevare il coperchio.

Provò più volte ad aprire e, solo dopo molto insistere, riuscì ad uscire.
Purtroppo, a causa dello spavento e del molto gridare, Tonto da quel momento iniziò a balbettare vistosamente, aggravando il suo stato di ragazzo sfortunato, trovandosi tra l’altro con un nome e un cognome che non promettevano niente di buono.
Eppure, nonostante tutto, seppe rilegarsi momenti di vera e genuina felicità tutta da narrare.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

C’era una volta una città che si chiamava Cittallegra.
In quella città alla gente piaceva ridere, parlare e riunirsi per fare festa.

I giorni più belli erano le domeniche.

La gente trovava bello riunirsi in chiesa, ascoltare il sacerdote, cantare i canti religiosi e poi tornare a casa per mangiare insieme l’arrosto.
Cittallegra era una cittadina molto carina, solo che la gente non riusciva a diventare ricca!
Le loro case erano più piccole delle case di altre città e le stradine più strette.
Quando andavano a visitare altre città, i cittallegrini si vergognavano.
“Qualcosa deve cambiare!” decisero i cittadini, e si riunirono per stabilire da dove cominciare.
“Aboliamo le domeniche e le feste, ci saranno giorni in più per lavorare!” fu la prima proposta che incontrò il favore di tutti.
“Ci servono più lavoratori!” e perciò si decise di mandare nelle fabbriche anche le donne.
Ma le donne avevano già tanto da fare a casa per la famiglia e per la cura dei genitori o dei nonni.

Allora i cittadini decisero:

“I bambini vanno all’asilo, i vecchi all’ospizio e i malati all’ospedale!”
Cittallegra diventò un grande cantiere e le imprese edili crescevano sempre di più; esse demolivano, ricostruivano, spianavano piazze, allargavano le strade!
“Perché la nostra città si chiama Cittallegra?” chiese un cittadino, “Sarebbe molto meglio chiamarla Cittalavoro!”
Questa proposta piacque tanto che venne subito accolta.
Cittalavoro cresceva sempre di più:
divenne grande, grigia, rumorosa, noiosa, pericolosa.
Sulle strade correvano le macchine e i pedoni avevano paura.
La gente non si incontrava più come una volta, anzi le persone non si conoscevano più, non si salutavano più.
La domenica era un giorno come gli altri.
Un giorno, i bambini dell’asilo andarono nell’ospizio dei nonni.
“È vero che Cittalavoro prima si chiamava Cittallegra?” chiesero i piccoli.

“Sì, questo è vero!” risposero i nonni.

“Ed era anche una città più allegra?” chiesero allora i bambini.
“Molto più allegra!” spiegarono i nonnini.
“Come mai, poi, tutto è cambiato?” proseguirono i bambini.
“Tutto cominciò quando tolsero le domeniche e le feste!” conclusero i nonni.
I bambini spalancarono gli occhi e domandarono:
“Feste?
Che cosa sono le feste?”

Brano tratto dal libro “I dieci comandamenti raccontati ai bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Che cos’è il virtuale?

Che cos’è il virtuale?

Un giorno entrai di fretta e molto affamato in un ristorante.
Scelsi un tavolo lontano da tutti, poiché volevo approfittare dei pochi minuti che avevo a disposizione quel giorno, per mangiare e per continuare a programmare un sistema che stavo creando.
Avevo, inoltre, voglia di progettare le mie vacanze che, ormai, da molto tempo, non sapevo cosa fossero…
Ordinai del salmone, insalata e succo d’arancia, cercando di conciliare la mia fame con la mia dieta.
Aprì il mio notebook e nello stesso tempo mi spaventai per quella voce bassa dietro di me:
“Signore, mi dà qualche soldo?”

“Non ne ho, piccolo!” gli risposi.

