Il filo d’oro

Il filo d’oro

Massimo era un ragazzino davvero strano:
gli piaceva tantissimo sognare ad occhi aperti.
Soprattutto a scuola, quando la lezione non gli interessava molto.
Il maestro, che lo considerava intelligente ma svogliato, gli chiese un giorno, un po’ seccato:
“A cosa stai pensando, Massimo?
Perché non stai attento?”
“Sto cercando di immaginare cosa farò da grande!” rispose il ragazzino.
“Oh, non è una bella cosa!” replicò il maestro, “Cerca di godere quest’età meravigliosa e spensierata e spera che gli anni della giovinezza scorrano lentamente!”
Massimo non riusciva a capire le parole del maestro.

A lui non piaceva aspettare.

Infatti, quando era inverno e pattinava sul ghiaccio, non vedeva l’ora che arrivasse l’estate per poter nuotare; quando poi arrivava la tanto sospirata estate, desiderava l’autunno per poter giocare con il suo aquilone sul grande prato dei giardini pubblici.
Insomma, se qualcuno chiedeva a Massimo quale fosse la cosa che più desiderasse al mondo, riceveva una risposta ben precisa:
“Io vorrei che il tempo passasse in fretta…”
Un giorno d’estate, Massimo si fermò a riposare dopo una corsa sulla panchina del parco.
All’improvviso si sentì chiamare:
si voltò di scatto e vide una vecchietta che lo osservava con dolcezza.
La vecchietta mostrò al ragazzo una scatoletta d’argento con un forellino da cui usciva un filo d’oro e gli disse:
“Guarda, Massimo.
Questo filo sottile è il filo della tua vita.
Se proprio desideri che il tempo per te trascorra velocemente, non devi far altro che tirare un po’ il filo.
Un piccolissimo pezzo di filo corrisponde ad un’ora di vita.
Soltanto, ricordati di non dire a nessuno che possiedi questa scatoletta, altrimenti morirai il giorno stesso!

Tienila, e buona fortuna!”

La vecchietta consegnò al ragazzo la scatoletta e scomparve.
Massimo, tornò a casa, saltellando, con la scatoletta in tasca.
Il giorno dopo, a scuola, il maestro si accorse che Massimo era più distratto del solito e gli fece una bella lavata di capo:
“Ecco!
Sei sempre con la testa fra le nuvole!
Finirai bocciato, te lo posso garantire, se continui così…”
Massimo era veramente stanco di sentir predicozzi e pensò di usare il filo per accorciare le giornate di scuola.
In pratica quasi ogni mattina, tirava un pezzettino di filo e così, appena entrato in classe, sentiva la voce del maestro che diceva:
“Le lezioni sono finite.
Potete andare a casa!”
Il ragazzo era felicissimo:
la vita era un susseguirsi di giornate di vacanza e di giochi all’aria aperta.
Trascorsi un po’ di giorni, però, Massimo cominciò ad annoiarsi e pensò:

“Oh, come sarebbe bello aver già finito la scuola e poter lavorare!”

Una notte in cui non riusciva ad addormentarsi, Massimo decise di dare una bella tiratina al filo e così, la mattina seguente, si svegliò che aveva i baffi, faceva l’ingegnere e aveva messo su una bella fabbrica.
Era molto felice del suo mestiere e per un po’ tirò il filo con moderazione, giusto solo per far arrivare in fretta i soldi a fine mese.
Un giorno, però, un particolare turbò Massimo per un momento:
la sua mamma era invecchiata, aveva già molti capelli grigi.
Si pentì di aver tirato così spesso il filo magico e promise a se stesso che, ora che era grande, non l’avrebbe fatto più.
“Sembra anche a te che tutto sia passato in un soffio?” gli chiedeva la mamma.
Massimo non poteva rispondere e si sentiva molto triste.
Un giorno che sonnecchiava nel parco, sulla solita panchina, il vecchio Massimo si sentì chiamare.
Aprì gli occhi e vide la vecchina che, tanti e tanti anni prima, gli aveva regalato la scatoletta con il filo magico.

