L’Ape Car e la Ferrari

L’Ape Car e la Ferrari

Qualche anno fa, dovendo sbrigare delle commissioni in un paese vicino al mio, passai davanti ad una osteria, molto nota per le sue tipicità.
Nei parcheggi notai l’Ape Car di un mio amico pittore, con in cima il suo cavalletto ed il suo inseparabile “bastardino”, ed a fianco parcheggiata una Ferrari rossa fiammante, orgoglio Italiano che tutto il mondo ci invidia.

Essendo un tifoso del cavallino rampante,

la tentazione di conoscere il fortunato possessore prese il sopravvento su di me, e per questa ragione, entrai incuriosito nel locale.
Il mio amico pittore, vedendomi entrare, mi fece festa e mi invitò al suo tavolo, dove, accanto a lui, sedeva un distinto signore, che scoprii essere il ferrarista.
Mi dissero di essere cugini e di essere nati in una grande famiglia patriarcale allevati a polenta, patate e fagioli.

Il destino fece sì che prendessero strade diverse,

con risultati vistosamente differenti.
Il primo con i colori, il pennello e tanta libertà sprecata, senza successo economico ed artistico, e con una Ape Card che la diceva lunga.
L’altro, con una formazione tecnica avuta frequentando una scuola serale, era diventato un affermato industriale sull’onda del miracolo economico del nord est, con tanto di Ferrari con cui sfrecciare, ma con tante responsabilità da onorare, come presidente di una industria.

Mi invitarono a condividere con loro un piatto di cotechino fumante,

specialità proposta dall’osteria, e fu bello vederli felici, a leccarsi le dita ed a ricordare la loro infanzia povera, quando avevano un capotto in due.
Entrambi erano orgogliosi del loro stato attuale anche se abissalmente differente.
Grazie ad un buon bicchiere di vino rosso facemmo una riflessione sul lavoro e sulle differenze nella vita e nella società, e soprattutto un confronto sulle differenze tra l’Ape Car e la Ferrari.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Sono grata per…

Sono grata per…

Sono grata per mio marito, che si lamenta, quando la sua cena non è pronta, perché è a casa con me.
Per mia figlia, che si sta lamentando, perché deve lavare i piatti, perché questo significa che è a casa e non per strada.

Per le tasse che pago, perché questo significa che ho un impiego.

Per il caos da pulire dopo una festa, perché questo significa che sono stata circondata da amici.
Per i vestiti che sono stretti, perché questo significa che ho abbastanza da mangiare.
Per la mia ombra che mi guarda lavorare, perché questo significa che sono fuori, al sole.
Per il prato che ha bisogno di essere tagliato, le finestre che hanno bisogno di essere pulite e le grondaie che hanno bisogno di essere aggiustate,

perché questo significa che ho una casa.

Per tutte le lamentele che sento sul governo, perché questo significa che abbiamo libertà di parola.
Per il parcheggio che trovo lontano da casa, perché questo significa che posso camminare e che sono stata benedetta con un mezzo di trasporto.
Per la cara bolletta del riscaldamento, perché questo significa che sono al caldo.
Per la donna che sì seduta dietro di me in chiesa, che canta stonata,

perché questo significa che posso sentire.

Per il mucchio di vestiti da stirare, perché questo significa che ho vestiti da indossare.
Per la stanchezza e i muscoli che mi fanno male alla fine della giornata, perché questo significa che ho potuto lavorare duramente.
Per la sveglia che suona presto di mattina, perché questo significa che sono in vita.
E finalmente, per questa lettera, perché questo significa che ho amici che stavano pensando a me!

Brano tratto dal libro “Piccole storie per riflettere.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Un padre premuroso (L’abbraccio dell’orso)

Un padre premuroso
(L’abbraccio dell’orso)

Un uomo molto giovane aveva appena avuto un figlio e viveva per la prima volta l’esperienza della paternità.
Nel suo cuore regnavano la gioia e l’amore, che scorrevano a fiumi dentro di lui.
Un giorno gli venne voglia di entrare in contatto con la natura perché, da quando era nato il suo bimbo, vedeva tutto bello e perfino il rumore di una foglia che cadeva gli sembrava musica.
Decise quindi di andare nel bosco per goderne tutta la bellezza e sentire il canto degli uccelli.
Camminava placidamente respirando l’umidità che c’è in quei posti quando, improvvisamente, vide un’aquila su un ramo, e fu sorpreso dalla sua bellezza.
Anche l’aquila aveva avuto la gioia di avere dei piccoli, ed aveva intenzione di arrivare fino al fiume più vicino, catturare un pesce,

e portarlo nel suo nido come cibo per i suoi aquilotti.