“Solo qualche spicciolo per un pezzo di pane.” insistette lui.
“Va bene, te ne compro uno io!” esclamai.
Tanto per cambiare la mia casella di posta elettronica era piena di e-mail.
Rimasi un po’ distratto a leggere alcune poesie, bei messaggi, a ridere di quei banali scherzi.
Ahhh! Quella musica mi portava a Londra, ricordando un bellissimo tempo passato.
“Signore, chieda che venga messo un po’ di burro e formaggio nel mio panino!” continuò il bambino.
Lì mi accorsi che era ancora al mio fianco.
“Ok! Ma dopo mi lasci lavorare, sono molto occupato, d’accordo?” domandai.
Arrivò il mio pranzo e con esso la realtà.
Feci la richiesta del piccolo e il cameriere mi chiese se avessi voluto che il bambino fosse allontanato.
La mia coscienza mi impedì di prendere una decisione, ed alla fine risposi:
“No, va tutto bene!
Lo lasci pure stare, gli porti il suo panino e qualcos’altro di decente da mangiare.”
Allora il bambino si sedette di fronte a me e mi chiese:

“Signore, che sta facendo?”

“Leggo le e-mail!” risposi.
“E che sono le e-mail?” mi domandò.
“Sono messaggi elettronici inviati dalle persone via internet.”
Sapevo che non avrebbe capito nulla, e per evitare ulteriori domande dissi:
“È come se fosse una lettera ma si invia tramite internet.”
“Signore, lei ha internet?” mi chiese allora.
“Si ce l’ho, è essenziale nel mondo di oggi!” risposi.
“E cos’è Internet, signore?” proseguì il bambino.
“È un posto nel computer dove possiamo vedere e ascoltare molte cose, notizie, musica, conoscere gente, leggere, scrivere, sognare, lavorare, imparare.
Ha tutto, ma in un mondo virtuale.” gli spiegai.

“E cos’è il virtuale, signore?” domandò.

Decisi di dargli una spiegazione molto semplice, con la consapevolezza che capirà ben poco, ma così mi lascerà in pace e mi farà pranzare liberamente…
“Virtuale è un posto che noi immaginiamo, qualcosa che non possiamo toccare, raggiungere.
Un luogo in cui creiamo un sacco di cose che ci piacerebbe fare.
Creiamo le nostre fantasie, trasformiamo il mondo quasi in quello che vorremmo che fosse.” gli dissi.
“Che bello, mi piace!” esclamò il piccolo.
“Piccolo, hai capito cos’è il virtuale?” chiesi, allora, io.
“Si signore, vivo anche io in quel mondo virtuale.” replicò il bimbo.
“E tu hai il computer?” gli domandai

“No, ma anche il mio mondo è di quel tipo lì… virtuale!” mi disse, e poi continuò:

“Mia madre passa fuori l’intera giornata, arriva molto tardi e spesso non la vedo neanche.
Io bado a mio fratello piccolo che piange sempre perché ha fame, così io gli do un po’ d’acqua e lui pensa che sia la minestra.
Mia sorella grande esce tutto il giorno, dice che va a vendere il proprio corpo, ma io non capisco, visto che poi ritorna sempre a casa con il suo corpo.
Mio padre è in carcere da molto tempo.
Ed io immagino sempre tutta la famiglia insieme a casa, molto cibo, molti giocattoli a Natale, ed io che vado a scuola per diventare un giorno un grande medico.
Questo non è virtuale, signore?”
Chiusi il mio notebook, non prima che le mie lacrime cadessero sulla tastiera.
Aspettai che il bambino finisse letteralmente di “divorare” il suo piatto, pagai il conto e lasciai il resto al piccolo, che mi ripagò con uno dei più bei sorrisi che io abbia mai ricevuto in vita mia, dicendomi:
“Grazie signore, lei è un maestro!”
Lì, in quel momento, ebbi la più grande dimostrazione di virtualismo insensato in cui viviamo ogni giorno, circondati da una vera cruda realtà e spesso facendo finta di non percepirla!

Brano senza Autore

La cattedrale con magnifiche vetrate

La cattedrale con magnifiche vetrate

C’è una cattedrale con magnifiche vetrate!
Una di esse, in particolare, attira l’attenzione per la sua singolare bellezza ed i giochi di luce.