“Allora Massimo, com’è andata?

Il filo magico ti ha procurato una vita felice, secondo i tuoi desideri?” gli chiese.
“Non saprei…
Grazie a quel filo non ho mai dovuto attendere o soffrire troppo nella mia vita, ma ora mi accorgo che è passato tutto così in fretta ed eccomi qui, vecchio e debole…” spiegò lui.
“Ah, sì?” disse la vecchina, “E che cosa vorresti, allora?”
“Vorrei tornare ragazzino!” esclamò disse Massimo con un po’ di vergogna, “E poter rivivere la mia vita senza il filo magico.
Vivere come tutte le altre persone e accettare tutto quello che la vita mi riserva, senza più essere impaziente!”
“Lo desideri davvero?” domandò allora l’anziana signora.
“Sì!” disse Massimo senza esitare un attimo, “Quello che ho passato in questi anni mi è servito di lezione e sono sicuro che non ricadrei più negli stessi errori!”
“Se è così, sono davvero felice.
Vedrai che ora gusterai di più la vita e sarai in grado di apprezzarne anche i momenti di fatica e di sconforto che senz’altro incontrerai nel tuo cammino.
Ora non ti resta che restituirmi la scatoletta e…

Buona fortuna, Massimo!”

Appena Massimo pose nella mano della vecchina la scatoletta, cadde in un sonno profondo.
“Ehi, dormiglione!
Sveglia!”
Massimo aprì gli occhi e si trovò nel suo letto, con la mamma (giovane e bella) che lo guardava dolcemente.
Corse allo specchio e vide il suo solito volto paffuto da ragazzino.
Baciò e abbracciò la mamma come fossero cent’anni che non la vedeva più.
Si lavò e si vestì in un baleno, mangiò la colazione come un fulmine e partì per la scuola.
Per la strada incontrò Marta, che era anche lei la solita bambina bionda.
La prese per mano e mentre correvano sul marciapiede le disse:
“Ho un sacco di cose da raccontarti…
Ma tu lo sapevi che la nostra età è la più bella?”

Brano senza Autore

Mamma, ribassa

Mamma, ribassa

Isabella aveva dovuto sostituire suo marito nella gestione della casa e della piccola fattoria.
Il marito era emigrato in Francia a fare il bracciante agricolo stagionale per la raccolta delle barbabietole da zucchero.
Quando non aveva impegni scolastici,

Isabella veniva aiutata da suo figlio maggiore.

Avevano una stalla con diverse mucche da governare, ed Isabella si lamentava con il marito per la carenza di fieno, che doveva comprare a caro prezzo.
Questi acquisti, per lei, stavano diventando davvero onerosi.
Attraverso una fitta corrispondenza attraverso la posta, concordarono di vendere la mucca che avrebbe fruttato più soldi, chiamando il solito commerciante di fiducia.
Isabella aveva più volte assistito alle trattative di suo marito e decise di applicare quanto aveva appreso.

Allo stesso tempo pensò di insegnare al ragazzo come condurre una trattativa vantaggiosa.

Elogiò la salute della mucca, la beltà, la mitezza e l’ottima ed abbondante produzione di latte.
Concordarono un prezzo, che parve equo ad entrambi, e stabilirono la caparra, ma improvvisamente il commerciante ebbe un ripensamento circa la presunta età della bestia.
Isabella ebbe un sussulto di orgoglio e volle mostrare al commerciante che anche lei, sebbene donna, sapesse come si stabilisce l’età di una mucca, dallo stato della dentatura.
Per fermare la testa della bestia, che nel frattempo si era innervosita perché troppo bistrattata, fu costretta ad entrare nella greppia e nel fare questa operazione gli si era alzata, senza che se accorgesse, la gonna.