Era una responsabilità molto grande allevare e formare i suoi piccoli, affrontando le sfide che la vita offre.
Nel notare la presenza dell’uomo, l’aquila lo guardò e gli chiese:
“Dove vai buon uomo?
Vedo nei tuoi occhi la gioia.”
L’uomo le rispose:
“Sai mi è nato un figlio e sono venuto nel bosco perché sono felice.
D’ora in poi lo proteggerò sempre, gli darò da mangiare, e non permetterò mai che soffra il freddo.
Giorno dopo giorno lo difenderò dai nemici che avrà e non lascerò mai affrontare situazioni difficili.
Non permetterò che mio figlio abbia le stesse difficoltà che ho avuto io, non dovrà mai sforzarsi per nessuna cosa.
Come padre, sarò forte come un orso, e con la potenza delle mie braccia lo circonderò, l’abbraccerò e non permetterò mai che niente e nessuno possa turbarlo.”
L’aquila lo ascoltava attonita, senza riuscire a credere a ciò che udiva.

Poi lo guardò e gli disse:

“Ascoltami bene.
Quando la natura mi ha dato l’ordine di covare le mie uova, di costruirmi un nido, confortevole, sicuro, protetto dai predatori, mi ha detto anche di mettere dei rami con molte spine, e sai perché?
Perché quando i miei piccoli saranno forti per volare, farò sparire tutta la comodità delle piume.
Non resistendo sulle spine, si vedranno costretti a costruirsi il proprio nido.
Tutta la valle sarà per loro, a patto che realizzino con i loro sforzi l’aspirazione di conquistarla.
Se li abbracciassi, la loro aspirazione verrebbe frenata, e questo distruggerebbe in maniera irreversibile la loro individualità, ne farebbe degli individui indolenti senza coraggio di lottare, né gioia di vivere.

Prima o poi piangerei per il mio errore,

perché vedrei i miei aquilotti trasformati in ridicoli rappresentanti della loro specie, e mi riempirei di rimorso e gran vergogna nel vedere l’impossibilità di gioire per i loro trionfi.
Io, amico mio,” disse l’aquila, “amo i miei figli più d’ogni altra cosa, però non sarò mai complice della loro superficialità e immaturità!”
L’aquila tacque, poi, con maestosità si alzò in volo per perdersi all’orizzonte.
L’uomo tornandosene a casa, meditò sul terribile errore che avrebbe commesso dando a suo figlio l’abbraccio dell’orso.
Giunto a casa abbracciò il suo bimbo per alcuni secondi, poi si rese conto che il piccolo cominciava a muovere le gambe e braccia come per dimostrare il suo bisogno di libertà, senza che nessun orso protettivo lo ostacolasse.
Da quel giorno l’uomo cominciò a prepararsi per diventare il migliore dei padri.

Brano tratto dal libro “Guida per genitori; PNL con i bambini.” di Eric de la Parra Paz

Ogni cosa è un dono

Ogni cosa è un dono

Sei single e ti manca un partner.
Sei in coppia e ti manca la libertà.

Lavori e ti manca il tempo.

Hai troppo tempo libero e vorresti lavorare.
Sei giovane e vuoi crescere per fare le cose degli adulti.
Sei adulto e vorresti fare le cose dei giovani.

Sei nella tua città ma vorresti vivere altrove.

Sei altrove ma vorresti tornare nella tua città.
Forse è tempo di smettere col guardare sempre a ciò che ci manca e iniziare a vivere nel presente,

apprezzando davvero quello che abbiamo.

Goditi il profumo della tua casa prima di aprire la porta ed uscire a cercare i profumi del mondo.
Perché niente è scontato, e ogni cosa è un dono.
Dagli valore.