Ecco la sua storia:

Durante la costruzione della cattedrale il maestro e gli artigiani più bravi lavoravano in laboratori allestiti all’interno del cantiere.
Un mattino, al maestro si presentò un giovane forestiero che portava alla cintura gli arnesi da artigiano.
“Ho già gli operai e gli scultori che mi servono!” disse il maestro ed indicò, sgarbatamente, la porta d’uscita allo straniero.
“Non chiedo di lavorare le pietre!” disse lo sconosciuto.
“Mi piacerebbe soltanto realizzare una vetrata, come prova, senza alcun impegno o spesa da parte vostra!”
Il maestro accettò e concesse al giovane una vecchia “baracca” inutilizzata accanto alla discarica del cantiere.

Nei mesi seguenti nessuno gli badò.

Il giovane lavorava nella sua “baracca” silenzioso ed alacre!
E venne il giorno in cui portò fuori la sua opera segreta.
Era una vetrata di incredibile splendore, con colori luminosi che nessuno aveva mai visto prima.
Senza dubbio più incantevole di tutte le altre vetrate della cattedrale!
La fama della stupenda vetrata si sparse e cominciò ad arrivare gente, da vicino e da lontano, per ammirarla.
“Dove hai preso tutti questi meravigliosi pezzi di vetro così brillanti e luminosi?” chiedevano, sorpresi ed eccitati allo stesso tempo, i maestri artigiani.

E lo straniero rispose:

“Oh, ho trovato frammenti qua e là, dove lavoravano gli operai!
Questa vetrata è fatta con i pezzi scartati da altri come inutili!” (Racconto per Pasqua)

Brano senza Autore

Realizzate i vostri sogni

Realizzate i vostri sogni
Discorsi ai Laureati del 2020
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Discorso di Bill Gates


Discorso di Steven Spielberg


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“Discorso di Bill Gates”


Qualcuno di voi potrebbe essere stato ispirato da questa crisi a perseguire carriere nell’epidemiologia o nel campo della salute.
È fantastico, ma non è l’unico modo per contribuire.
I politici avranno molte decisioni da prendere nei mesi e negli anni a venire su come riprenderci da questa crisi e su come impedire che si ripeta.
Potete usare la vostra voce e il vostro voto per sostenere politiche che creino un futuro più sano e migliore per tutti, ovunque.
La cosa importante da ricordare dei percorsi di carriera è che non devono durare per sempre.

Quando avevo vent’anni,

pensavo che avrei lavorato nel settore dei software per sempre.
Non mi sono mai visto lavorare nella filantropia o nella salute globale, per non parlare del fatto di lasciare il mio lavoro in Microsoft per occuparmi di questi temi a tempo pieno.
Man mano che invecchierete, i vostri interessi e le vostre abilità si evolveranno.
Il mio consiglio è di essere aperti al cambiamento.
Non abbiate paura di provare qualcosa di nuovo.

Bill Gates
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“Discorso di Steven Spielberg”


I sogni sono un ottimo test.
Perché un sogno metterà alla prova la vostra determinazione e riconoscerete un sogno da quanto è irrealizzabile.

Un vero sogno è qualcosa che non solo attrae ma a cui ci si può anche aggrappare.

E vi supporterà attraverso ogni ostacolo che le persone e il vostro ambiente lanceranno contro di voi.
Perché se noi siamo al servizio dei nostri sogni, invece che i nostri sogni al nostro servizio, si crea qualcosa di più grande.
Ciò ci permette di superare la nostra paura di andare avanti, indipendentemente dagli ostacoli che troveremo sul nostro cammino.

Steven Spielberg
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La formichina e la forza dell’amore

La formichina e la forza dell’amore

Il Re Salomone, un giorno, gironzolando per il deserto fu attratto da un formicaio!
Tutte le formiche si precipitarono ad ossequiare le sante impronte del Re.

Una sola non si curò minimamente della sua presenza!