Il figlio, imbarazzato, disse subito:

“Mamma! Mamma, ribassa!”
Isabella prontamente rispose:
“No che non ribasso, dopo aver guardato e stimato da commerciante del mestiere.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il giocoliere di Notre Dame

Il giocoliere di Notre Dame

C’era un giocoliere, nativo di Compiègne, paesino nel nord-est della Francia, che tanti secoli fa girava le piazze dei paesi divertendo la gente con i suoi giochi di destrezza.
Un suo pezzo forte era quello di mettersi con la testa all’ingiù e, sostenendosi sulle mani, buttare in aria sei palle di rame e prenderle con i piedi.
Un altro numero rinomato era quello di arrotolarsi come una palla in modo che i suoi piedi toccassero la nuca e in quella posizione maneggiare dodici coltelli.
La gente sbarrava gli occhi per la meraviglia e volentieri sganciava qualche monetina.
Durante la buona stagione, la cosa funzionava discretamente e Barnabé, questo era il nome dell’uomo, viveva dignitosamente.
La situazione, invece, diventava molto difficile con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno, quando,

a causa del freddo, non si poteva esibire.

Il nostro amico pativa la fame, ma lui era timorato di Dio e molto devoto della Vergine Maria, perciò non si lamentava, tantomeno imprecava o bestemmiava come invece facevano altri giocolieri.
Un giorno, nel suo vagabondare da un paese all’altro, incontrò un monaco, a cui aprì il cuore:
gli disse che il suo sarebbe stato il più bel mestiere del mondo, se non fosse stato per le ristrettezze e la fame che tante volte era costretto a sopportare.
Al che il suo compagno di strada ribatté che il più bello stato di vita era quello dei monaci, perché in convento essi potevano celebrare ogni giorno le lodi a Dio, alla Vergine ed ai Santi, sicché la loro vita era un continuo cantico al Signore.
Nella semplicità del suo cuore, Barnabé restò ammaliato dal racconto e chiese di entrare in convento.
Quando arrivò in convento, vide che tutti i monaci, secondo le loro doti e capacità,

servivano Dio e veneravano la Vergine:

alcuni scrivendo dei libri e degli inni, altri dipingendo o facendo delle miniature, altri ancora scolpendo o svolgendo i lavori più umili…
Barnabé, ignorante com’era, si rese conto di non saper fare nulla di tutto questo e si senti immediatamente molto triste ed umiliato.
Ad un certo punto, però, i suoi confratelli si accorsero che il suo umore era cambiato:
non era più triste e non si lamentava più.
Incuriositi ed insospettiti, lo pedinarono e, un giorno, lo scoprirono in cappella, dove davanti all’altare della Vergine stava eseguendo in suo onore i numeri che un tempo erano i più ammirati nelle piazze dei paesi:
quello con le sei palle di rame e quello con i dodici coltelli.

Che cosa gli era venuto in mente?

Di lodare la Vergine con le uniche cose che sapeva fare.
I monaci gridarono allo scandalo ed il priore, pur conoscendo la sua semplicità d’animo, lo considerò matto e tentò di trascinarlo a forza fuori dalla cappella, ma a quel punto successe qualcosa che fece rimanere tutti di stucco:
miracolosamente la Vergine scese dall’altare, si avvicinò a Barnabé e con il manto gli asciugò il sudore che gli rigava la fronte.

Favola medioevale.
Brano di Daniele Cunial

Ciao amore!

Ciao amore!

Nelle mie zone, qualche anno fa, viveva una eccentrica signora, molto singolare e leggera nel suo stile di vita, che assaporava senza remore bacco, tabacco e “venere”, avendo esercitato, in passato, il più antico mestiere del mondo in un bordello di periferia.
Tornata in paese per la chiusura delle case chiuse per effetto della legge Merlin e con la pensione,

la signora attraversava continuamente il paese con i suoi vestitini sgargianti.

Aveva spesso dei fiori tra i capelli a mo’ di corona, il rossetto sempre di un rosso acceso sulle labbra ed anche sulle guance, e girovagava quasi sempre con un mazzo di fiori in mano.
Fiori che sottraeva in chiesa o al cimitero per poi riportarli in un’altra chiesa o al cimitero stesso.
Salutava tutti con un “Ciao Amore!” ed era conosciuta con questo nome.
Era un personaggio “Felliniano” dal bel volto con capelli corvini, e fu sempre testimone di libertà,

non soggetta a regole e convenzioni.

A “Ciao Amore!” un giorno diedero fuoco alla baracca di legno dove abitava e fu messa in una struttura per anziani facendosi ben volere da operatori e ospiti.
Il regalo che più gradiva era un vasetto di cipolline sotto aceto che divorava come fossero cioccolatini, prendendole con le mani.
Il suo funerale fu a cura del comune, non avendo parenti e figli, ed una sconosciuta signora anch’essa eccentrica, cantò a cappella una Ave Maria che commosse tutti.

Quando qualcuno ricordava a “Ciao Amore!” la sua vita libertina,

ella con una risata rispondeva:
“Vi precederò in paradiso!”
Luogo dove io la immagino.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Due cuori in un armadio

Due cuori in un armadio

Mi racconto.
Correva l’anno 1966 e, poco più che quattordicenne, a causa degli insuccessi scolastici, andai a fare l’apprendista in un laboratorio calzaturiero, con l’intento di imparare il mestiere, così come si usava in quel periodo.
Per i primi due mesi, quelli di rodaggio per intenderci,

i proprietari non mi misero in regola e lavorai in nero.

Però anche in quel periodo i locali subivano delle ispezioni per i continui infortuni e per l’evasione fiscale.
Fuori regola eravamo io ed una coetanea, una bella e vispa ragazzina di cui mi innamorai, platonicamente, subito.
I proprietari avevano istallato un campanello d’allarme e in caso di ispezione,

noi due dovevamo nasconderci dentro un armadio non molto grande.

Un giorno suonò l’allarme e ci precipitammo dentro questo armadio.
Fu una emozione forte, io sentivo il suo respiro ed il suo profumo.
Mi trovai per la prima volta a contatto ravvicinato con l’altro sesso ed il mio cuore cominciò a battere all’impazzata,

così tanto che credetti di svenire.

Nell’oscurità totale e in quel silenzio inquietante, lei prese la mia mano e se la portò al cuore sfiorandomi con un bacio.
Nessuna parola potrà mai descrivere l’emozione di due cuori quattordicenni in un armadio.
Capì solo più tardi di essere stato, rispetto a lei, un imbranato apprendista.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il sogno nel cassetto

Il sogno nel cassetto

Era una sera d’autunno e, alla periferia di un grande città, dei “topi da appartamento” entrarono in una viletta per fare razzia.
Da esperti del mestiere individuarono immediatamente

un cassetto chiuso con una serratura.

I ladri pensarono subito ad un ricco bottino di denaro o a dei gioielli preziosi.
Aperto dopo varie peripezie il cassetto, vi trovarono dentro, rimanendo estremamente sorpresi, solo una foto incorniciata di una giovane coppia,

immortalata nel giorno del loro matrimonio,

con la sposa su una carrozzina per disabili ed un paio di scarpette di lana per neonati.
I malviventi non trovarono il tesoro agognato, ma solo il sogno nel cassetto di una giovane coppia desiderosa di avere un figlio.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Con devozione

Con devozione

Una volta, tanto tempo fa, due anziane suore sbagliarono fermata con il treno, e scesero alla stazione successiva rispetto al luogo in cui era ubicato il loro convento.
Data la tarda ora, non ci sarebbe stata nessuna altra corsa per poter rimediare.

Consigliate, si rivolsero ad un carrettiere che, con il suo cavallo,

le avrebbe portate a destinazione, essendo questo il suo mestiere.
Interpellato, confermò che le avrebbe accompagnate, ed anche gratis, ma sarebbe stato molto difficile, perché il cavallo non si sarebbe spostato in alcuna maniera se lui non avesse detto prima una bestemmia,

come si usa purtroppo in Veneto.

La suora più anziana, per niente scandalizzata dall’affermazione del carrettiere, replicò:
“Buon uomo, noi dobbiamo per forza rientrare data la tarda ora e se proprio deve dire questa parolaccia, la dica con devozione!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Lo spaccapietre di Estimj


Lo spaccapietre di Estimj

Fin dai tempi dei tempi esisteva a Vergny lo spaccapietre.
Il mestiere era antico e se lo trasmettevano di padre in figlio da trentotto generazioni.
Sullo spaccapietre di Vergny ci si poteva contare: guerra o pace, abbondanza o carestia, lui ci sarebbe sempre stato.
Chi andava a Vergny sapeva che ce l’avrebbe trovato.
Così si credeva ma così non fu per sempre.
Un giorno il Sindaco di Vergny si presentò all’ultimo degli spaccapietre e gli disse:
“Ho una bella sorpresa per te: finalmente smetterai di faticare!”

Lo spaccapietre abbassò il martello e rispose:

“Cosa potrebbe sostituirmi se non mio figlio, così come io sostituii mio padre?”
Il sindaco rise e lo invitò a seguirlo fino ad un casolare fuori città, proprio sotto la montagna.
Quindi lo introdusse in una grande stanza, dalle volte altissime, imbiancata di fresco.
Una volta dentro il Sindaco indicò un enorme telo al centro della stanza che copriva qualcosa di davvero imponente e, ancora ridendo, continuò:
“Ecco cosa ti sostituirà!”
Quindi tirò via il telo e scoprì una gigantesca macchina fatta di infiniti rulli ruotanti di varie dimensioni.
“Bella, vero?
È l’ultima novità del progresso meccanico nel campo delle pietre.
Siamo il primo comune ad averla, nel paese e nell’Europa intera.
Ci aspettano anni di prodigi e di traffici intensi.”
Lo spaccapietre rimase con la bocca aperta per qualche minuto.
Infine disse, iniziando a girare intorno alla struttura luccicante:
“Ma come sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire che da domani sei in pensione.
La fabbrica, come vedi, è già pronta.

Non sei contento?”

“Ma…” provò a replicare lo spaccapietre.
“Non preoccuparti: non morirai di fame.
La pensione che ti darò sarà congrua ai tuoi cinquanta anni di fatiche.”
Così detto schiacciò un bottone e la macchina prese a digerire sassi grossi quanto piccole montagne con la voracità di un dinosauro.
Lo spaccapietre si sentì gelare.
“E…” tentò nuovamente di rispondere lo spaccapietre.
“E tuo figlio dovrà trovarsi un altro mestiere, come ogni bravo giovane che si rispetti.
Non è il primo, non sarà l’ultimo.
Non c’è niente di male in questo.”
Il rumore divenne assordante.
“Però…” provò ad obiettare lo spaccapietre.
“La fabbrica andrà avanti da sola.
Come vedi è progettata per non essere governata da nessuno.
Uno dei nostri operai verrà qui di tanto in tanto per vedere se tutto funziona come deve.”
replicò il sindaco.

“Sì ma…”

Mentre parlava, lo spaccapietre venne interrotto nuovamente dal sindaco:
“Niente ferie, niente malattia.
In un giorno spaccherà le pietre che tu spaccavi in un anno, direttamente dentro la montagna.
Ti fa invidia, vero?
Vorresti avere la sua forza?
I suoi denti?
Le sue braccia possenti?
Niente da fare, sei solo un uomo.
Mettiti il cuore in pace.”
“E…” provò ad aggiungere inutilmente.
“Può bastare.
Ti accompagno a casa.
Sii felice e goditi la tua vecchiaia.
Il tuo mestiere lo lasci in buone mani.” concluse il sindaco.
Una volta a casa lo spaccapietre si accasciò davanti al camino.
Doveva dire a suo figlio, che già era apprendista spaccapietre, di cercarsi un altro mestiere.
Le lacrime gli scesero sulla zuppa e le mangiò insieme ai fagioli.
Sua moglie non seppe fare altro che massaggiargli i calli delle mani, come ogni sera.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non le venne tra le labbra nessuna buona parola.
Le uniche che seppe pronunciare furono:

“Ti insegnerò a ricamare le tovaglie!”

Dopo di queste non disse più niente.
Lo spaccapietre le prese per buone e non fu contento.
Sperava che avrebbe aiutato suo figlio fino alla morte, come suo padre con lui.
Quindi le rispose:
“Grazie, ma le tovaglie le lascio volentieri a qualcun altro.”
E così dicendo si addormentò piangendo.
Un mese dopo il figlio partì con il primo treno per il sud.
Era grande abbastanza per andare a cercarsi lavoro da solo, dovunque vi fosse stato.
Per consolare il padre, già sopra il treno, gli disse che quel mestiere, in fondo, non gli piaceva.
Che era felice di partire.
Che avrebbe trovato di meglio, senza dover rinunciare ad una famiglia, ad una casa e ad un buon pasto ogni giorno della settimana.
“Sei sicuro? Forse… cercando… insistendo…” chiese amorevolmente il padre.
“Sono sicuro!” rispose il figlio.
Lo spaccapietre fece finta di non sentire e lo lasciò partire.
Ricordava i giorni in cui gli spiegava i dettagli del suo lavoro.
Le prime pietre, immense, tra le mani.
I primi lavoretti d’apprendistato.

I primi calli.

Tutto era perduto.
Rimase con lo spaccapietre e sua moglie la giovane figlia.
Povera disgraziata!
Sarebbe cresciuta figlia di un pensionato senza mestiere, nessuno se la sarebbe presa in casa, nemmeno come serva.
Passarono così tre mesi senza gioie e senza miserie.
Finché una mattina lo spaccapietre si levò di buon’ora e si mise in cammino.
La pensione gli bastava per mangiare ma, da quando non aveva più un mestiere, non aveva più fame.
E poi c’era da mettere da parte la dote per la figlia, se la voleva maritare bene.
“Parto.” disse alla moglie.
“E dove vai? Sei vecchio.” lei gli rispose.
“Arriverò a Estimj e lì mi venderò al mercato.” replicò lui.
“E chi ti comprerà? Sei vecchio.” aggiunse lei.
“Qualcuno mi comprerà.
Poi tornerò e vi porterò con me.” rispose tranquillamente lui.
“Se tornerai!… sei vecchio.” ripetè nuovamente la moglie.

“Sai dirmi solo questo?” chiese lo spaccapietre.

Aveva deciso di passare la montagna per raggiungere Estimj, la grande città accanto al fiume.
Una volta lì avrebbe offerto la sua arte e la sua esperienza al miglior offerente.
Certo, sapeva fare soltanto lo spaccapietre, ma era già qualcosa.
Di sicuro avrebbe trovato qualcuno in grado di apprezzare le sue doti e la sua abilità.
Poi avrebbe richiamato con sé la sua famiglia e sarebbe invecchiato contento.
Avrebbe regalato alla figlia una bella dote e l’avrebbe sposata ad un uomo di giudizio.
Infine sarebbe morto come tutti i vecchi e al suo funerale la città avrebbe pianto.
Camminando su per la montagna giunse al grande fiume che divideva le due città di Vergny e di Estimj.
Si era già preparato a passare oltre quando vide che di là dal ponte la strada era interrotta.
Una grande frana, scendendo dalla montagna, l’aveva interamente sommersa.
“Come farò a raggiungere la città?” pensò.
Poi, vista la gravità della situazione, considerando che non aveva fretta, passò il ponte, si tolse la giacchetta e si mise subito a lavorare.
Era importante ripristinare quanto prima la via maestra.
Del resto erano mesi che non pesava più una sola pietra.

Un po’ di sana fatica l’avrebbe ritemprato.

Dopo alcune ore di lavoro, spostando e spezzando pietra su pietra, con attrezzi rudimentali, si trovò fra le mani il corpo di una giovane donna.
La ragazza, ferita, era svenuta ma ancora in vita.
Aveva soltanto bisogno di calore, riposo e cure.
“Adesso devo andare in città.
Questa giovane ha bisogno d’essere medicata.
E manca poco all’apertura del mercato.
Fortuna che ho quasi finito.
Il resto del lavoro, poche pietre, lo potrà compiere qualcuno degli addetti alla manutenzione delle strade.”
Detto questo si caricò la giovane sulle spalle e partì.
Appena in città lo spaccapietre consegnò la giovane ad un’infermiera dell’ospedale e si recò al mercato.
“Hei… lei… dove scappa?” chiese l’infermiera.
“Devo andare assolutamente al mercato!” rispose il vecchio spaccapietre.

“Ma questa giovane?” continuò l’infermiera.

“Era sepolta sotto una frana, accanto al ponte.
Presto, non perda tempo con me: è ancora in vita!” replicò lui.
“Ma lei: come si chiama?
Qualcuno vorrà sapere!” provò ad aggiungere l’infermiera.
“Che importa, infermiera: le salvi la vita, il resto andrà da sé!” concluse.
“Vendesi fatica di spaccapietre esperto.
Cinquant’anni di lavoro e di maestria.
Opere pulite e senza polvere…”
Il mercato era pieno d’ogni ben di dio.
Lo spaccapietre si mise in mostra, urlò come tutti gli altri e aspettò per l’intera mattinata.
Non lo volle comprare nessuno.
Qualcuno gli chiese di dare dimostrazione della sua forza.
Ci provò ma era talmente stanco, dopo tutto quel lavoro notturno, che non riuscì a sollevare nemmeno un sassolino.
“A Vergny c’è una macchina che trita la montagna senza una sola goccia di sudore!” gli dissero.
“Che costa poco e che lavora parecchio.

Soprattutto senza un’ombra di difetto.

Si dice che nessuno le faccia da guardia e che faccia tutto da sola.
A Vergny stanno arricchendo a vista d’occhio.
Tutti vanno a Vergny per le pietre.
A che serve, ormai, uno spaccapietre?”
Era seduto sconsolato sui gradini del Duomo, a stomaco vuoto, quando sentì da una radio accesa accanto ad una finestra aperta la seguente notizia:
“Questa mattina la figlia del Gran Magnate del Tabacco di Estimj, ancora priva di sensi, è stata lasciata in ospedale da uno sconosciuto.
La giovane, sveglia da circa un’ora, ha raccontato d’aver perso conoscenza vicino a Ponte Salvo, sepolta da una frana.
Sta bene e, per sua fortuna, non ha riportato alcuna lesione né interna né esterna.
Solo qualche graffio e qualche esile ferita.
Ma poteva andarle molto peggio.
Il Sindaco di Estimj si è detto disponibile, come segno di riconoscenza e a nome della città tutta, ad esaudire qualsiasi desiderio gli sia fatto pervenire dallo sconosciuto salvatore, purché si presenti!”
La notizia sollevò il morale dello spaccapietre, che si alzò e si mise in cammino verso il Municipio della grande città.
“Gli chiederò la grazia di darmi lavoro come spaccapietre in questa città.

È grande e ne avrà bisogno.

E inoltre di permettermi di trasferire con me anche mia moglie e mia figlia e di trasmettere la mia arte e il mio mestiere a mio figlio, come da trentotto generazioni avviene nella mia famiglia.
E di farmi vivere contento finché non sarò sepolto.”
Al Municipio lo spaccapietre fu ammesso a colloquio ma non fu creduto.
La storia che raccontò sembrava combaciare con quella narrata dalla figlia del Gran Magnate del Tabacco, ma chi la raccontava era troppo vecchio per una simile opera, gli rispose il Sindaco in persona, e troppo stolto.
“Le assicuro che ero proprio io, sulla montagna…” disse lo spaccapietre.
“Basta così! L’accuso di attentare al buon nome della città, nonché alla mia buona fede personale e a quella del Gran Magnate del Tabacco.”
Così dicendo il Sindaco chiamò le guardie e lo fece rinchiudere in galera.
La notizia dell’arresto corse in fretta per l’intera città e anche oltre:
“Un vecchio spaccapietre, licenziato dal suo lavoro per inedia, ha rivendicato il salvataggio della giovane figlia del Gran Magnate del Tabacco.
Fonti ben informate raccontano che, per la sua buona azione, abbia chiesto in ricompensa una casa, un lotto di terra, un conto milionario in una banca fuori paese, un posto alle Poste per il figlio debosciato, un marito barone per la figlia svergognata, una pensione d’invalida per la moglie nullatenente e per se stesso una vasca idromassaggio, un cane di razza e un’amante fotomodella di non più di ventidue anni.

È stato arrestato per menzogna acclamata.”

Fortunatamente i giornali pubblicarono anche la sua foto.
La città ci sputò sopra ma l’infermiera che quella mattina aveva accolto la ragazza lo riconobbe e testimoniò per lui in tribunale.
Il pianto della giovane donna salvata, nel sentire la voce dell’anziano spaccapietre mentre raccontava ancora una volta tutta la storia, fu la prova decisiva della sua buona fede.
Il Gran Magnate del Tabacco pianse con la figlia e gli regalò una scatola di sigari in legno d’abete.
Dopo quindici mesi lo spaccapietre di Vergny venne così rilasciato con le scuse della Magistratura, del Tribunale, della Corte, del Guardiacella e del Sindaco in persona.
“Mi chieda qualsiasi cosa: ho con lei un enorme debito da saldare!”
Lo spaccapietre non sapeva più cosa chiedere.
In tutto quel tempo il figlio aveva trovato un buon lavoro come netturbino, la figlia si era fidanzata con un promettente banchiere figlio di banchieri e lui era invecchiato a vista d’occhio.
Adesso le pietre le poteva solo carezzare.
“Vorrei tornare a casa, e niente più.”
Il Sindaco crollò di schianto.
Stava preparando la sua ricandidatura al seggio più alto della città e voleva presentarsi ai suoi concittadini con un gesto di grande impatto emotivo.
Tirò le somme e pronunciò:
“Se non chiede nulla le darò io qualcosa.”
Così detto tirò fuori da un cassetto una grossa chiave d’oro.
“Le consegno le chiavi della città!

Da oggi sarà questa la sua casa!”

“Il Municipio?” chiese il vecchio spaccapietre, ingenuamente.
“Ma no!” proseguì il Sindaco ridacchiando:
“La città intera.
Scelga una casa e sarà sua.
Un giardino e sarà suo.
Un pezzo di terra e sarà suo.
Al resto penserò io, purché si sappia.
Le farò avere un congruo compenso e una congrua pensione.
Il tutto a spese del paese.
Lo spaccapietre ringraziò per l’offerta e scelse la casa più modesta.
La scelse perché da ogni finestra si poteva vedere la montagna.
Che poi avesse un solo bagno, due stanze e una cucina non gli importava.
Si fece fare pure una rimessa per i suoi attrezzi e le sue pietruzze.
Già si vedeva a fabbricare piccoli portavasi in marmo sotto l’ombra di un pino nei pomeriggi estivi.
Quindi invitò la moglie a raggiungerlo e maritò la figlia e il figlio; e tutto proseguì per il meglio.
La conclusione, dopo tanti anni, si può ancora leggere nella targa affissa a Estimj in Piazza Mastù, proprio di fronte al Duomo:
“Qui riposò un giorno lo spaccapietre che spostò una montagna, salvò una donna e recitò canzoni per il carcere circondariale.”

Brano senza Autore, tratto dal Web