Brano tratto dal libro “Sette secondi.” di Oscar Travino

I gessetti colorati

I gessetti colorati

Nessuno sapeva quando quell’uomo fosse arrivato in città.
Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all’uomo.

Qualcuno gettava una moneta sul disegno.

Qualche volta si fermavano e gli parlavano.
Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che Facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare…
L’uomo ascoltava.
Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l’uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene.

Si riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano.

Lo guardavano ed aspettavano:
“Lasciaci qualcosa. Per ricordare…”
L’uomo mostrava le sue mani vuote:
che cosa poteva donare?
Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l’uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente.

Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.

Che cosa fece la gente dei gessetti colorati?
Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’uomo di sale e la donna di zucchero

L’uomo di sale e la donna di zucchero

Ai piedi di una collina, c’era una piccola casetta costruita di sale.
In questa casetta vivevano un uomo di sale e una donna di zucchero.
C’erano dei giorni in cui si amavano e dei giorni in cui si detestavano.
Un giorno si misero a litigare furiosamente.
L’uomo prese un grosso bastone di sale e cacciò la donna.

Gridava come un ossesso:

“Vattene e fatti una casa di mattoni!”
La donna se ne andò piangendo, ma non troppo, perché le sue guance di zucchero rischiavano di sciogliersi.
Si costruì una casetta di mattoni, poco lontano dalla casetta di sale dell’uomo.
Era una casetta di mattoni molto graziosa, con i balconi fioriti e il camino di pietra, ma la donna era triste.
Pensava notte e giorno all’uomo di sale.
Un giorno si decise.
Andò alla casetta di sale e bussò alla porta.

Domandò all’uomo un po’ di sale per la minestra.

Ma l’uomo prese il suo grosso bastone di sale e minacciò la donna:
“Vattene immediatamente o sarà peggio per te!”
La donna tornò a casa piangendo, ma non troppo, per non rischiare di sciogliere le sue guance di zucchero.
Il cielo, grande e pietoso, aveva assistito alla scena e si commosse e cominciò a piangere anche lui.
Così cominciò a piovere.
A piovere a secchiate.
La graziosa casetta di sale cominciò a sciogliersi.
In fretta, fretta, l’uomo corse verso la casetta di mattoni.

Bussò alla finestra:

“Lasciami entrare, ti prego, o questa pioggia mi farà fondere completamente!”
“Ah, ah! È finita la festa!” ridacchiò la donna, “Tu mi hai rifiutato un po’ di sale, adesso arrangiati!”
Ma l’uomo riuscì a trovare parole così gentili e tenere che la donna s’impietosì e gli aprì la porta.
Si gettarono una nelle braccia dell’altro e si scambiarono un lungo bacio dolce-salato.
Ma siccome l’uomo di sale era bagnato fradicio si trovò incollato alla donna di zucchero.
Gli ci volle un bel po’ per asciugare e ritrovare la libertà.
Da quel giorno l’uomo di sale ha la bocca di zucchero e la donna di zucchero ha la bocca salata.
E non litigano più.

Sono proprio le differenze che fanno la ricchezza strabiliante dell’amore…

Brano tratto dal libro “40 Storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il volo di Gea

Il volo di Gea

L’uccellino cinguettava “ciu ciiiiuciu ciu” e i clienti del bar del Signor Antonio entravano volentieri a prendere un caffè nella terrazza per ascoltare il suo canto delicato e trillante come tanti campanellini.
La sua voce argentina sembrava intonare un canto allegro e spensierato per la gioia dei clienti del bar che lo ascoltavano distratti e non vedevano la tristezza e la solitudine nei suoi piccoli occhi di uccellino.
Lui invece cantava ma non di allegria, il suo canto aveva parole tristi e malinconiche che gli ricordavano la sensazione del vento tra le piume delle ali e lo spettacolo magnifico delle chiome degli alberi viste da lassù, volando.

Mentre cantava riusciva a non pensare alle sbarre della gabbietta e alla noia delle giornate che si ripetevano monotone.

Un giorno però successe qualcosa, una bambina entrando nel bar per comprare un gelato ascoltò il suo canto e si sentì improvvisamente triste senza sapere bene il perché.
Allora guardò negli occhi il piccolo uccellino, si accorse che la tristezza veniva proprio da quel canto e si avvicinò alla gabbia.
“Perché sei triste?” sussurrò la bimba.
“Ciu ciiiu ciu!” trillò l’uccellino.
Gea, così si chiamava la bambina, aveva un segreto per capire gli altri anche quando le parole non erano d’aiuto:
si immaginava di essere al loro posto, si metteva nei panni degli altri per capire le loro emozioni.
E così fece, si immaginò di vivere chiusa in una piccola gabbia senza poter correre e giocare con gli amici.
Chiuse gli occhi per concentrarsi e all’improvviso sentì un formicolio alle gambe, come quando stava molto tempo nella stessa posizione:

“Forse è proprio quello che sente quest’uccellino:

di certo gli formicolano le ali per non poterle aprire e forse è triste perché non è libero di volare come gli altri uccelli”, pensò.
Per un momento le sembrò quasi che le fossero spuntate le ali e sentì un forte desiderio di volare in alto nel cielo.
Senza pensarci due volte Gea aprì la piccola gabbia sperando che nessuno la vedesse e l’uccellino la guardò cercando di capire perché quella bambina gli aveva dato la libertà.
Avrebbe voluto dimostrarle la sua gratitudine ma non sapeva come fare, allora fece un ultimo cinguettio di addio e seguì il suo istinto che gli diceva di aprire le ali e volare via.
I clienti del bar senza capire cosa fosse successo si fermarono un istante,

fu una frazione di secondo in cui sembrava che il tempo si fosse fermato.

Nessun cucchiaino suonava contro il bordo della tazza, i ragazzi che scherzavano interruppero le loro risate e persino i cellulari per un attimo smisero di suonare.
In silenzio Gea usci dal bar mangiando il suo gelato e si ritrovò a camminare per strada con lo sguardo rivolto verso il cielo, cercando distrattamente quell’uccellino dallo sguardo triste.
All’improvviso cominciò a sentire il fruscio del vento tra le dita, l’aria fresca le accarezza il viso e il rumore del traffico si sentiva in lontananza, ovattato.
Chiuse gli occhi per assaporare quella sensazione di libertà e, con gli occhi chiusi, vide la città dall’alto, il porto con le barche dei pescatori e le colline alle spalle.
Capi che era il regalo d’addio dell’uccellino, il suo modo di dirle grazie:
stava volando con lui e osservando il mondo con i suoi occhi.

Brano tratto dal libro “Chi ha paura del lupo?” di Viola Mariani

Il nastro bianco

Il nastro bianco

Un giovane era seduto da solo; teneva lo sguardo fisso fuori del finestrino.
Aveva poco più di vent’anni ed era di bell’aspetto, con un viso dai lineamenti delicati.
Una donna si sedette accanto a lui.
Dopo avere scambiato qualche chiacchiera a proposito del tempo, caldo e primaverile, il giovane disse, inaspettatamente:
“Sono stato in prigione per due anni.
Sono uscito questa mattina e sto tornando a casa.”
Le parole gli uscivano come un fiume in piena mentre le raccontava di come fosse cresciuto in una famiglia povera ma onesta e di come la sua attività criminale avesse procurato ai suoi cari vergogna e dolore.

In quei due anni non aveva più avuto notizie di loro.

Sapeva che i genitori erano troppo poveri per affrontare il viaggio fino al carcere dov’era detenuto e che si sentivano troppo ignoranti per scrivergli.
Da parte sua, aveva smesso di spedire lettere perché non riceveva risposta.
Tre settimane prima di essere rimesso in libertà, aveva fatto un ultimo, disperato tentativo di mettersi in contatto con il padre e la madre.
Aveva chiesto scusa per averli delusi, implorandone il perdono.
Dopo essere stato rilasciato, era salito su quell’autobus che lo avrebbe riportato nella sua città e che passava proprio davanti al giardino della casa dove era cresciuto e dove i suoi genitori continuavano ad abitare.

Nella sua lettera aveva scritto che avrebbe compreso le loro ragioni.

Per rendere le cose più semplici, aveva chiesto loro di dargli un segnale che potesse essere visto dall’autobus.
Se lo avevano perdonato e lo volevano accogliere di nuovo in casa, avrebbero legato un nastro bianco al vecchio melo in giardino.
Se il segnale non ci fosse stato, lui sarebbe rimasto sull’autobus e avrebbe lasciato la città, uscendo per sempre dalla loro vita.
Mentre l’automezzo si avvicinava alla sua via, il giovane diventava sempre più nervoso, al punto di aver paura a guardare fuori del finestrino, perché era sicuro che non ci sarebbe stato nessun fiocco.

Dopo aver ascoltato la sua storia, la donna si limitò a chiedergli:

“Cambia posto con me.
Guarderò io fuori del finestrino.”
L’autobus procedette ancora per qualche isolato e a un certo punto la donna vide l’albero.
Toccò con gentilezza la spalla del giovane e, trattenendo le lacrime, mormorò:
“Guarda! Guarda!
Hanno coperto tutto il giardino di nastri bianchi.”

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero

Un complesso particolare

Un complesso particolare

C’era una volta un complesso di sette strumenti musicali:
erano un pianoforte, un violino, una chitarra classica, un flauto, un sassofono, una cornetta e una batteria.
Vivevano nella medesima stanza, ma non andavano d’accordo.
Erano così orgogliosi che ognuno pensava di essere il re degli strumenti e di non aver bisogno degli altri.
Non solo, ma ciascuno voleva suonare le melodie che aveva nel cuore e non accettava di eseguire uno spartito.

Tutti ritenevano ciò una imposizione intollerabile che violava la loro libertà di espressione.

Quando al mattino si svegliavano ognuno cominciava a suonare liberamente le proprie melodie e per superare gli altri usava i toni più forti e violenti.
Risultato: un inferno di caotici rumori.
Una notte capitò che la batteria non riuscisse a chiudere occhio per il nervoso.
Per passare il tempo cominciò a scatenarsi con le sue percussioni.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Per la prima volta tutti gli strumenti si trovarono d’accordo su una cosa:

la decisione di andare ognuno per conto suo.

Stavano per uscire quando alla porta bussò una bacchetta con uno spartito in cerca di strumenti da dirigere.
Parlando con garbo e diplomazia chiese loro di fare una nuova esperienza, quella di suonare ognuno secondo la propria natura, ma con note, ritmi e tempi armonizzati.
“Con un occhio guardate lo spartito, con l’altro i miei cenni, dopo che avrò dato il via.” disse la bacchetta.
Un po’ perché erano molto stanchi del caos in cui vivevano,

un po’ per la curiosità di fare una nuova esperienza, accettarono.

Si misero a suonare con passione dando ognuno il meglio di se stesso e con una obbedienza totale alla bacchetta… magica.
A mano a mano che andavano avanti si ascoltavano l’un l’altro con grande piacere.
Quando la bacchetta fece il cenno della fine un’immensa felicità riempiva il loro cuore:
avevano eseguito il famoso Inno alla gioia di Beethoven.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La sabbia in un pugno


La sabbia in un pugno

Una mamma e un bambino stanno camminando sulla spiaggia.
Ad un certo punto il bambino chiede:
“Come si fa a mantenere un amore?”

La mamma guarda il figlio e poi gli risponde:

“Raccogli un po’ di sabbia e stringi il pugno.”
Il bambino stringe la mano attorno alla sabbia e vede che più stringe più la sabbia gli esce dalla mano.
“Mamma, ma la sabbia scappa!” esclama il bambino.

“Lo so, ora tieni la mano completamente aperta.” risponde la mamma.

Il bambino ubbidisce, ma una folata di vento porta via la sabbia rimanente.
“Anche così non riesco a tenerla!” replica il bambino.
La mamma sempre sorridendo:

“Adesso raccogline un altro po’ e tienila nella mano aperta come se fosse un cucchiaio…

Abbastanza chiusa per custodirla e abbastanza aperta per la libertà.”
Il bambino riprova e la sabbia non sfugge dalla mano ed è protetta dal vento.
“Ecco come far durare un amore…”

Brano senza Autore, tratto dal Web