Continuò, imperturbabile, a lavorare con invariata alacrità senza fermarsi un attimo.
Stava ai piedi di una duna di sabbia ed il Re si chinò su di lei, chiedendo:
“Che cosa fai, formichina?”
Senza distrarsi un attimo dal lavoro la formica gli rispose:
“Vedi, Re dei Re, un granello dopo l’altro io porto altrove questa duna!”

“Formichina generosa!”

le disse Salomone, “Non è un lavoro sproporzionato per le tue forze?
Questa duna è così alta che neanche riesci a vederne la cima.
Neanche con la longevità di Matusalemme, e la pazienza di Giobbe, potresti sperare di spostare questa duna!”
“Gran Re!” riprese la formica, “Faccio questo per amore della mia amata!

Questa duna mi separa da lei.

Niente e nessuno mi potrà impedire di abbatterla!
E se quest’opera dovesse consumare tutte le mie forze, almeno morirò nella misteriosa e felice follia della speranza!”
Così parlò la formica innamorata.
In questo modo il Re Salomone scoprì, sul sentiero del deserto, quanto può essere forte e coraggioso l’amore!

Brano senza Autore

La divisione dei fagioli

La divisione dei fagioli

Correva l’anno bisestile 1948.
Uno dei primi anni in cui l’Italia stava cercando di riprendersi dalla seconda guerra mondiale, con una difficile ricostruzione da cui ripartire, mentre il mondo stava per dividersi in due blocchi geopolitici, quello comunista e quello occidentale, che daranno inizio, nei successivi anni, alla guerra fredda ed alla costruzione del muro di Berlino.
La società veneta era in grande fermento, soprattutto quella contadina, aggravata dall’atavico assetto dell’istituzione patriarcale, che costringeva a vivere e lavorare, sotto lo stesso tetto, fratelli con prole allora numerosa.
A gestire, con le rigide regole di quell’epoca, era di norma il vecchio capofamiglia che, quando veniva a mancare,

rendeva la divisione per i figli quasi obbligatoria.

Erano le donne a proporre maggiormente i propri uomini per la gestione del nucleo famigliare e per la divisione dei beni, sperando di ottenere più autonomia e libertà.
La parola più gettonata era democrazia.
Non sempre la divisione avveniva in un clima sereno.
Risultava sempre difficile ottenere la parte migliore dal poco che si aveva e, nel tirare la coperta troppo corta, qualcuno rimaneva sempre scoperto.
In questo contesto, a Levada, due fratelli decisero di procedere alla spartizione dell’eredità, assoldando un mediatore per dividere casa, terra e bestiame.
Per le cose restanti decisero di fare da soli, per cercare di risparmiare.

Sorsero, però, subito dei problemi.

L’incidente più eclatante avvenne nel granaio dove, dopo essersi strattonati per la divisione di un sacco di mais e uno di preziosi e nutrienti fagioli, fecero cadere per le scale i due sacchi, che si ruppero.
I cereali si mischiarono con i legumi provocando un vero e proprio disastro, anche se l’aspetto cromatico dei vari colori era veramente bello da vedere.
Tutta la famiglia, bambini compresi, fu costretta a separare i due prodotti con una pazienza certosina, ma nel contempo aiutò tutti a riflettere ed a riportare calma e armonia.
La divisione dei beni proseguì.
Grazie a questo episodio nacque una grande e duratura solidarietà, che si perpetuò nel tempo.
Anche oggi, i discendenti diretti beneficiano di quel particolare episodio.
Inoltre ne trae giovamento anche il paese, che li fa operare in armonia per la riuscita della festa patronale.

Emilio Durighello,

testimone bambino di allora, si commuove nell’evocare l’episodio e conserva gelosamente, ancora oggi, una piccola manciata di quei fagioli, riservati per il gioco collettivo della tombola.
Per il proprietario, il tempo trascorso li ha impreziositi di valore, dato che, quei fagioli fanno riaffiorare nella sua mente un vivo ricordo della singolare vicissitudine famigliare.
I fagioli possiedono, come caratteristica magica, la forza di unire e mai quella di dividere, come avviene nel campo, nel baccello, in pentola ed in famiglia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno